“Per la critica della costituzione materiale” e il fattore religioso nell’italia repubblicana

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Questa critica alla costituzione materiale risale al 1977[1], ma le basi da cui parte vanno ricercate sin dal 1971, quando l’organizzazione del movimento operaio come attività espressiva e costitutiva della rivendicazione scavalcava il tema dell’organizzazione del movimento operaio in quanto identificazione dello stesso in un partito ufficiale, internazionalista e di stampo neo-bolscevico. Eppure, di analisi politologica v’è ben poco. Semmai, la riflessione teorico-giuridica trae un primo spunto dall’osservazione sociale. Anche la fenomenologia religiosa ha vissuto stagioni di questo tipo, ove era possibile verificare i due assiomi già osservati: la critica della struttura organizzativa formale e la situazione sostanziale contraddistinta da una contraddittoria dinamica di poteri o istituzioni. Per quanto riguarda l’esperienza cattolica, il Concilio Vaticano II ha valorizzato la componente laicale del popolo dei fedeli di Cristo e perciò ha fornito, specie nel dibattito che lo ha preceduto accompagnato e seguito, degli strumenti teologici ed ecclesiologici idonei a rappresentare la comunità religiosa cattolica anche al di fuori dell’invalicabile, e incontrovertibile, steccato “laico/chierico” che informava ad esempio il Codex del 1917. Quella bipartizione diventava addirittura dualismo: col Concilio Vaticano II la messa a valore dell’autonomia laica reclamava per converso la patente esistenza di obiettivi comuni, rispetto ai quali la stessa attuazione formale del Concilio -quella del Codex del 1983, l’animus confessionis degli Accordi Modificativi[2] e così via… – poteva, e ben può, mostrarsi arretrata, in affanno, non sempre lineare. Il tema dell’esperienza militante (anche) come esperienza di minoranza, invece, si ridisegna a partire dalla stagione delle intese (seconda metà degli anni Ottanta), quando finalmente si tenta di procedere all’attuazione dell’art. 8 della Costituzione. Curiosamente, nel delineare le aporie tra costituzione formale e costituzione materiale, Antonio Negri non si sofferma sul tema della minoranza religiosa: probabilmente essa si dimostrava distante dalla logica riformistica dell’attuazione dei diritti sociali (che Negri avversava, ma che dominava il dibattito all’interno dell’esperienza dei partiti operai). Tuttavia la problematica ha oggi riflessi considerevoli rispetto all’attuazione dei diritti civili e di quelli politici. È possibile vedere tutto ciò notando come su questioni emergenti quali le terapie del dolore e le pratiche contraccettive, nel quadro di una neo-valorizzazione dell’obiezione di coscienza, confessioni religiose cd di “minoranza”, quali la Chiesa Valdese, dimostrino un’apertura assai più visibile e vivace rispetto all’atteggiamento della Chiesa Cattolica, che -tra l’opzione di un’ermeneutica avanzata per come tratteggiata da Martini e quella di un prudente avvicinamento come proposto recentemente dalle esperienze episcopali sudamericane- ha sin qui scelto una forte e rigida chiusura, sia pure servendosi di interpretazioni suggestive delle norme canoniche e delle Scritture. Ancora potrebbe notarsi, per rilevare una non latente componente conflittuale nelle relazioni tra esperienze confessionali contemporanee, come -stando alla composizione di numerosi parlamenti nazionali, quello italiano in particolar modo- esponenti delle confessioni minoritarie non raggiungano quasi mai posizioni di rilievo: la percentuale di aderenti a confessioni di minoranza scema significativamente quando si passa dalla popolazione complessiva al novero delle assemblee rappresentative. La minoranza non entra nel policies making, insomma: anche questo le ripropone l’alternativa rischiosa dell’antagonismo.
Quanto Negri afferma sulle tendenze della (pubblica) amministrazione consente di istituire con ancora maggiore freschezza connettivi soddisfacenti tra la mancata attuazione del disegno costituzionale post-resistenziale e la speranza pluralista delle manifestazioni sociali.
[…] La critica dell’economia politica dell’amministrazione deve secondo me quindi rilevare: a) la norma dispotica dell’amministrazione e b) la duplicità dei suoi contenuti; c) la rigidità di classe dell’amministrazione e d) le regole di accelerazione della rigidità e/o discontinuità dell’amministrazione; e) la forma totalizzante del processo amministrativo e f) lo spessore dell’antagonismo […][3].
