Ormai alla vigilia dell’udienza, appare utile ripercorrere il percorso politico, normativo e giurisprudenziale che ha reso necessaria la rimeditazione del bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela, specie penalistica, della reputazione.
Partendo da un’analisi del principio in chiave sia costituzionale che convenzionale e dopo aver brevemente illustrato le fattispecie penali previste dal nostro, si cercherà di dare conto delle varie istanze, politiche e legislative, italiane ed internazionali, delle quali la Corte Costituzionale dovrà tenere conto nel suo giudizio.
Nella società contemporanea, infatti, la questione del rapporto tra libertà di espressione e reputazione si fa sempre più pressante e, pur con i limiti degli strumenti a sua disposizione, la decisione della Consulta potrebbe segnare un primo passo verso un ripensamento complessivo della materia.
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Il testo è aggiornato a: D.Lgs. 75/2020 (lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione); D.L. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni); L. 113/2020 (Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni) e D.L. 130/2020 (c.d. decreto immigrazione). Fabio PiccioniAvvocato del Foro di Firenze, patrocinante in Cassazione; LL.B., presso University College of London; docente di diritto penale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali; coordinatore e docente di master universitari; autore di pubblicazioni e monografie in materia di diritto penale e amministrativo sanzionatorio; giornalista pubblicista.
Fabio Piccioni | 2021 Maggioli Editore
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1.La libertà di manifestazione del pensiero: il principio costituzionale
L’art. 21 della Costituzione[1] tutela e garantisce la libertà di manifestazione del pensiero quale diritto inviolabile dell’uomo, “il più alto, forse,” tra i “diritti primari e fondamentali”[2] sanciti dalla Costituzione, ma anche elemento fondamentale nell’equilibrio di poteri che caratterizza gli odierni stati democratici, vera e propria “pietra angolare dell’ordine democratico”[3].
Questa natura biunivoca del principio è stata poi approfondita dalla Corte Costituzionale, che ne ha sviluppato la portata sia in chiave individualista, come diritto “attribuito all’uomo in quanto tale e a suo vantaggio”, sia in chiave funzionalista, quale diritto spettante al singolo nella sua qualità “di membro di una comunità e a vantaggio della stessa”[4].
Seguendo una lettura tipicamente funzionalista, ad esempio, il portato del principio è stato esteso fino a riconoscerlo anche nella sua forma passiva, quale diritto del cittadino ad essere informato per partecipare in maniera il più possibile consapevole alla vita democratica[5]. D’altro canto invece, l’individuazione dei limiti all’esercizio del suddetto principio, oltre a quello del “buon costume” costituzionalmente sancito, è frutto di una considerazione individualista, che ne giustifica la compressione al solo fine di preservare altri interessi costituzionalmente rilevanti.
2.Tutela penale dell’onore e della reputazione nell’ordinamento italiano
Tra gli interessi che possono giustificare una limitazione della libertà di manifestazione del pensiero vi sono anche l’onore e la reputazione, che in quanto beni “essenzialmente connessi con la persona umana”[6], ricevono una tutela anche penalistica attraverso la previsione di specifiche fattispecie incriminatrici, per la verità di matrice pre-costituzionale, tra le quali:
- l’art. 595 c.p., che punisce la condotta di colui che, “comunicando con più persone offende l’altrui reputazione”, prevendendo una serie di aggravanti qualora venga attribuito un “fatto determinato” (comma 2), nel caso in cui la diffamazione venga compiuta “con il mezzo della stampa” o con “qualsiasi altro mezzo di diffusione” (comma 3) e, infine, nel caso in cui l’offesa sia arrecata “a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio” (comma 4)[7];
- l’art. 13, l. 8 febbraio 1948, n. 47, che prevede una circostanza aggravante, applicabile in caso di diffamazione a mezzo della stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato e dalla quale deriva l’applicazione della pena della reclusione da uno a sei anni e la multa non inferiore a 258,00 euro;
- la disposizione di cui all’art. 57 c.p., che applica il trattamento sanzionatorio sancito per le fattispecie citate al caso di omesso controllo colposo sul contenuto del periodico da parte del direttore o del vice direttore del periodico[8];
- l’art. 30 l. 223/1990, in materia di radiotelevisione[9].
E’ dunque un dato di fatto che nell’ordinamento italiano le principali fattispecie incriminatrici riguardanti la tutela dell’onore e della reputazione prevedano l’applicabilità di una pena detentiva, o in via alternativa o in via cumulativa con la sanzione pecuniaria, come nel caso dell’art. 13 l. 47/1948.
