Fatto
A seguito della morte del feto, verificatesi nella notte tra il 4 e 5 aprile 2010, la paziente, unitamente ai familiari, citavano in giudizio, dinnanzi al Tribunale locale, l’Azienda ospedaliera Universitaria presso cui la donna si era recata a seguito di un malore.
Parte ricorrente ravvisava nell’operato dei medici una responsabilità nella morte del feto, in quanto, secondo la ricostruzione fornita, i medici, che avevano effettuato la visita ginecologica sulla donna che lamentava forti dolori all’addome, contrazioni e gonfiore, avevano dimesso quest’ultima nonostante dal tracciato risultasse una grave sofferenza del feto. La donna, dopo aver fatto rientro a casa, si presentava nuovamente all’ospedale a seguito di perdite ematiche.
Nonostante quanto mostrato dal tracciato e i sintomi rappresentati dalla donna, e nonostante fosse una gravidanza a rischio, in quanto ottenuta attraverso una tecnica di riproduzione assistita detta FIVET, i medici avevano comunque deciso di dimettere la donna, senza, oltretutto, alcuna prescrizione.
Il Giudice di primo grado, investito della vicenda, decideva in senso sfavorevole a parte attrice. Rigettava quindi la domanda di questa, volta ad ottenere il risarcimento del danno patrimoniale e morale non ravvisando nell’operato dei medici una responsabilità nella morte intrauterina del feto. Il Giudice addiveniva a tale conclusione sulla base degli elementi emersi a seguito della consulenza tecnica. Secondo, infatti, quanto emerso dalla perizia, la causa della morte era da riferire all’inserzione velamentosa del funicolo, avvenuta al momento della rottura delle membrane, ovvero ad un evento distinto, rispetto a quello lamentato nelle ore pomeridiane della giornata. Pertanto, secondo il consulente tecnico, non sussisteva il nesso eziologico, tra evento dannoso e prestazione sanitaria. In ordine, invece, alla circostanza per cui l’esame ecografico effettuato nella giornata del 4 era andato perso, il Giudice di primo grado si esprimeva ritenendo che non vi erano elementi probatori.
A seguito di tale decisione, parte ricorrente decideva di proporre appello, lamentando una erronea applicazione da parte del Tribunale dei criteri in tema di onere della prova e ritenendo errata la conclusione a cui era arrivato il consulente tecnico.
L’Azienda Ospedaliera Universitaria si costituiva in giudizio sostenendo che nessuna anomalia era stata evidenziata dagli esami effettuati e sosteneva che, trattandosi di prestazioni in regime ambulatoriale, i referti delle visite erano stati consegnati alla paziente.
La Corte d’Appello, esaminati gli atti e richiesta una nuova consulenza, concludeva in senso contrario alla decisione del Giudice di primo grado, accogliendo l’appello proposto e dunque riconoscendo in capo all’Azienda sanitaria una responsabilità per la morte intrauterina del feto.
L’Azienda sanitaria veniva così condannata al risarcimento dei danni per una somma pari a 82.000€ ciascuno, in favore dei genitori del feto, ed a 11.350€ ciascuno, in favore degli altri tre familiari ricorrenti.
Nonostante la decisione ad essa favorevole, parte attrice non si riteneva soddisfatta della decisione dei giudici della corte di Appello, e decideva così di proporre ricorso in Cassazione.