La situazione che Negri riesce a descrivere presenta più di qualche assonanza, almeno per ciò che riguarda la disciplina del fatto religioso, col regime delineato, nel proprio testo originario, dalla Legge sui Culti Ammessi[4]. Tale legge, nonostante significative censure giurisprudenziali e nonostante una generalità in corso di trasformazione verso la residualità (il meccanismo dispositivo generale dovrebbe ora essere la linea dell’intesa ex art. 8 Cost.), è da ritenersi tuttora vigente per quei “culti” non muniti di un’intesa nei confronti dello Stato: essi non sono pochi, non sono limitati, spesso non sono così radicati da poter trovare propri canali di affermazione e comunicazione sociale al di fuori di una (qualche) disciplina statuale.
Ora, se la vigenza della legge richiamata ripropone lo schema paradossale e in Italia diffusissimo d’una legge precostituzionale sopravvissuta alla strategia assiologica e politica della Costituzione, che si ripropone peraltro in ambiti decisivi come il Codice Civile, il contenzioso amministrativo, il Codice Penale…[5], non v’è dubbio che il contributo analitico di Negri possa, con i debiti adattamenti, essere utile allo studioso anche per comprendere la disciplina del fatto religioso nel cd “Stato Liberale” e nella legislazione repubblicana. Tutte e sei le prospettive individuate dall’Autore possono essere riadattate alle differenti normazioni di riferimento.
Nello “Stato Liberale”, infatti, pur contraddistinto da personalità spesso apertamente anticlericali, la spoliazione dell’asse ecclesiastico non impediva, anzi incoraggiava, un atteggiamento identicamente battagliero nei confronti dei culti minoritari: prova ne sia che la “lettera patente” destinata ai Valdesi[6], nella sua scarna testualità, ribadiva principi che qualunque legislazione liberal-democratica non poteva non dare per acquisiti; prova ne sia che la scelta della religione cattolico-romana quale religione di Stato[7], lungi dal configurarsi come “clausola di stile”, prefigurava invece un’acquiescenza culturale fittizia per ridare al Regno neonato le simpatie di un ceto curiale spesso aspramente contrario all’unificazione; prova ne sia ancora che, già non fosse tediosa la definizione di certi culti come “ammessi”, il periodo savoiardo addirittura li indicava come “tollerati”[8]. Un retaggio linguistico costantiniano e teodosiano produttivo di discriminazioni e soprattutto di miopie politiche. V’è del resto applicazione peculiare delle regole di accelerazione della discontinuità dell’amministrazione nella legge delle Guarentigie[9]: perché la questione romana, abbandonato un terreno di scontro militare che si chiude con la presa della Città Eterna, acuisce il livello di scontro politico. E che prova di antagonismo viene dalla controparte: il non expedit, il divieto di partecipazione politica, il primato pontificale. Ciò ha riflessi endogeni ed esogeni per la struttura politica ecclesiale: nel primo senso, il Concilio Vaticano I munisce di una nuova e solenne sanzione il soglio petrino e il Codex del 1917 ne interiorizza gran parte degli insegnamenti (anche se la stagione liberale è sul punto di esaurirsi definitivamente); nel secondo senso, invece, si vuole paralizzare la rilevanza esterna del frazionismo interno, e in questo caso le posizioni del cattolicesimo liberale, de l’Avenir[10] e così via… Il rapporto col potere politico, per la Chiesa Cattolica del tempo, non si esaurisce nell’autonomia del politico, e concretamente nella selezione di una classe dirigente liberale e cattolica. Semmai, nella sussunzione logica del principio di maggioranza nell’ambito della decisione contra fidem, o prima ancora contra veritatem.
Alcune delle linee guida individuate nella critica alla costituzione materiale possono valere anche per l’oggi ed è il caso di individuarne qualche applicazione nello ius conditum, anche al fine di perfezionare il processo performativo dello ius condendum[11].