Occorre però altresì ammettere che l’intera disciplina penalistica si caratterizza in realtà per una certa “mitezza”[10]. Da un lato vi è infatti una prassi applicativa che raramente giunge ad infliggere la pena della reclusione, ad esempio bilanciando l’aggravante di cui all’art. 13 l. 47/1948 o privilegiando lo strumento della sanzione pecuniaria. Dall’altro non è stata priva di significato la scelta del legislatore, che ha rimesso alla competenza del Giudice di Pace la maggior parte dei giudizi in materia, laddove la “figura di ‘conciliatore’ del giudice di pace e l’ampia gamma degli strumenti contemplati dal d.lgs.274 del 2000 – che vanno dalle condotte riparatorie all’irrilevanza del fatto – disegnano un sistema di disciplina architettato per favorire una definizione del procedimento che eviti l’applicazione delle pene previste”[11], le quali comunque non contemplano la reclusione.
Nonostante la scarsa applicazione della pena detentiva in materia di diffamazione, l’Italia è stata però più volte ripresa dalle istituzioni europee ed internazionali, specie dalla Corte EDU, per via della ritenuta incompatibilità con il diritto convenzionale anche solo dell’astratta previsione di una pena detentiva nel caso di diffamazione commessa a mezzo stampa.
3.Il principio della libertà di espressione ai sensi dell’art. 10 CEDU
L’art. 10 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti e delle Libertà Fondamentali dell’Uomo afferma che “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive. 2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.
La libertà di espressione sancita dalla Convenzione è dunque un diritto assoluto, equiparabile a quello di cui all’art. 21 Cost. A differenza che nella Costituzione italiana però, nella disposizione convenzionale vengono espressamente specificate le condizioni e le finalità che ne giustificano una limitazione da parte degli stati firmatari. A tal riguardo, i principi generali relativi alla necessità dell’ingerenza statale sono stati tratteggiati dalla Corte EDU in particolare a partire dalla sentenza Morice c. Francia, n. 29369/10, dove la Corte ha affermato che nel limitare la libertà di espressione l’ingerenza statale, per essere “necessaria in una società democratica” deve corrispondere ad una “pressante esigenza sociale” e deve fondarsi su motivi “pertinenti e sufficienti”, mentre l’eventuale
sanzione prevista deve essere commisurata al “fine legittimo perseguito”[12].
Anche la severità delle sanzioni comminate è dunque determinante nel valutare la necessarietà e proporzionalità dell’ingerenza statale. Sin dalla causa Cumpana e Mazare c. Romania (CG1, n. 33348/96) infatti, la giurisprudenza convenzionale in materia di diffamazione a mezzo stampa ha più volte ribadito che, salvi “casi eccezionali”, la pena detentiva è sempre incompatibile con l’art. 10 della Convenzione. Se infatti i giornalisti sono i veri e propri “cani da guardia della democrazia”, anche solo l’astratta previsione di una pena detentiva determinerebbe un “chilling effect” (effetto dissuasivo) tale da impedire al c.d. “quarto potere”, quello giornalistico, di svolgere la sua funzione equilibratrice[13]. Diversamente, la pena della reclusione sarebbe invece applicabile solo in circostanze eccezionali, quando cioè altri diritti fondamentali siano stati gravemente lesi, come nel caso di discorsi di odio (“hate speech”) o di incitamento alla violenza (“incitment to violence”).
Sulla base di questa interpretazione, la Corte EDU si è dunque più volte pronunciata contro l’Italia, in particolare nelle sentenze Belpietro c. Italia[14], Ricci c. Italia[15], e Sallusti c. Italia[16] laddove, pur riconoscendo la legittimità delle condanne inflitte agli imputati, ha sempre ribadito che nel caso di
condotte diffamatorie anche solo l’astratta previsione di una pena detentiva, pur se sospesa o non eseguita in concreto, è incompatibile con una corretta interpretazione dell’art. 10 CEDU.
Peraltro, va sottolineato che proprio nei casi Sallusti e Belpietro la decisione della Corte EDU ha disatteso due pronunce della Corte di Cassazione nelle quali i giudici di legittimità avevano tentato di allinearsi all’interpretazione dei giudici convenzionali, giustificando la pena detentiva comminata considerando le condotte dei giornalisti rientranti in quei “casi eccezionali” sopra citati, così rendendo così ancor più difficile il compito dell’interprete ed ancor più necessario un intervento legislativo.
4.Prospettive di riforma interne, europee ed internazionali
La complessa questione della fisiologica incompatibilità della pena detentiva con l’esercizio della libertà di espressione, a dire il vero, non è materia solo per le aule di giustizia, ma è stata più volte affrontata a livello istituzionale e legislativo, in ambito europeo, italiano ed internazionale.
