Peculato e truffa aggravata: quali differenze per l’art.61 n.9 cod. pen.?

In cosa il delitto di peculato si distingue da quello di truffa aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 9, cod. pen..

(Riferimenti normativi: Cod. pen., art. 314; 640, 61, n. 9)

    Indice

  1. Il fatto
  2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
  3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
  4. Conclusioni

1. Il fatto

La Corte di Appello di Lecce confermava sostanzialmente la sentenza con cui l’imputata era stata condannata per il reato di peculato.

In particolare, all’accusata, medico dipendente di una Asl, operante in regime di attività libero professionista intramuraria (c.d. intramoenia allargata) autorizzata presso il suo studio professionale privato, era contestato di essersi appropriata della somma di 1.250 euro corrispondere al 15,93 % della somma ricevuta da alcune pazienti.

2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputata, che deduceva i seguenti motivi: 1), 2) e 3) violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità in quanto, secondo la ricorrente, la condotta sarebbe stata lecita o al più riconducibile al reato di truffa in danno della Asl, non delle pazienti posto che l’artificio e il raggiro sarebbe costituito nella mancata fatturazione e nella mancata comunicazione alla Asl del mutamento dello studio in cui le visite erano state eseguite e la Asl sarebbe stata indotta in errore sul rispetto del vincolo e sulla spettanza dei benefici economici: l’omesso versamento costituirebbe l’effetto di una pregressa condotta illecita (a tal fine si richiamava testualmente la motivazione di Sez. 2, n. 30798 del 2012 (dove si fa riferimento alla indennità esclusiva e di posizione) di Sez. 6, n.33150 del 2012); oltre a ciò, era altresì fatto presente che, ai fini della configurazione del reato di peculato, il possesso deve essere conseguito nell’ambito di un’attività lecita, atteso che, diversamente, cioè quando esso consegua da un’attività che si ponga in contrasto con la legge, il rapporto d’ufficio sarebbe interrotto e dunque non sussisterebbe il reato, tenuto conto altresì del fatto che la violazione posta in essere dall’imputata sarebbe stata grave al punto da legittimare la sospensione del sanitario- ai sensi del regolamento per l’attività libero professionale intramuraria del personale dipendente della dirigenza medica approvato con delibera n. 3755 del 25.11.2009- e dunque ci sarebbe stata una condotta interruttiva del nesso funzionale tra l’incarico ricevuto e la prestazione eseguita; sempre secondo il ricorrente, infine, nei casi come quello in esame, non sarebbe stato nemmeno ravvisabile il delitto di truffa per assenza di una condotta decettiva; 4) mancata assunzione di una prova decisiva quanto al giudizio di responsabilità dal momento che, se il peculato non sarebbe stato configurabile, oltre che nel caso di appropriazione scaturita da una situazione contra legem, anche nei casi di affidamento intuitu personae, cioè quando un paziente scelga un medico prescindendo totalmente dal rapporto di questi con la struttura pubblica, nel caso di specie, non vi sarebbe stata la prova che le pazienti si fossero rivolte all’imputata sulla base del rapporto pubblicistico, ma anzi vi sarebbe stata la prova del contrario e, dunque, sarebbe stata errata l’affermazione del Tribunale secondo cui le pazienti sarebbero state indirizzate dalla Asl al medico e che avessero la convinzione di corrispondere quanto dovuto in ragione della esecuzione di una prestazione pubblica; orbene, per il difensore, a fronte di ciò, la Corte territoriale sul punto sarebbe stata silente e si sarebbe limitata ad affermare che il ragionamento difensivo sarebbe inconferente in ragione della non occasionalità della condotta posta in essere dall’imputata; 5) vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 6, cod. pen. per non essere stato integralmente risarcito il danno integrale, avendo l’imputata solo restituito la somma illecitamente trattenuta; 6) vizio di motivazione quanto all’aumento di pena inflitto per continuazione.


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3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso era stimato fondato limitatamente al quinto ed al sesto motivo di ricorso mentre erano stimati infondati i primi quattro motivi, relativi alla responsabilità penale ed alla configurabilità nella specie del reato di peculato.