La discussione si intreccia evidentemente con la necessità di sottoporre i meccanismi parlamentari a un test di funzionalità e capacità rappresentativa di istanze di massa, proprio nel momento in cui questo rapporto virtuoso sembra nel suo punto di massima crisi, e proprio nel momento in cui la critica finalmente ha recepito che il meccanismo maggioritario, rappresentativo, parlamentare non è soltanto metodologico -il che peraltro non varrebbe a renderlo “neutro” o “indifferente”, ma soprattutto valoriale e politico. Può essere emblematico richiamare ancora una volta la vicenda dell’art. 7 Cost. e degli Accordi Modificativi del 1984. Nel primo caso, la contrarietà all’art. 7 Cost. veniva devoluta dal Partito Comunista Italiano e dalla sua base consensuale sostanziale al Partito Socialista, a singoli gruppi della Sinistra cattolica (che al contempo si batteva per la costituzionalizzazione del diritto di resistenza), a personalità di formazione liberale e maturate in una precisa considerazione critica rispetto allo Stato Città del Vaticano in quanto entità politica e alla dottrina cattolica -anzi, cristiana-, dal punto di vista filosofico e dottrinale[12]. L’espressa menzione dei Patti Lateranensi nel corpus dell’articolo, da qualunque prospettiva lo si voglia guardare (costituzionalizzazione del principio pattizio, costituzionalizzazione del principio concordatario, costituzionalizzazione delle norme pattizie tutte), costituisce probabilmente un’altra variante di regola di accelerazione della discontinuità rispetto alle confessioni religiose diverse da quella cattolica -in questo senso, e in queste formule, pure il successivo art. 8.  
Nondimeno la vicenda degli Accordi Modificativi ha determinato un’ulteriore frizione nel fronte costituzionale laico: contrari ad essi, rimasero soltanto singoli esponenti della Sinistra indipendente e una porzione significativa del mondo cattolico rimasto coerente con la piattaforma teologica e concettuale del Concilio Vaticano II[13]. L’autorevole dissenso tuttavia non fu sufficiente ad evitare alcune aporie, che investono tuttora la disciplina ecclesiasticistica italiana:
 
         nella disciplina degli enti, infatti, l’amministrazione conserva un potere discrezionale in ordine all’identificazione dei requisiti per la costituzione dell’ente stesso che, per quanto possa essere assimilato a un esame di “mera legittimità” nella verifica degli elementi necessari rispetto alle previsioni di legge, resta preponderantemente sostanziale nella verifica del “fine di religione o di culto”. È coerente alla altra previsione di Negri, lo spessore dell’antagonismo, il contenuto dell’Intesa interpretativa del 1997[14]: veniva risolto ogni dubbio circa la (non) necessità di verificare la sufficienza patrimoniale dell’ente (rapporto mezzi fini) e la valutazione di utilità sociale dell’ente medesimo (rapporto tra obiettivi statutari e reale incidenza sociale); anche a latere confessionis, del resto, la tentazione egemonica resta sottesa nell’approvazione ecclesiastica, la quale, ancora una volta, può atteggiarsi come contenimento delle istanze critiche e non solo, come taluni pure vorrebbero, quale semplice attestazione di un coordinamento tra autorità gerarchica e gruppo particolare organizzato;
         ulteriori sollecitazioni critiche, in base alla forma totalizzante del processo [amministrativo, ma Negri evidentemente lo intende non solo come diritto amministrativo pubblico, bensì più latamente come intervento autoritario gestorio o regolativo], possono esser sollevate in tema di trascrizione tardiva. Sull’istituto della trascrizione in materia matrimoniale quale viatico per la produzione di effetti giuridici civili non sembra esserci dubbio, ma, nel caso di trascrizione tardiva, il mantenimento dello status libertatis potrebbe non coordinarsi in modo sufficientemente adeguato all’imprescindibile necessità di far salvi i diritti legittimamente quesiti dai terzi prima della trascrizione e in contrasto con lo stato coniugale delle parti[15]. È da aggiungere che la trascrizione tardiva, che recupera gli effetti civili sin dal momento della celebrazione, non è istituto valevole per tipologie matrimoniali ulteriori allo schema canonico o, rectius, negoziato. L’esigenza di valorizzare la componente, affettiva emotiva e spirituale, nella determinazione di chi poi scegliesse la sola celebrazione confessionale del matrimonio, come impegno esistenziale o religioso, ulteriormente milita a favore di una legge generale di libertà religiosa, la cui vicenda è quanto mai aperta, e distante da giungere a conclusione.
 
Ora, senza invocare una “crisi di direzione” delle tendenze confessionali, che Negri invece spesso agita a riguardo del “movimento operaio”, è innegabile come la religiosità e le sue manifestazioni concrete e rituali divengano ulteriore terreno di uno scontro biopolitico -investimento totale da parte del Potere sulla vita- tra due ordini ancora in conflitto[16]. Quello giuridico-formale e quello confessionale: l’uno alle prese con un diritto vivente che rischia di ridursi a camera di compensazione dei rapporti di forza[17], l’altro alle prese con una difesa esasperante del proprio rigorismo interno.