In tema di rapporto tra diffamazione e stampa, si rammentano la raccomandazione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa n. 1589/2003, nonché la risoluzione n. 1535/2007[17], nella quale si esortavano gli ordinamenti europei ad impiegare moderazione e proporzionalità nel limitare la libertà di espressione e, soprattutto, la risoluzione n. 1577/2007, inequivocabilmente denominata “Verso una depenalizzazione della diffamazione”, la quale fissava per la prima volta chiare linee guida, auspicando l’implementazione di strumenti civilistici alternativi e chiedendo di limitare l’uso della pena detentiva solo ai casi di odio e razzismo[18].
Sempre in ambito europeo, occorre citare la Commissione Venezia, organo consultivo del Consiglio
d’Europa, incaricata dopo il caso Sallusti di redigere un report sulla legislazione italiana in materia di diffamazione, onde valutare eventuali violazioni dell’art. 10 CEDU e, più in generale, possibili contrasti con gli standard europei in materia[19].
Non si può inoltre non menzionare il Rapporto sull’Italia del 29 aprile 2014 e presentato al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, nel quale il Parlamento italiano veniva esortato a superare la punizione penalistica delle condotte di diffamazione, anche prevedendo sanzioni civilistiche pecuniarie[20].
Nell’ultimo mezzo secolo poi, anche il parlamento italiano ha tentato più volte di riformare la materia. Merita innanzitutto di essere ricordata l’istanza di “Revisione della normativa del reato di diffamazione col mezzo della stampa”, con cui già nel 1992 si era proposta una riforma del trattamento sanzionatorio del reato di diffamazione[21]. Dopo di che, con il disegno di legge 4192 del 1999, intitolato “Disciplina delle diffamazioni a mezzo stampa”, era stata proposta la depenalizzazione di tutte le fattispecie penali riguardanti la protezione dell’onore, senza però che il disegno di legge superasse l’esame della relativa Commissione parlamentare.
I progetti giunti più vicini all’approvazione sono il d.d.l. 3176/2004[22] ed il d.d.l. 925/2013, c.d. “d.d.l.
Costa”, tra l’altro oggetto di specifica analisi da parte della Commissione Venezia, che arrivò sino alla quarta lettura prima di essere bloccato al Senato in sede di Commissione Giustizia[23].
Quest’ultimo proponeva l’abolizione della pena detentiva ed una completa rivisitazione dell’art. 13 della legge sulla stampa, nonché la pubblicazione della sentenza in caso di condanna, cui si aggiungeva un inasprimento delle sanzioni disciplinari e pecuniarie civilistiche[24]. Anche per lo smorzarsi dell’effetto della sentenza della CEDU Sallusti c. Italia però, e visto l’avvicendarsi di diverse legislature in breve tempo, la proposta di legge Costa fu abbandonata, mentre le due successive, il d.d.l. Caliendo[25] e il d.d.l. Verini[26] non sono mai giunte a compimento.
5.Le questioni di legittimità costituzionale
Come si è visto, le varie istanze legislative non hanno portato a sostanziali cambiamenti sino a quando, l’anno scorso, due Giudici hanno sollevato questione di legittimità costituzionale riguardo agli artt. 13 l. 47/19489 e 595 c. 3 c.p., nella parte in cui prevedono la pena della reclusione nel caso di diffamazione aggravata dall’uso del mezzo della stampa con attribuzione di un fatto determinato.
In particolare, nell’ordinanza n. 140/2019 del 9 aprile 2019 il Tribunale ordinario di Salerno ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 595 c. 3 c.p. e 13 l. 47/1948, in riferimento agli artt. 3, 21, 25, 27 e 117 C. 1 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 10 CEDU, nella parte in cui prevedono l’applicazione della sanzione della reclusione, in via alternativa o cumulativa alla multa, nel caso di condanna per delitto di diffamazione a mezzo stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato.
Ferma la rilevanza della questione nel giudizio, il giudice a quo ha infatti rilevato l’incompatibilità della normativa italiana con l’art. 10 CEDU per come interpretato dalla Corte di Strasburgo.
Detta giurisprudenza, secondo il giudice di Salerno, può e deve essere recepita nell’ordinamento interno stante l’assenza di altri interessi nazionali di rango superiore alla libertà di espressione. Tanto più che della normativa italiana è impossibile dare un’interpretazione convenzionalmente orientata, sia perché ciò comporterebbe una lettura ben oltre i limiti di determinatezza e tassatività fissati dall’art. 25 Cost., sia perché l’orientamento di legittimità della Corte di Cassazione che aveva cercato di tenere conto della impostazione convenzionale era poi stato censurato dalla stessa CEDU.
Interessante, inoltre, il riferimento anche agli artt. 3, 21, 25 e 27 Cost., presente solo in questa prima ordinanza: per il giudice rimettente la pena detentiva sarebbe sproporzionata ed irragionevole di per sé rispetto ad i beni tutelati, nonché inidonea ad esercitare la sua funzione general e special preventiva, un po’ perché sentita come ingiusta, un po’ per via dell’interpretazione della Corte Convenzionale che l’ha resa, di fatto, inapplicabile.
