Pene pecuniarie: le modalità dell’esecuzione
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(1) L’autorità giudiziaria competente è il magistrato di sorveglianza del luogo in cui è in esecuzione la pena detentiva, ovvero del luogo di residenza del condannato se quest’ultimo è libero.
(2) L’istanza può essere presentata anche personalmente dall’interessato.
(3) Il difensore va individuato nel legale appositamente nominato dal condannato per la fase di esecuzione o, se questo manchi, al difensore, anche d’ufficio, che
lo ha assistito nella fase del giudizio.
(4) Allegare le circostanze dalle quali è possibile inferire lo stato di insolvenza del condannato, quali, ad esempio, la esiguità dei redditi goduti e la necessaria soddisfazione mediante i medesimi delle esigenze primarie del nucleo familiare.
(5) In base al disposto di cui al primo comma dell’art. 133-ter cod. pen. il giudice, fin dal momento della sentenza di condanna o del decreto penale, può disporre, in relazione alle condizioni economiche del condannato, che la multa o l’ammenda venga pagata in rate mensili da tre a trenta; ciascuna rata, tuttavia, non può essere inferiore a quindici euro. Giova rammentare che l’art. 660 cod. proc. pen., rubricato Esecuzione delle pene pecuniarie e riportato integralmente in epigrafe, è stato abrogato dall’art. 299 d.lgs. 30 maggio 2002, n. 113 e dall’art. 299 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 con la decorrenza indicata nell’art. 302 dello stesso decreto (1 luglio 2002).
Successivamente, la Corte Costituzionale, con sentenza 4-18 giugno 2003, n. 212 (Gazz. Uff. 25 giugno 2003, n. 25 – Prima serie speciale) ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale dell’art. 299 d.lgs. 30 maggio 2002, n. 113, nella parte in cui disponeva l’abrogazione della suddetta fattispecie. Le “situazioni di insolvenza” in presenza delle quali, ai sensi dell’art. 660, terzo comma, cod. proc. pen., il magistrato di sorveglianza può disporre la rateizzazione della pena, non presuppongono affatto l’accertamento della “insolvibilità” del condannato prevista dal precedente comma secondo del medesimo articolo, come è dimostrato, fra l’altro, dal fatto che detta insolvibilità può essere accertata anche quando, essendosi già disposta la rateizzazione, risulti impossibile l’esazione anche di una sola rata (Cass. pen. sez. I, n. 5760/1997). L’orientamento consolidato e pacifico della giurisprudenza di legittimità propende per interpretare l’espressione “impossibilità
di esazione” contenuta nell’art. 660 cod. proc. pen., non come un termine tecnico assimilabile a insolvenza, bensì come indice sintomatico di una situazione obiettiva, attribuibile a qualsiasi ragione, transitoria o definitiva, che costituisce impedimento al regolare recupero della pena pecuniaria (Cass. pen. sez. I, n. 2499/1992). Il provvedimento di rateizzazione della pena pecuniaria, attribuito alla competenza del magistrato di sorveglianza dall’art. 660, terzo comma, cod. proc. pen., è subordinato alla esistenza di “situazioni di insolvenza” e non presuppone affatto la richiesta di conversione della pena pecuniaria da parte del pubblico ministero, alla quale deve darsi luogo, ai sensi del precedente comma secondo dello stesso art. 660 cod. proc. pen., solo in presenza della diversa condizione costituita dall’accertata “impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa” (Cass. pen. sez. I, n. 25355/2014).
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Il differimento dell’esecuzione della pena
(1) L’autorità giudiziaria competente è il magistrato di sorveglianza del luogo in cui è in esecuzione la pena detentiva, ovvero del luogo di residenza del condannato se quest’ultimo è libero. Giova rammentare che l’art. 660 cod. proc. pen., rubricato Esecuzione delle pene pecuniarie e riportato integralmente in epigrafe – si veda supra la formula che precede, alla quale si fa espresso rinvio –, è stato abrogato dall’art. 299 d.lgs. 30 maggio 2002, n. 113 e dall’art. 299 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 con la decorrenza indicata nell’art. 302 dello stesso decreto (1 luglio 2002). Successivamente, la Corte Costituzionale, con sentenza 4-18 giugno 2003, n. 212 (Gazz. Uff. 25 giugno 2003, n. 25 – Prima serie speciale) ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale dell’art. 299 d.lgs. 30 maggio 2002, n. 113, nella parte in cui disponeva l’abrogazione della suddetta fattispecie.