 
 
Domenico Bilotti
 


[1] Riferimento a A. NEGRI, Autovalorizzazione operaia e ipotesi di partito in ID, La forma Stato, Milano, 1977, 297-342, ora (anche) in ID, I libri del rogo, Roma, 2006, 195-244, a nome Per la critica della costituzione materiale (titolo originale: Dall’Estremismo al Che fare? Per la critica della costituzione materiale: autovalorizzazione operaia e ipotesi di partito).
[2] Cfr. L. 121/1985 (“Ratifica ed esecuzione dell’accordo con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984,che apporta modifiche al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede”). Rispetto all’esecuzione degli Accordi del 1929, medesima è l’indicazione del contraente confessionale, non più “Italia” -formalmente “regno” a quel tempo- quello civile, ma “Repubblica” quanto all’espressa definizione del suo regime.
[3] A. NEGRI, I libri del rogo, cit., 227.
[4] Cfr. L. 1159/1929, contemporanea alla stipula dei Patti, e sintomatica dell’intenzione, da parte del governo fascista, di concludere al più presto le vertenze aperte coi gruppi religiosi. Per ciò che riguarda i Patti, si ricordi la L. 810/1929 (“Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi, e del Concordato, sottoscritti in Roma, tra la Santa Sede e l’Italia, l’11 febbraio 1929”).
[5] Difatti, pur con successive modifiche, cfr. R.D. 262/1942; R.D. 1054/1924 (“Testo Unico delle Leggi sul Consiglio di Stato”); R.D. 1398/1930. Si noti la peculiarità storico-giuridica della fonte formale, il regio decreto.
[6] La “lettera” risale addirittura al 18 febbraio del 1848, ed essa stabilisce che i Valdesi siano ammessi a “[…] godere  di tutti i diritti civili e politici dei nostri sudditi, a frequentare le scuole dentro e fuori delle Università, ed a conseguire i gradi accademici. Nulla però è innovato quanto all’esercizio del loro culto […]”.
[7] Lo Statuto Albertino, di poco successivo alla lettera patente (4 marzo 1848) stabilisce all’art. 1 che religione di stato è quella “[…] cattolica apostolica romana […]”.
[8] Difatti, prosegue lo Statuto al successivo art. 3, “[…] altri culti attualmente esistenti nello Stato sono semplicemente tollerati secondo gli usi e i regolamenti speciali […]”. Si noti il termine “Stato”, inconsueto rispetto al frequente “Regno”, e si osservi che la richiamata regolamentazione particolare è, ovviamente, unilaterale, non “concordata”.
[9] In realtà l’intitolazione del provvedimento appariva configurare un’indebita ingerenza del Legislatore Liberale. Cfr. L. 214/1871 (“Legge sulle prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede e sulle relazioni della Chiesa con lo Stato”).
[10] Periodico liberale francese animato tra gli altri da Félicité de Lamennais, Philippe Gerbet, Henri Lacordaire. Il programma del gruppo, marcatamente separatista, prevedeva libertà di stampa, di coscienza, d’associazione e di insegnamento. Di ispirazione vagamente suffragista, auspicava il massimo decentramento amministrativo. Venne condannato sin dal 1832 da Papa Gregorio XVI, nell’ottica di un marcato ostruzionismo verso i rapporti tra dottrina cattolica e teorie politiche liberal-democratiche. Per un resoconto sull’attività legislativa di Gregorio XVI si consiglia: (a cura di) S. VINCIGUERRA, I regolamenti penali di Papa Gregorio XVI per lo Stato Pontificio, Padova, 2000; per un riferimento teorico al programma de “l’Avenir”, invece, si notino le consonanze tra questo e il liberalismo napoletano di fine XVIII secolo. Cfr. F. BERTI, La ragione prudente. Gaetano Filangieri e la religione delle riforme, Firenze, 2003.
[11] Pare del resto ragionare in quest’ottica S. RODOTÀ, Funzione politica del diritto dell’economia in (a cura di) P. BARCELLONA, L’uso alternativo del diritto, vol. I, Roma-Bari, 1973, 233.  
