Per quanto concerne la mafia “straniera”, quando è configurabile il delitto di associazione di tipo mafioso

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(Ricorsi rigettati)

(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 416-bis)

Il fatto

Il Tribunale per il riesame delle misure cautelari personali de L’Aquila confermava l’ordinanza che aveva applicato a degli indagati la massima misura cautelare in relazione alla loro partecipazione ad un sodalizio criminoso, e segnatamente alla articolazione abruzzese marchigiana di un consorzio inquadrato come associazione mafiosa e caratterizzato dall’obiettivo di controllare la comunità nigeriana attraverso l’imposizione di regole di comportamento la cui violazione veniva punita in modo violento e da uno stretto collegamento con la casa madre (che si esprimeva anche attraverso il versamento delle somme necessarie per la registrazione delle singole articolazioni territoriali).

In particolare, ad uno degli indagati, si contestava di avere assunto il ruolo di referente locale dell’organizzazione mentre l’altro indagato aveva il ruolo di semplice esecutore.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione il difensore degli indagati che deduceva violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla identificazione degli elementi costitutivi dell’associazione di stampo mafioso atteso che sarebbe mancata la dimostrazione della esternalizzazione della forza intimidatrice del sodalizio fermo restando che non sarebbero stati indicatori della esistenza di tale requisito, né il rigore delle sanzioni inflitte agli associati in caso di violazione delle regole di comportamento, né i rapporti con la casa madre che sarebbero rimasti indimostrati (in particolare non vi sarebbe stata la prova del pervenimento in Nigeria delle somme raccolte per la registrazione delle articolazioni territoriali).

Si deduceva inoltre che sarebbero stati assenti sia i gravi indizi relativi al controllo generalizzato del territorio, sia quelli dimostrativi dell’assoggettamento dei componenti della comunità nigeriana in quanto non sarebbe stato idoneo a tal fine un episodio di aggressione che avrebbe trovato spiegazione alternativa in una lite per il controllo delle zone dove si svolgeva l’attività di parcheggio abusivo tenuto conto altresì del fatto che la prova della aggressione sarebbe derivata da dichiarazioni, non confermate in sede di interrogatorio, di un componente del gruppo criminale avverso a quello di cui il ricorrente avrebbe fatto parte, che aveva reso ampia collaborazione, sicché non era credibile che lo stesso non avesse confermato le accuse rese nell’immediatezza dell’aggressione per timore di ritorsioni.

Si deduceva inoltre che i reati fine emersi nel corso dell’attività investigativa erano riconducibili ad iniziative individuali e non potevano essere inquadrate come azioni esecutive del programma criminoso dell’associazione che si presumeva esistente.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva stimato infondato per le seguenti ragioni.

Si osservava a tal proposito prima di tutto che l’elemento, che caratterizza l’associazione mafiosa, è la disponibilità della forza di intimidazione ovvero di un “capitale criminale” accumulato attraverso la pregressa consumazione di delitti a base violenta che consente di reiterare eventuali azioni illecite attraverso la sua semplice evocazione ed è la disponibilità della forza di intimidazione che distingue la associazione mafiosa da quella semplice ovvero dai consorzi funzionali alla consumazione di un numero indeterminato di delitti, ma non dotati di alcun riconosciuto capitale criminale, rilevandosi al contempo che il capitale criminale può essere già esistente quando vengono poste in essere le condotte di adesione alla associazione: tale possibile diacronicità, tra il pregresso accumulo del capitale criminale e la successiva affiliazione, conduceva la Suprema Corte a ritenere che, per qualificare come mafiosa l’organizzazione cui il singolo aderisce, è necessaria la prova della sua capacità potenziale, anche se non attuale, di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una carica intimidatrice idonea a piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano in contatto con gli affiliati all’organismo criminale (Sez. 1, Sentenza n. 5888 del 10/01/2012; Sez. 2, Sentenza n. 24850 del 28/03/2017) mentre non si ritiene necessaria l’esternalizzazione della forza di intimidazione attraverso azioni violente “contestuali” alla partecipazione contestata (contra: Sez. 1, Sentenza n. 55359 del 17/06/2016; Sez. 6, Sentenza n. 28212 del 12/10/2017) dato che altrimenti, sempre per gli Ermellini, perlomeno secondo un certo orientamento nomofilattico, si disperderebbe la funzione di anticipazione della tutela tipica dei reati “di pericolo” in genere, e di quello associativo in particolare, e si opererebbe una subdola trasformazione del reato previsto dall’art. 416 bis cod. pen. in un reato “di evento“.