Pur in base ad un’impostazione non del tutto coincidente, con l’ordinanza n. 149/2019 anche il Tribunale di Bari ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 l. 47/1948 in riferimento all’art. 117 c. 1 Cost. ed all’art. 10 CEDU, “nella parte in cui sanziona la diffamazione a mezzo stampa con attribuzione di un fatto determinato con la pena cumulativa della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore ad euro 258,00, invece che in via alternativa”.
Come il Tribunale di Salerno, anche questo Giudice procede con una minuziosa analisi della giurisprudenza sull’art. 10 CEDU, condividendo la considerazione per cui un’interpretazione convenzionalmente orientata non sarebbe compatibile con gli artt. 25 e 101 Cost. A differenza che nella prima ordinanza, però, l’illegittimità della norma speciale non risiederebbe nella previsione della pena detentiva in sé, bensì nella mancata applicazione in via alternativa alla pena pecuniaria, che non lascerebbe “un adeguato spazio discrezionale utile per conformare la decisione giurisdizionale nazionale ai principi dell’ordinamento CEDU in materia”, prevedendo la reclusione solo in quei casi eccezionali.
6.Conclusioni: l’ordinanza della Corte Costituzionale. Quali prospettive?
Similmente a quanto avvenuto nel “caso Cappato”[27], con l’ordinanza n. 132 del 26 giugno 2020 la
Corte Costituzionale ha deciso di non decidere[28], rinviando di un anno l’udienza di trattazione delle due questioni di legittimità ed al contempo invitando il legislatore ad intervenire.
In realtà, nella citata ordinanza, dopo aver ripercorso i ragionamenti dei giudici rimettenti e dopo una breve analisi delle indicazioni di riforma europee ed internazionali, la Corte aveva in effetti riconosciuto la necessità di una “urgente e complessiva rimeditazione del bilanciamento, attualmente cristallizzato nella normativa oggetto delle odierne censure, tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, in particolare con riferimento all’attività giornalistica”[29]. In più, una ulteriore (anche se implicita) ammissione della fondatezza della questione si poteva scorgere nelle battute finali dell’ordinanza, dove la stessa Consulta ha invitato ad evitare, “nelle more del giudizio di costituzionalità, l’applicazione delle disposizioni censurate”[30].
Ciò nonostante, la “limitatezza degli orizzonti del devolutum e dei rimedi”[31] a disposizione del Giudice Costituzionale, e forse anche la volontà di evitare un’invasione della sfera di potere del legislatore, hanno appunto portato la Corte ad invocare l’intervento del legislatore[32].
Così, ormai alla vigilia dell’udienza di trattazione, l’unica certezza è che, ancora una volta, sul fronte del legislatore non si è “mossa una foglia”. E’ perciò difficile prevedere quale sarà la via che seguirà la Corte Costituzionale, in quanto tutte le opzioni a disposizione presentano delle controindicazioni. Se l’eliminazione in toto della pena della reclusione, che pare suggerita dal Giudice di Salerno, appare ultronea rispetto alla stessa giurisprudenza convenzionale, anche la soluzione avanzata dal Giudice di Bari non convince. Entrambe le opzioni, infatti, non consentirebbero quella “complessiva rimeditazione” della materia della quale la stessa Corte ha ammesso la necessità.
Ed in effetti, come confermato nelle varie proposte di riforma legislativa e nelle indicazioni europee ed internazionali, la soluzione alla questione di come e quali condotte diffamatorie punire presuppone l’utilizzo di strumenti civilistici (quali le sanzioni pecuniarie e l’implementazione dell’obbligo di rettifica), disciplinari e deontologici, forse solo in certi casi penalistici, che la Corte Costituzionale non ha a disposizione.
La limitata prospettiva del giudizio costituzionale si nota ancor di più nel discorso sviluppato dalla Corte Costituzionale e, a dire la verità, anche dalla CEDU, entrambi pressoché esclusivamente incentrati sull’attività giornalistica. Come rilevato anche in una recente sentenza della Corte di Cassazione, però, la questione è più ampia[33]. La libertà di espressione è infatti un diritto di tutti, la cui punibilità, specie nella società dei social network e dei mass media, non riguarda solo i giornalisti, anzi. Da un lato, appare evidente che sia la normativa codicistica, sia quella di cui alla l. 47/1948 sono state costruite in un contesto storico diverso, nel quale la diffusività della carta stampata era considerata la principale fonte di pericolo per l’offesa all’altrui reputazione. Dall’altro, è altrettanto evidente che il problema non è la diffamazione a mezzo stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato in sé, bensì la necessità di rivisitare l’intera materia tenendo conto dei progressi tecnologici, dei mezzi di comunicazione effettivamente più diffusi, delle cc.dd. fake news, etc.