[12] Per la composizione ideologica dell’Assemblea, al di là dell’individuazione in essa di un possibile “fronte laico”, E. CHELI, Il problema storico della Costituente, in Politica del diritto, ottobre 1973, nn. 4-5. Convincente “[…] nostalgici del precedente regime, raccolti nel Movimento Sociale Italiano, confermarono un appoggio nostalgico al vecchio concordato; i democristiani, che, per vicinanza con il Vaticano, difendevano lo status quo, ottennero una revisione gattopardesca e migliorativa dei privilegi della Chiesa, la quale non si limitò a confermare l’assetto concordatario, ma lo consolidò ed amplificò, con la susseguente stipulazione delle intese con altre confessioni (intese che ribadivano con pochi miglioramenti la linea discriminatoria della legge sui culti ammessi); i socialisti, che in Assemblea costituente avevano assunto il ruolo di oppositori dell’art. 7, con Craxi divennero i paladini della revisione concordataria, reiterando la traiettoria mussoliniana che, da mangiapreti che era, divenne l’uomo della provvidenza; i comunisti, che con Togliatti votarono l’art. 7 per scongiurare la rottura “ della pace religiosa” minacciata dal Vaticano, confermarono la linea concordataria […]” in V. TOZZI, Fasi e mezzi per l’attuazione del disegno costituzionale di disciplina giuridica del fenomeno religioso su Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica, (http://www.statoechiese.it), maggio 2007, 7-8, n. 8.  
[13] Basti osservare la lista dei firmatari del “Documento di Cattolici in occasione della ratifica parlamentare del nuovo Concordato” (marzo 1985): Vittorio Agnoletto, Enrico Bacci, Ernesto Balducci, Piero Barbaini, Franco Barbero, Sebastiano Baroni, Vittorio Bellavite, Gigi Berta, Natale Bianchi, Marco Boato, Ciro Castaldo, Centro “LA PORTA” di Bergamo, Pasquale Colella, Lucia Corbo, Cristiani per il Socialismo (Milano), Mario Cuminetti, Roberto D’Alessio, Alberto De Nadai, Camillo De Piàz, Carlo Fornoni, Giovanni Franzoni, Gianni e Maria Gennari, Filippo Gentiloni, Giulio Girardi, Domenico Jervolino, Raniero La Valle, Nino Lisi, Gerardo Lutte, Gianni Manziega, Anna Maria Marenco, Anna Maria Marlia, Ettore Masina, Enzo Mazzi, Nuova Corsia (Milano), Amato Piaggio, Rita Pierro, Lucia Pigni, Josè Ramos Regidor, redazione di ADISTA (Roma), redazione di COM-NUOVI TEMPI (Roma), redazione de IL TETTO (Napoli), Armido Rizzi, Carlo Rubini, Francesco Saija, Luigi Sandri, Fausto Tortora, Marcello Vigli, Umberto Vivarelli, Gian Gabriele Vertova, Adriana Zarri, Antonio Zavoli, Agostino Zerbinati.
[14][…] l’Italia e la Santa Sede hanno raggiunto il 24 febbraio 1997 un’Intesa tecnica interpretativa e applicativa degli Accordi 18 febbraio e 15 novembre 1984, la quale sembra che abbia accolto i criteri sopra espressi. Essa, infatti, ha escluso che per il riconoscimento degli enti ecclesiastici potessero essere applicate le norme allora vigenti del libro I del cod. civ. […]” in (aggiornamento a cura di A. BETTETINI, G. LO CASTRO) F. FINOCCHIARO, “Diritto Ecclesiastico”, Bologna, 2007.
[15] In una prospettiva (multi)culturalista ben più penetrante, è d’uopo segnalarsi E. DIENI, Tradizione “iuscorporalista” e codificazione del matrimonio canonico, Milano, 1999, che da un lato stigmatizza lo schema matrimoniale “virilista”, d’origine confessionale e poi largamente recepito dalle normative storiche civilistiche, e dall’altro anticipa una concezione “curativa”, “caritatevole” e perciò “amorevole” del diritto, per come cara all’Autore anche nel prosieguo della Sua opera. Chi scrive nota una consonanza non banale con la configurazione del rapporto politico come rapporto “amorevole”, ai fini del primato del “comune” sul “privato”, recentemente analizzata da Michael Hardt.
[16] Suggestivo, ma “burocratico”, il gioco di rimandi nelle fonti antecedenti alla stipulazione degli Accordi Modificativi. Il comma 2° dell’art. 7 Cost. richiama i Patti Lateranensi, ed entro essi il Trattato, che -nel perfetto ed illusorio continuismo del primo Mussolini- all’art. 1 richiama a sua volta lo Statuto Albertino, che enuncia il principio della religione di Stato. Questa catena “giurata” è stata assai significativamente analizzata in G. CASUSCELLI, Concordati, intese e pluralismo confessionale, Milano, 1974.
[17] Sul rischio infatti P. BARCELLONA, L’uso alternativo del diritto, cit.

Dott. Bilotti Domenico

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