A fronte di ciò, si notava come le discontinuità giurisprudenziali relative alla necessità che la forza di intimidazione sia esternalizzata contestualmente alla condotta di partecipazione, traggano origine dalla genesi della fattispecie prevista dall’art. 416 bis cod. pen. che venne introdotta nel 1982 per sanzionare in modo aggravato l’adesione a consorzi criminali che avevano “già” ampiamente manifestato la loro forza e la cui sussistenza non era, pertanto, in discussione almeno nei territori di originario insediamento.

Orbene, in relazione a quanto appena esposto, si faceva presente come l’adattamento di tale fattispecie a manifestazioni dinamiche delle condotte associative che si sono espresse attraverso (a) la delocalizzazione delle mafie storiche fuori dai territori di origine, (b) la emersione di mafie nuove, (c) la diffusione di mafie a base etnica, abbia costretto la giurisprudenza a diversi processi di adattamento giurisprudenziale che, tuttavia, ad avviso del Supremo Consesso, non devono condurre, né nella dispersione della funzione di tutela anticipata che connota il reato associativo, né – di contro – ad attenuare il rigore probatorio nella dimostrazione del connotato essenziale degli aggregati mafiosi, ovvero la (pre)esistenza della forza di intimidazione.

Tal che si giungeva alla conclusione secondo la quale non può allora che prendersi atto del fatto che, mentre per le mafie c.d. “storiche” l’accumulo della forza di intimidazione è dimostrata da numerose sentenze passate in giudicato che attestano la perpetrazione dei delitti a base violenta che hanno contribuito a consolidarne il capitale criminale, per le mafie di nuova emersione e per le mafie straniere a base etnica, la sussistenza della forza di intimidazione deve essere verificata non su base “storica”, ma in concreto, attraverso la registrazione della consumazione reiterata di azioni illecite, di regola a base violenta, idonee a strutturale il capitale criminale del consorzio fermo restando che tale verifica non deve tuttavia risolversi nella ricerca della “contestualità” della condotta di partecipazione con gli atti che conducono alla capitalizzazione della forza di intimidazione essendo il capitale criminale un (pre)requisito della struttura organizzativa mafiosa cui il singolo aderisce e non essendo richiesto che il singolo partecipe contribuisca direttamente alla creazione di tale patrimonio criminale.

Oltre a ciò, si notava oltre tutto come debba essere altresì chiarito che, mentre l’associazione semplice deve essere solo funzionale alla consumazione di un numero indeterminato di delitti, le possibili proiezioni della forza di intimidazione capitalizzata dalle mafie può essere diretta verso molteplici finalità, ed essere funzionali non necessariamente alla consumazione di delitti, ma più semplicemente al “controllo“, ottenibile in ipotesi senza ricorso al delitto, ma solo attraverso l’evocazione (anche implicita) della forza di intimidazione atteso che l’art. 416 bis cod. pen. prevede che la forza di intimidazione può essere funzionale (a) a commettere delitti, (b) ad acquisire gestione e controllo di attività economiche, (c) a realizzare profitti o vantaggi ingiusti, (d) ad impedire o ostacolare il libero esercizio del voto, (e) conseguire vantaggi elettorali.