In particolare, per quanto concerne le doglianze non accolte, gli Ermellini facevano presente come esse fossero inammissibili nella parte in cui si ritiene che i Giudici di merito non avrebbero considerato che le visite furono compiute dall’imputata in ragione di rapporti del tutto privatistici e personali con le pazienti ed in modo del tutto scisso dal contatto di queste con la struttura pubblica che le aveva a lei indirizzate.

Sul punto, infatti, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, l’imputata aveva sollecitato una diversa ricostruzione fattuale e si era limitata a riportare stralci delle dichiarazioni delle pazienti senza confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata in cui la Corte aveva chiarito, richiamando la sentenza di primo grado, come la prova del previo contatto tra le pazienti e la struttura pubblica fosse derivata non solo dalle dichiarazioni assunte, ma anche dalla documentazione acquisita.

Escluso dunque il tema del rapporto fra le visite compiute dall’imputata e il rapporto pubblicistico alla fonte, per i giudici di piazza Cavour, la questione concerneva se potesse assumere rilievo, ai fini della configurabilità della fattispecie di reato contestata, la circostanza che la prestazione medica fosse stata eseguita in uno studio diverso da quello in relazione al quale l’autorizzazione era stata rilasciata.

Il tema atteneva cioè a se la parziale violazione da parte dell’imputata delle condizioni in ragione delle quali era stata autorizzata allo svolgimento di attività c.d. intra moenia allargata fosse in grado di interrompere il nesso funzionale tra l’attività medica, e la funzione pubblicistica, per la quale quelle pazienti si erano rivolte alla Asl e da questa erano state indirizzate alla ricorrente.

Orbene, in relazione a cotale problematica, gli Ermellini rilevavano come, secondo un consolidato orientamento di legittimità, in tema di peculato, nella nozione di possesso o di detenzione qualificati dalla ragione dell’ufficio o del servizio è ricompreso, non solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento (Sez. 6, n. 33254 del 19/05/2016; Sez. 6, n. 9660 del 12/02/2015; Sez. 6, n. 12368 dei 17/10/2012).

Pertanto, alla stregua di tale approdo ermeneutico, il possesso qualificato dalla ragione di ufficio o di servizio non sarebbe cioè solo quello che rientra nella specifica competenza funzionale del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, perchè le “ragioni di ufficio o di servizio” avrebbero come riferimento un rapporto – fondato anche sulla prassi o su consuetudini invalse in un determinato ufficio- che consenta ai soggetti indicati negli artt. 357 e 358 cod. pen. di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilità materiale della cosa, trovando nella loro pubblica funzione o servizio anche la sola occasione per un tale comportamento (Sez. 6, n. 9890 dell’08/04/1994) e, dunque, sarebbe irrilevante, per la consumazione del reato, che l’agente sia entrato nel possesso del bene nel rispetto o meno delle disposizioni organizzative dell’ufficio, potendo detto possesso derivare anche dall’esercizio di fatto o arbitrario di funzioni, dovendosi escludere il peculato solo quando la disponibilità sia meramente occasionale, ovvero dipendente da evento fortuito o legato al caso. (Sez.6, n. 18015 del 24/02/2015).

Di conseguenza, alla stregua di cotale orientamento nomofilattico, per la Corte di legittimità, non vi era dubbio che, ove si ritenesse di fare riferimento all’impostazione in esame, l’imputata avesse conseguito la disponibilità del denaro in ragione dell’ufficio, nonostante la violazione delle disposizioni organizzative ricevute.

Ciò posto, secondo un altro (ritenuto) più convincente indirizzo, la ragione dell’ufficio o di servizio, che qualifica il possesso o la disponibilità del denaro, presuppone che tra l’agente ed il possesso vi sia non un semplice collegamento di fatto o occasionale, ma un nesso giuridico funzionale, un nesso di dipendenza tra il possesso e l’ufficio o il servizio esercitato.

Perché possa integrarsi il delitto di peculato, occorre quindi che il possesso abbia un titolo di legittimazione che rinvenga la propria causa nella ragione funzionale in quanto il possesso non deve derivare da un affidamento contrario ad un espresso divieto di legge, o da un atto illecito, atteso che, se così fosse, le condotte appropriative non troverebbero più la loro “causa” nella ragione funzionale, ma ne rappresenterebbero una palese violazione di essa.