Eppure, nonostante la “prudenza” del legislatore e nonostante i limiti degli strumenti a disposizione della Corte Costituzionale, la decisione che si attende può segnare un importante spartiacque in questo ambito del diritto penale, se non altro mettendo il legislatore davanti ad una questione che, prima o poi, dovrà essere affrontata: il bilanciamento, cioè, tra la libertà di espressione, di critica e di pensiero e l’amor di verità e l’altrui reputazione nella nuova, moderna e sempre in evoluzione società della (dis)informazione.
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Note
[1] Art. 21 Cost.: “1.Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. 2. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. 3.Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. 4.In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo d’ogni effetto. 5.La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. 6.Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.”
[2] Nella sentenza della Corte Cost. n. 168/1971, in materia di comizi elettorali, la Corte rammentò che anche “la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo diventerebbe illusoria se ciascuno potesse esercitarli fuori dell’ambito delle leggi, della civile regolamentazione, del ragionevole costume” e che pertanto anche “anche diritti primari e fondamentali (come il più alto, forse, quello sancito nell’art. 21 Cost.) debbono venir contemperati con le esigenze di una tollerabile convivenza”.
[3] Nella sentenza della Corte Costituzionale n. 84/1969, pronunciandosi sul reato di boicottaggio di cui all’art. 507 c.p., la Corte ricondusse la propaganda politica alla libertà di manifestazione del pensiero quale sua forma di espressione.
[4] Si veda Libertà di manifestazione del pensiero e tutela della personalità nella giurisprudenza della corte costituzionale, a cura di G. NICASTRO, maggio 2015, pp. 2 ss.
[5] Si veda la sentenza della Corte Costituzionale n. 153/1987, in tema di autorizzazioni relative al servizio pubblico radiotelevisivo verso l’estero, la Corte riconosce l’impegno che lo Stato deve assumere nell’assicurare ai suoi cittadini “il diritto alla informazione, promuovendo appunto, con il riconoscimento dell’emittenza quale servizio pubblico essenziale di preminente interesse generale, lo sviluppo sociale e culturale della collettività”.
[6] Corte Cost., 86/1974, laddove si afferma che “La previsione costituzionale del diritto di manifestare il proprio pensiero non integra una tutela incondizionata ed illimitata della libertà di manifestazione del pensiero, giacche, anzi, a questa sono posti limiti derivanti dalla tutela del buon costume o dall’esistenza di beni o interessi diversi che siano parimenti garantiti o protetti dalla Costituzione (come questa Corte ha precisato in varie occasioni e da ultimo con la sentenza n. 20 del corrente anno). E tra codesti beni ed interessi, ed in particolare tra quelli inviolabili, in quanto essenzialmente connessi con la persona umana, è l’onore (comprensivo del decoro e della reputazione) che trova difesa nelle previsioni degli artt. 594 e 595 c.p.”
[7] Art. 595 c.p.- Diffamazione: “1.Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032. 2.Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065.3. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516.4. Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate”.
[8] Art. 57 c.p.- Reati commessi col mezzo della stampa periodica: “Salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo”.
[9] Art. 30 l. 223/1990: “1. Nel caso di trasmissioni radiofoniche o televisive che abbiano carattere di oscenità il concessionario privato o la concessionaria pubblica ovvero la persona da loro delegata al controllo della trasmissione è punito con le pene previste dal primo comma dell’articolo 528 del codice penale.2. Si applicano alle trasmissioni le disposizioni di cui agli articoli 14 e 15 della legge 8 febbraio 1948, n. 47.3. Salva la responsabilità di cui ai commi 1 e 2 e fuori dei casi di concorso, i soggetti di cui al comma 1 che per colpa omettano di esercitare sul contenuto delle trasmissioni il controllo necessario ad impedire la commissione dei reati di cui ai commi 1 e 2 sono puniti, se nelle trasmissioni in oggetto è commesso un reato, con la pena stabilita per tale reato diminuita in misura non eccedente un terzo.4. Nel caso di reati di diffamazione commessi attraverso trasmissioni consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato, si applicano ai soggetti di cui al comma 1 le sanzioni previste dall’articolo 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 .5. Per i reati di cui ai commi 1, 2 e 4 del presente articolo si applicano le disposizioni di cui all’articolo 21 della legge 8 febbraio 1948, numero 47. Per i reati di cui al comma 4 il foro competente è determinato dal luogo di residenza della persona offesa. 6. Sono puniti con le pene stabilite dall’articolo 5-bis del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 giugno 1974, n. 216, e successive modificazioni, il titolare di concessione di cui all’articolo 16 o di concessione per servizio pubblico ovvero la persona dagli stessi delegata che violi le disposizioni di cui agli articoli 12, 13, 14, 17 e di cui al comma 2 dell’articolo 37 della presente legge. Le stesse pene si applicano agli amministratori della società titolare di concessione ai sensi dell’articolo 16 o di concessione per servizio pubblico o che comunque la controllano direttamente o indirettamente, che non trasmettano al Garante l’elenco dei propri soci”.