Alla luce di quanto appena enunciato, i giudici di piazza Cavour rilevavano come fosse stato così affermato che, ai fini della configurabilità del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, con riguardo ad una struttura autonoma ed originale operante in un territorio limitato (c.d. mafia locale), è necessaria la dimostrazione in concreto della forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo, che si caratterizza per la sua “forma libera“, potendo essere diretta a minacciare tanto la vita o l’incolumità personale quanto le condizioni esistenziali, economiche o lavorative di determinati soggetti, attingendo i diritti inviolabili, anche di tipo relazionale, delle persone, che vengono coattivamente limitate nelle loro facoltà (Sez. 2, n. 10255 del 29/11/2019) deducendosi contestualmente come, per effetto di questo approdo ermeneutico, il ventaglio di potenziali esplicazioni del capitale mafioso sia ampio non riducendosi al controllo del territorio – epifenomeno diffuso tre le mafie storiche – ma possa anche essere rivolto, più semplicemente, a realizzare profitti o vantaggi ingiusti.

Da ciò si evidenziava per di più che, proprio in virtù di tale orientamento interpretativo, è stato affermato, da un lato, che la finalità perseguita da una associazione di tipo mafioso può consistere anche nella commissione di reati per realizzare “vantaggi ingiusti” di natura non economica e, tra i vantaggi ingiusti, vi è quello di affermarsi come gruppo egemone di una comunità etnica di cospicue dimensioni presente in una grande città italiana (Sez. 1, n. 16353 del 01/10/2014), dall’altro, che il reato di associazione di tipo mafioso è integrato quando la “mafia straniera“, pur senza avere il controllo di tutti coloro che lavorano o vivono in un determinato territorio, ha la finalità di assoggettare al proprio potere criminale un numero indeterminato di persone appartenenti ad una determinata comunità, avvalendosi di metodi tipicamente mafiosi e della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo per realizzare la condizione di soggezione ed omertà delle vittime (Sez. 6 , Sentenza n. 43898; Sez. 6, Sentenza n. 35914 del 30/05/2001) fermo restando che il reato previsto dall’art. 416-bis cod. pen. è integrato anche da organizzazioni diverse dalle mafie cosiddette “tradizionali” ad alto numero di appartenenti con radicamento su un vasto territorio essendo sufficiente che i caratteri precipui dell’associazione di stampo mafioso vengano accertati anche solo rispetto ad un ambito territoriale o settoriale circoscritto (Sez. 2, n. 36111 del 09/06/2017).

In conclusione: per la prova della sussistenza della associazione mafiosa è necessario che sia dimostrata l’esistenza di una forza di intimidazione accumulata attraverso la consumazione di delitti a base violenta idonei ad ingenerare timore anche attraverso la sua semplice evocazione; tali azioni violente, essenziali per la capitalizzazione del potere criminale dell’associazione, non devono essere necessariamente contestuali alle condotte di partecipazione potendo preesistere alle stesse; né è necessario che il singolo accusato di partecipazione abbia posto in essere direttamente le azioni che hanno contribuito a consolidare il capitale criminale del sodalizio.

Inoltre – ed il dato è di particolare rilievo per le mafie a base etnica – la forza di intimidazione del gruppo non deve essere necessariamente diretta all’assoggettamento della popolazione di un territorio, ma può anche essere funzionale al controllo ed alla sottomissione di un gruppo di persone ristretto in quanto facente capo ad una medesima comunità.