Ai fini della integrazione del delitto di peculato, quindi, il pubblico ufficiale, ovvero l’incaricato di pubblico servizio, deve appropriarsi del denaro o della cosa mobile di cui dispone per una ragione legata all’esercizio di poteri o doveri funzionali, in un contesto che consenta al soggetto di tenere nei confronti della cosa quei comportamenti uti dominus in cui consiste l’appropriazione, dovendosi ritenere invece incompatibile con la presenza della ragione funzionale un possesso proveniente da un affidamento devoluto solo intuitu personae, ovvero scaturito da una situazione contra legem o evidentemente abusiva, cioè un affidamento senza alcuna relazione legittima con l’oggetto materiale della condotta. (Sez. 6, n. 45084 el 19/01/2021; Sez. 6, n. 35988 del 21/05/2015; Sez. 6, n. 34884 del 07/03/2007).

E tuttavia, anche seguendo detta impostazione, per gli Ermellini, il reato contestato sussisteva atteso che la disponibilità del denaro non fu originato né, da un affidamento intuitu personae, e neppure da una situazione contra legem o evidentemente abusiva, cioè un affidamento senza alcuna relazione legittima con l’oggetto materiale della condotta.

Quelle visite mediche furono infatti eseguite, rilevava la Cassazione nella pronuncia qui in commento, in ragione di un titolo che trovava origine nel rapporto tra l’imputata e la Asl; un rapporto, un titolo, che condusse la Asl ad indirizzare le pazienti all’imputata e la circostanza che la prestazione fu eseguita in uno studio diverso rispetto a quello oggetto dell’autorizzazione non incide sul senso, sulla causa, sulla ragione giustificativa di quelle prestazioni, che furono eseguite non in un contesto evidentemente abusivo, ma trovavano la loro ragione giustificativa in un affidamento legittimo delle pazienti.

Precisato ciò, non era nemmeno stimato fondato l’assunto difensivo secondo cui nella specie sarebbero stati configurabili gli estremi del delitto di truffa.

Si evidenziava a tal proposito, dopo essere stato fatto come non vi sia dubbio che nel peculato esista “di per sè” un profilo propriamente “giuridico” di rilevanza del rapporto tra l’agente e la res, che, già in epoca precedente la riforma introdotta con la I. 26 aprile 1990, n. 86, la giurisprudenza di legittimità aveva interpretato la nozione di possesso assunta dall’art. 314 cod. pen. attribuendole un significato più ampio di quello civilistico, posto che è stato ritenuto necessario che il pubblico ufficiale abbia la materiale detenzione o la diretta disponibilità del denaro, essendo sufficiente la disponibilità giuridica, ossia la possibilità di disporne – mediante un atto di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell’ufficio – e di conseguire quanto poi costituisca oggetto di appropriazione (ex plurimis: Sez. 6, n. 45908 del 16/10/2013; Sez. 6, n. 7492 del 18/10/2012; Sez. 6, n. 11633 del 22/01/2007; Sez. 6, n. 6753 del 04/06/1997).

Oltre a ciò, era altresì osservato come i principi in questione debbano essere posti in connessione con la elaborazione giurisprudenziale relativa ai rapporti tra il delitto di peculato e quello di truffa, aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 9, cod. pen..

Nel peculato, la rilevanza penale della condotta appropriativa del denaro o della cosa mobile altrui presuppone il possesso o comunque la disponibilità, nel senso appena indicato, di tali beni da parte del pubblico ufficiale “per ragione del suo ufficio o servizio” ed entro tale prospettiva, dunque, l’appropriarsi del denaro o della cosa mobile altrui, di cui si abbia il possesso, si traduce sostanzialmente nell’atteggiarsi uti dominus da parte del pubblico ufficiale nei confronti di tali beni, mediante il compimento di atti incompatibili con il titolo per cui si possiede, così da realizzare l’interversio possessionis e l’interruzione della relazione funzionale tra il bene e il suo legittimo proprietario.

Il delitto di truffa aggravata dall’abuso dei poteri o dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione postula, invece, che l’agente, inducendo taluno in errore attraverso artifizi o raggiri, consegua per sè o per altri “un ingiusto profitto“, rappresentato anche dall’impossessamento di un determinato bene, di cui in precedenza non aveva l’autonoma disponibilità.