(2) L’istanza può essere presentata anche personalmente dall’interessato.
(3) Il difensore va individuato nel legale appositamente nominato dal condannato per la fase di esecuzione o, se questo manchi, al difensore, anche d’ufficio, che
lo ha assistito nella fase del giudizio.
(4) Allegare le circostanze dalle quali è possibile inferire lo stato di temporanea insolvenza del condannato, quali, ad esempio, la necessità di destinare i propri redditi a spese impreviste ed indifferibili per esigenze di famiglia o di salute, nonché quelli dai quali desumere la prospettiva della futura solvibilità del condannato ed i tempi nei quali la stessa dovrebbe realizzarsi.
(5) Nelle ipotesi in cui la nomina non sia apposta in calce all’istanza.
(6) Allegare in copia la documentazione utile a comprovare lo stato di temporanea impossibilità all’adempimento.
(7) Il condannato non detenuto, ha l’obbligo (art. 677, comma 2-bis, cod. proc. pen.), a pena di inammissibilità, di fare la dichiarazione o l’elezione di domicilio con la domanda con la quale chiede una misura alternativa alla detenzione o altro provvedimento attribuito dalla legge alla magistratura di sorveglianza. Il condannato, non detenuto, ha altresì l’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni previste dall’articolo 161. La disposizione di cui all’art. 677, comma 2-bis, cod. proc. pen. è tassativa e deve, di conseguenza, escludersi che l’obbligo incombente sul condannato non detenuto possa essere assolto attraverso il “recupero” di indicazioni equipollenti pur desumibili dagli atti processuali (quali le mere indicazioni circa il domicilio o la residenza dell’istante), o che possano considerarsi valide precedenti dichiarazioni o elezioni di domicilio che, valide, ai sensi dell’art. 164 cod. proc.
pen., per ogni stato e grado del giudizio di cognizione, perdono efficacia in relazione al procedimento di esecuzione e di sorveglianza. Questi procedimenti
non costituiscono, infatti, una fase o un grado del procedimento di cognizione, ma sono del tutto autonomi, con la conseguenza che la dichiarazione o la elezione di domicilio effettuata nel giudizio di cognizione non è suscettibile di “trasmigrazione” nel procedimento esecutivo ed in quello di sorveglianza.
Unica eccezione a tale principio è quella prevista dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. per la notificazione al condannato ed al difensore dell’ordine di
esecuzione e del decreto di sospensione della esecuzione della pena emessa dal p.m.; ma tale eccezione trova la sua logica giustificazione nella necessità di pervenire in tempi brevi alla esecuzione della condanna, per cui si presume, proprio per la quasi contemporaneità della irrevocabilità della sentenza con la sua esecuzione, che la notificazione presso i luoghi indicati nel procedimento di cognizione possa accelerare la complessa procedura di esecuzione delle pene “brevi” (Cass. pen. sez. Un., n. 18775/2009). Peraltro, l’osservanza di tale obbligo viene meno quando lo stato di irreperibilità o di latitanza – risultante in atti – del condannato renda tale obbligo inesigibile: e ciò perché il dichiarato stato di irreperibilità o di latitanza ingenera una presunzione di interruzione del “collegamento personale” che è all’origine del rapporto di patrocinio scaturito dal mandato difensivo e che è, altresì, il naturale portato del rapporto originato dalla nomina di ufficio. A queste sole condizioni, pertanto, l’altrimenti irrilevante difficultas operandi diventa una vera situazione di inesigibilità, legittimando il difensore a proporre le istanze pur in difetto della elezione o dichiarazione di domicilio (Cass. pen. sez. Un., n. 18775/2009). Nel procedimento di sorveglianza, l’obbligo di procedere all’elezione di domicilio come condizione di ammissibilità delle istanze, sussiste anche per il condannato che si trovi in stato di detenzione domiciliare, in quanto, mentre la carcerazione inframuraria è immediatamente verificabile, quella domiciliare può non risultare dagli atti (Cass. pen. sez. I, n. 46556/2005).
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