[10] A. GULLO, La tela di Penelope- La riforma della diffamazione nel Testo unificato approvato dalla Camera il 24 giugno 2015, in Diritto Penale Contemporaneo, p. 3.
[11] A. GULLO, La tela di Penelope- La riforma della diffamazione nel Testo unificato approvato dalla Camera il 24 giugno 2015, in Diritto Penale Contemporaneo, p. 3. Si rammenta inoltre la recente depenalizzazione del delitto di ingiuria di cui all’art. 594 c.p., frutto non solo dell’intento legislativa di ridurre il carico giudiziario, ma anche della volontà di trovare strumenti alternativi alla sanzione penale per contrastare la lesione del bene “onore”.
[12] Corte europea diritti dell’uomo Grand Chamber, Sent., 23-04-2015, n. 29369/10. Nel valutare la condotta del giornalista e dunque la necessarietà dell’ingerenza statale, peraltro, secondo la giurisprudenza della Corte EDU dovranno essere considerati anche elementi quali “il contributo della pubblicazione a un dibattito di pubblico interesse; il grado di notorietà delle persone oggetto della pubblicazione e l’incidenza di quest’ultima sulla loro vita privata; il modo in cui le informazioni sono state reperite e la loro veridicità; il contenuto, la forma e le conseguenze della pubblicazione; infine, la severità delle sanzioni imposte al giornalista, al direttore o all’editore”.
[13] Si vedano i paragrafi 113-115 della decisione, nella quale la Corte EDU ha affermato i seguenti principi: “”113. Se gli Stati contraenti hanno la facolta’, se non il dovere, in virtu’ dei loro obblighi positivi derivanti dall’art. 8 della Convenzione, di disciplinare l’esercizio della liberta’ di espressione in modo da garantire che la legge tuteli adeguatamente la reputazione degli individui, essi devono evitare, facendolo, di adottare misure idonee a dissuadere i media dallo svolgere il loro compito di avvisare il pubblico in caso di apparenti o presunti abusi dei pubblici poteri, I giornalisti di inchiesta potrebbero mostrarsi reticenti a esprimersi su questioni di interesse generale (…) se corrono it rischio di essere condannati, quando la legislazione prevede sanzioni di questo tipo per gli attacchi ingiustificati contro la reputazione altrui, a pene detentive o che comportano il divieto di esercitare una professione”; punto 114: “L’effetto dissuasivo che il timore di sanzioni di questo tipo comporta per l’esercizio da parte di tali giornalisti della loro liberta’ di espressione e’ evidente Nocivo per la societa’ nel suo complesso, fa anch’esso parte degli elementi da prendere in considerazione in sede di valutazione della proporzionalita’ – e dunque della giustificazione – delle sanzioni inflitte (…)”; p. 115:”Se la fissazione delle pene e’, in linea di principio, appannaggio dei giudici nazionali, la Corte considera che una pena detentiva inflitta per un reato commesso nell’ambito della stampa sia compatibile con la liberta’ di espressione giornalistica sancita dall’art. 10 solo in circostanze eccezionali, in particolare quando altri diritti fondamentali siano stati gravemente lesi, come nel caso, ad esempio, della diffusione di un discorso di odio o di incitazione alla violenza (..).”.
[14] Corte europea diritti dell’uomo Sez. II, Sent., (ud. 03-09-2013) 24-09-2013, n. 43612/10, nella quale la Corte ha ritenuto che, nonostante la condanna del ricorrente fosse stata giustamente inflitta, a causa del quantum e della natura della sanzione inflitta l’ingerenza statale nel diritto alla libertà di espressione era stata sproporzionata, comportando una violazione dell’art. 10 CEDU.
[15] Corte europea diritti dell’uomo Sez. II, Sent., (ud. 10-09-2013) 08-10-2013, n. 30210/6, dove, pur riconoscendo la violazione dell’art. 10 CEDU, la Corte non ha riconosciuto un danno morale al ricorrente.
[16] Corte europea diritti dell’uomo Sez. I, Sent., (ud. 12-02-2019) 07-03-2019, n. 22350/13, laddove la Corte EDU ha considerato la sanzione penale inflitta al ricorrente per natura e severità come manifestamente sproporzionata al fine legittimo invocato, con conseguente violazione dell’art. 10 CEDU nonostante la grave condotta incriminata avesse riguardato una minorenne ed i suoi genitori e nonostante la pena detentiva fosse stata commutata in una pena pecuniaria a seguito dell’’intervento del Presidente della Repubblica.