È al rapporto tra possesso, da una parte, ed artifizi e raggiri, dall’altra, che deve aversi riguardo, nel senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a mascherare l’illecita appropriazione da parte dell’agente del denaro o della res di cui già aveva legittimamente la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema del peculato; qualora, invece, la condotta fraudolenta sia posta in essere proprio per conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, sarà integrato il paradigma della truffa aggravata.

Ciò che rileva è il modo con il quale si acquista il possesso del denaro o del bene costituente l’oggetto materiale del reato (sul tema, tra le tante, Sez. 6, n. 46799 del 20/06/2018; Sez. 6, n. 10569 del 05/12/2017; Sez. 6, n. 15795 del 06/02/2014; Sez. 6, n. 35852 del 06/07/2008).

Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, i giudici di piazza Cavour evidenziavano come, nel caso di specie, in cui si contestava il mancato versamento delle somme incassate non il conseguimento di ulteriori somme da parte dell’ente, la ricorrente si fosse appropriata di denaro che avrebbe dovuto riversare all’Asl e di cui aveva la diretta ed immediata disponibilità giuridica e materiale; somme di denaro che a lei erano state corrisposte, come detto, in ragione dell’ufficio da lei ricoperto.

Rispetto alla contestazione, quindi, per la Corte di legittimità, non era configurabile nessuna condotta decettiva volta ad indurre in errore l’ente ed a conseguire la disponibilità di somme (indennità, erogazioni ulteriori) che altrimenti non si sarebbe ottenuta; nessuna condotta fraudolenta, nessuna azione volta alla collaborazione viziata di altri soggetti vittima di induzione in errore; l’imputata si appropriò di somme di cui aveva la disponibilità per ragioni d’ufficio.

Erano invece fondati il quinto ed il sesto motivo di ricorso non essendo chiare, ad avviso della Suprema Corte, da una parte, perché la restituzione della somma illecitamente trattenuta non avrebbe potuto ritenersi integralmente risarcitoria e, dall’altra, le ragioni poste fondamento della quantificazione della pena inflitta a titolo di continuazione.

Su tali punti la sentenza era quindi annullata con rinvio per nuovo giudizio.

4. Conclusioni

La decisione desta un certo interesse, essendo ivi chiarito in cosa il delitto di peculato si distingue da quello di truffa aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 9, cod. pen..

Difatti, in tale pronuncia, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, si afferma – una volta fatto presente che, nel peculato, la rilevanza penale della condotta appropriativa del denaro o della cosa mobile altrui presuppone il possesso o comunque la disponibilità, nel senso appena indicato, di tali beni da parte del pubblico ufficiale “per ragione del suo ufficio o servizio” ed entro tale prospettiva, dunque, l’appropriarsi del denaro o della cosa mobile altrui, di cui si abbia il possesso, si traduce sostanzialmente nell’atteggiarsi uti dominus da parte del pubblico ufficiale nei confronti di tali beni, mediante il compimento di atti incompatibili con il titolo per cui si possiede, così da realizzare l’interversio possessionis e l’interruzione della relazione funzionale tra il bene e il suo legittimo proprietario, mentre il delitto di truffa aggravata dall’abuso dei poteri o dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione postula che l’agente, inducendo taluno in errore attraverso artifizi o raggiri, consegua per sè o per altri “un ingiusto profitto“, rappresentato anche dall’impossessamento di un determinato bene, di cui in precedenza non aveva l’autonoma disponibilità – che è al rapporto tra possesso, da una parte, ed artifizi e raggiri, dall’altra, che deve aversi riguardo nel senso che: 1) qualora questi ultimi siano finalizzati a mascherare l’illecita appropriazione da parte dell’agente del denaro o della res di cui già aveva legittimamente la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema del peculato; 2) qualora, invece, la condotta fraudolenta sia posta in essere proprio per conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, sarà integrato il paradigma della truffa aggravata.

Ciò che rileva quindi, quale criterio discretivo tra le due figure delittuose, è il modo con il quale si acquista il possesso del denaro o del bene costituente l’oggetto materiale del reato.

Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione allo scopo di stabilire quale di questi due illeciti penali sia effettivamente configurabile di volta in volta.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su questa tematica giuridica sotto il profilo giurisprudenziale, dunque, non può che essere positivo.

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