Con il primo motivo di ricorso, parte attrice lamentava la violazione delle tabelle di Milano nonché dei principi giurisprudenziali richiamati nella sentenza impugnata, in relazione all’articolo 360, n. 3 c.p.c. In particolare, la Corte d’Appello, secondo parte ricorrente, avrebbe erroneamente inteso il principio affermato nella sentenza della Corte di Cassazione n. 12717 del 19 giugno 2015, con riferimento al danno per perdita del rapporto parentale nel caso di figlio nato morto. Nella sentenza in parola, i Giudici ermellini avevano ritenuto del tutto similare la situazione del feto nato morto, a quella del decesso di un figlio, e che occorreva considerare che solo nel secondo caso era ipotizzabile il venir meno di una relazione affettiva concreta, sulla quale riparametrare il risarcimento, nell’ambito della forbice di riferimento indicata nelle tabelle di Milano. Da questo principio, secondo parte ricorrente, la Corte di Appello aveva fatto discendere la possibilità di dimezzare i parametri minimi previsti dalle tabelle di Milano, contrariamente a quanto inteso dalla Corte di Cassazione che lascerebbe intendere, invece, che la liquidazione del danno per un figlio nato morto dovrebbe comunque collocarsi all’interno della forbice stabilita dalle tabelle milanesi e cioè, al più, nel parametro minimo. Ma per parte ricorrente anche considerare come parametro di riferimento quello minimo sarebbe errato almeno in riferimento ai genitori del nascituro. In riferimento ai genitori, infatti, sarebbe possibile affermare l’esistenza di una relazione affettiva concreta con il nascituro, poiché la prima lo aveva portato in grembo per nove mesi e si trattava di una gravidanza fortemente voluta da entrambi i genitori in quanto ottenuta tramite inseminazione artificiale e quindi da qualificarsi come “preziosa”. Spingendosi ad affermare che, nel caso di specie, si potrebbe ben trattare di perdita di un bambino e non di un feto.
Con il secondo motivo di ricorso, parte attrice lamentava che la Corte di Appello non aveva considerato, nella quantificazione del danno, la circostanza per cui la gravidanza era stata portata a termine e che si trattava di una gravidanza preziosa, perché ottenuta tramite una fecondazione artificiale.
Con il terzo ed ultimo motivo, parte ricorrente lamenta l’assenza di motivazione rispetto alla liquidazione del danno non patrimoniale operata in maniera difforme rispetto ai parametri stabiliti dalle tabelle di Milano.
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La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, valutati i motivi di doglianza, ha respinto il ricorso proposto.
In particolare, i Giudici di Cassazione hanno ritenuto corretto l’operato della Corte d’Appello, che ha riconosciuto a parte attrice la somma, quale risarcimento del danno patrimoniale e non, pari alla metà del minimo previsto dalle tabelle di Milano, in considerazione della circostanza che si trattava pacificamente di morte di un feto. Non vi era quindi, nel caso di specie, un danno da perdita del rapporto parentale, non essendosi instaurato un oggettivo (fisico e psichico) rapporto tra nonni, genitori e nipote. Secondo la Corte di Cassazione, richiamando il suo stesso precedente (cass.12717 del 19 giugno 2015) nella liquidazione della perdita del rapporto parentale a seguito di “figlio nato morto” le tabelle milanesi prevedono una forbice che consente di tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, anche la qualità dell’intensità della relazione affettiva che caratterizza il rapporto parentale con la persona perduta.
La gradazione espressa dalla forbice tabellare, che individua un minimo e un massimo, va determinata tenendo conto di una serie di circostanze esistenti nel caso concreto, anche la qualità della intensità della relazione affettiva che caratterizza il rapporto parentale. Nel caso di “feto nato morto”, secondo i Giudici Ermellini, è ipotizzabile solo il venir meno di una relazione affettiva potenziale, rispetto alla quale non vi è una indicazione espressa nelle tabelle di Milano.
Tale mancanza consente ai Giudice di merito di valutare il valore del risarcimento del danno sulla base di un criterio equitativo, e pertanto nel caso di specie, proprio in considerazione del mancato instaurarsi di un oggettivo rapporto tra nonni, genitori e nipote, la Corte d’Appello ha correttamente, a parere dei Giudici di legittimità, liquidato a ciascun genitore ed a ciascun nonno la metà del minimo riconoscibile sulla base delle tabelle Milanesi.
La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso proposto, chiarisce che le tabelle milanesi di liquidazione del danno non patrimoniale costituiscono un criterio guida per limitare la discrezionalità dei Giudici, non sono invece una normativa di diritto.
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