[17] Si veda la risoluzione n. 1535 adottata dal Parlamento Europeo in data 25 gennaio 2007, laddove al punto n. 6 si afferma “Public authorities should use restraint and respect proportionality when applying legal restrictions to freedom of expression”, ammonendo dal rischio per cui “Where arbitrary or politically motivated discrimination of journalists and the media occurs, freedom of the media is violated”.
[18] Laddove richiede agli Stati membri: “17.1. abolish prison sentences for defamation without delay; 17.2. guarantee that there is no misuse of criminal prosecutions for defamation and safeguard the independence of prosecutors in these cases; 17.3. define the concept of defamation more precisely in their legislation so as to avoid an arbitrary application of the law and to ensure that civil law provides effective protection of the dignity of persons affected by defamation; 17.4. in accordance with General Policy Recommendation No. 7 of the European Commission against Racism and Intolerance (ECRI), make it a criminal offence to publicly incite to violence, hatred or discrimination, or to threaten an individual or group of persons, for reasons of race, colour, language, religion, nationality or national or ethnic origin where those acts are deliberate; 17.5. make only incitement to violence, hate speech and promotion of negationism punishable by imprisonment; 17.6. remove from their defamation legislation any increased protection for public figures, in accordance with the Court’s case law, and in particular calls on: 17.6.1. Turkey to amend Article 125.3 of its Criminal Code accordingly; 17.6.2. France to revise its law of 29 July 1881 in the light of the Court’s case law; 17.7. ensure that under their legislation persons pursued for defamation have appropriate means of defending themselves, in particular means based on establishing the truth of their assertions and on the general interest, and calls in particular on France to amend or repeal Article 35 of its law of 29 July 1881 which provides for unjustified exceptions preventing the defendant from establishing the truth of the alleged defamation; 17.8. set reasonable and proportionate maxima for awards for damages and interest in defamation cases so that the viability of a defendant media organ is not placed at risk; 17.9. provide appropriate legal guarantees against awards for damages and interest that are disproportionate to the actual injury; 17.10. bring their laws into line with the case law of the Court as regards the protection of journalists’ sources”.
[19] L’articolato lavoro della Commissione (Opinion n. 715/2013 “Opinion on the legislation on defamation of Italy”, 9 dicembre 2013, rinvenibile integralmente su www.venice.coe.int.), si rifà in buona sostanza ai principi già in precedenza delineati dal Parlamento Europeo, riconoscendo la obbligatorietà di un bilanciamento tra l’interesse alla protezione della reputazione dei cittadini e la salvaguardia della libertà di espressione, specie giornalistica. La Commissione ha quindi esortato una volta di più ad abolire la pena detentiva, anche se solo astrattamente prevista, ad eccezione di casi specifici. Inoltre ha non solo sottolineato come le sanzioni civilstiche potrebbero avere un effetto meno dissuasivo di quelle penali, ma ha anche indicato una serie di criteri sui quali dovrebbero incentrarsi i processi in tema di diffamazione, quali ad esempio il pubblico interesse ed il carattere politico del discorso oggetto di giudizio.
[20] Tra l’altro, come la Commissione Venezia anche il Relatore Onu Frank LaRue esaminò il progetto di legge c.d. Costa, apprezzando la prevista eliminazione della pena detentiva, ma non considerandola sufficiente.
[21] Atti Camera d.d.l. n. 3735/1982, VIII Legislatura.
[22] Atti Senato XIV Legislatura. n. 3176/2004: d.d.l. “Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale e al codice di procedura penale in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante”. La proposta, frutto della sintesi di diverse proposte di legge presentate all’inizio del nuovo millennio, si interruppe nel 2004 con la fine della legislatura, per poi essere ripresentato nel 2006 e nel 2008, senza però riuscire ad arrivare all’esame della Commissione.
[23] Atto Camera dei Deputati XVII legislatura, n. 925 presentato il 13 maggio 2013 d’iniziativa del deputato Costa; Atti Senato n. 1119-B trasmesso alla Camera il 25 giugno 2015. “I punti qualificanti del progetto di legge del 2004, poi ripresi dai disegni di legge successivi, possono in sintesi riassumersi in: a) abolizione della pena detentiva e previsione in caso di recidiva della pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista; b) estensione della legge sulla stampa anche alle testate giornalistiche online e radiotelevisive; c) modifica sostanziale dello strumento della rettifica e previsione di una causa di non punibilità in caso di pubblicazione; d) modifica dell’art. 57 c.p. in tema di responsabilità del direttore del giornale; e) limite massimo dell’entità del risarcimento del danno non patrimoniale e riduzione del termine della prescrizione dell’azione civile; f) sanzione pecuniaria in caso di querela temeraria”, si veda M. PISAPIA, C. CHERCHI, Detenzione e libertà di espressione. Riflessioni sul trattamento sanzionatorio del reato di diffamazione a mezzo stampa in occasione della pronuncia della Corte Costituzionale, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, p. 7
[24] In effetti uno dei motivi per cui il progetto si arenò fu proprio la difficoltà di individuare sanzioni alternative a quella penale. Anche sanzioni solo pecuniarie, infatti, potevano comportare un effetto anche più dissuasivo della minaccia della reclusione, come nel caso di realtà editoriali non troppo sviluppate, che non sarebbero state in grado di sostenere una pena pecuniaria eccessiva. Su questo argomento, si veda anche la sentenza CEDU, Rioli c. Italia,17 luglio 2008, (Ric. 42211/07), nella quale la Corte stabilì il principio secondo cui anche una condanna di un giornalista (in questo caso civile) a versare una somma eccessiva, era contraria all’art. 10 della Convenzione, poiché “era suscettibile di dissuaderlo dal continuare ad informare il pubblico su temi di interesse generale”, alterando il raggiungimento del giusto equilibrio tra i diversi interessi in gioco, richiesto dalla Convenzione.
[25] Presentato al Senato il 20 settembre 2018.
[26] Presentato alla Camera il 27 marzo 2019.
[27] Secondo lo schema della c.d. “illegittimità accertata, ma non dichiarata”, in M. PISAPIA, C. CHERCHI, Detenzione e libertà di espressione. Riflessioni sul trattamento sanzionatorio del reato di diffamazione a mezzo stampa in occasione della pronuncia della Corte Costituzionale, cfr., p. 17. Autorevole dottrina ha però rilevato come, a differenza dell’ordinanza n. 207/2018, l’ordinanza n. 132/2020 “non prefigura in termini precisi né le caratteristiche dell’intervento che si richiede al legislatore, né i contenuti della decisione che la Corte è orientata aa adottare..”, in M. CUNIBERTI, La pena detentiva per la diffamazione tra Corte Costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo: l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 132 del 2020, in Osservatorio Costituzionale, 6 ottobre 2020, p. 135.
[28] L. TOMASI, Diffamazione a mezzo stampa e libertà di espressione nell’orizzonte della tutela integrata dei diritti fondamentali, in Sistema Penale, p. 19.
[29] Corte Cost. ord., 26 giugno 2020, n. 132, p. 7.
[30] Corte Cost. ord., 26 giugno 2020, n. 132, p. 7, p. 9. Come giustamente rilevato, c’è chi vi ha letto una sorta di invito ai giudici di merito nazionali a promuovere, “ad adiuvandum”, altre questioni di legittimità che potessero anche allargare l’ambito sottoposto alla cognizione della Corte Costituzionale. Si veda sull’argomento L. TOMASI, Diffamazione a mezzo stampa e libertà di espressione nell’orizzonte della tutela integrata dei diritti fondamentali, cfr., p. 23 ss. e A. RUGGERI, Replicato, seppur in modo più cauto e accorto, alla Consulta lo schema della doppia pronuncia inaugurato in Cappato (nota minima a margine di Corte Cost. n. 132 del 2020, in Consulta Online, pp. 406 ss.
[31] Corte Cost. ord., 26 giugno 2020, n. 132, p. 9.
[32] E’ stato giustamente rilevato come a seguito di questo espresso appello al legislatore, l’eventuale intervento della Corte Costituzionale in caso di inerzia del legislatore “ben potrebbe, a quel punto, ritenersi accettabile e giustificata – tenuto conto anche dei ripetuti inviti in tal senso degli organi del Consiglio d’Europa – nel momento in cui il legislatore, nonostante il pressante richiamo della Corte, persistesse nella sua inerzia”, in M. CUNIBERTI, La pena detentiva per la diffamazione tra Corte Costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo: l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 132 del 2020, in Osservatorio Costituzionale, 6 ottobre 2020, p. 139.
[33] Cass. pen., sez. V, ud. del 17/2/2021, sent. n. 13993 del 2021, nella quale è stato affermato che l’interpretazione convenzionalmente orientata degli artt. 595 c.p. e 13 l. 47/1948 deve essere estesa anche ai delitti di diffamazione “conness[i] ai mezzi di comunicazione (nella specie, Internet), anche se non commess[i] nell’esercizio dell’attività giornalistica”. Per un commento più approfondito, si veda L. TOMASI, Diffamazione e illegittimità “convenzionale” della pena detentiva: oltre l’aggravante dell’uso della stampa?”, in Sistema Penale, 2021.
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