Ciò posto, venendo al caso di specie, nel caso delle associazioni nigeriana delocalizzate e riconducibile alla società qui in contestazione, si registrava come le stesse fossero state già oggetto di diversi accertamenti giudiziali che avevano già condotto al loro inquadramento nel paradigma normativo previsto dall’art. 416 bis cod. pen. essendo stato postulato che «la forte coesione tra loro degli aderenti all’ E., […] così come i sicuri contatti con analoga associazione operante in madrepatria, e lo scopo dell’associazione, e cioè il controllo con l’intimidazione degli immigrati nigeriani sul territorio italiano, non disgiunta dal controllo stesso del territorio, e la consumazione da parte degli aderenti di reati, costituiscono […] elementi caratterizzanti il reato sanzionato dall’art. 416 bis cod. pen.» (Sez. 5, Sentenza n. 28894 del 2007; nello stesso senso Sez. 5, Sentenza n. 20593 del 2007) tenuto conto altresì del fatto che la giurisprudenza aveva già dato atto dell’esistenza di un «ampio sodalizio radicato in Nigeria e diffuso in diversi stati europei e extraeuropei finalizzato alla commissione di un numero indeterminato di delitti contro il patrimonio attraverso la commissione di truffe mediante la prospettazione di contraffazione monetaria e contro la persona», e al raggiungimento di una posizione di «predominio nell’ambito della comunità nigeriana»; sodalizio che si avvaleva «della forza di intimidazione del vincolo associativo, nonché […] della condizione di assoggettamento e di omertà che dall’associazione medesima derivava» e che si esprimeva nell’obbligo per i consociati di osservare «rigorose regole interne, di rispetto ed obbedienza alle direttive dei vertici, con previsione di sanzioni anche corporali in caso di inosservanza», oltre che «nella pretesa dagli affiliati del versamento, obbligatorio e periodico, di somme di denaro», e nel cotante ricorso all’esercizio di violenza funzionale sia alla «risoluzione dei conflitti con altri gruppi», che all’intimidazione di «singoli ritenuti in grado di ostacolare le finalità delinquenziali e di predominio dell’associazione», ed utilizzata anche «per costringere terzi ad affiliarsi» (Sez. 5, Sentenza n. 15595 del 2007, non mass).

Era stato dunque già accertato che l’associazione in oggetto, pur non essendo diretta alla occupazione di un territorio, era orientata verso l’accrescimento del potere di controllo sulle comunità nigeriane, profilandosi come una associazione antistatuale su base entica con finalità aggregante.

Infine, a fronte delle censure prospettate nel ricorso, gli Ermellini evidenziavano come esse si risolvessero in una richiesta di rivalutazione delle emergenze procedimentali ovvero in una attività estranea al perimetro che circoscrive la competenza del giudice di legittimità.

L’ordinanza impugnata, quindi, per la Suprema Corte, non si prestava ad alcuna censura.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante specialmente nella parte in cui è ivi chiarito, per quanto concerne la mafia “straniera”, con particolar riguardo alla mafia straniera a base etnica, quando è configurabile il delitto di associazione di tipo mafioso

Difatti, – una volta fattosi presente che, per le mafie di nuova emersione e per le mafie straniere a base etnica, la sussistenza della forza di intimidazione deve essere verificata non su base “storica“, ma in concreto, attraverso la registrazione della consumazione reiterata di azioni illecite, di regola a base violenta, idonee a strutturale il capitale criminale del consorzio fermo restando che tale verifica non deve tuttavia risolversi nella ricerca della “contestualità” della condotta di partecipazione con gli atti che conducono alla capitalizzazione della forza di intimidazione essendo il capitale criminale un (pre)requisito della struttura organizzativa mafiosa cui il singolo aderisce e non essendo richiesto che il singolo partecipe contribuisca direttamente alla creazione di tale patrimonio criminale – in tale pronuncia, citandosi precedenti conformi, si afferma che, per un verso, la finalità perseguita da una associazione di tipo mafioso può consistere anche nella commissione di reati per realizzare “vantaggi ingiusti” di natura non economica e, tra i vantaggi ingiusti, vi è quello di affermarsi come gruppo egemone di una comunità etnica di cospicue dimensioni presente in una grande città italiana, per altro verso, il reato di associazione di tipo mafioso è integrato quando la “mafia straniera“, pur senza avere il controllo di tutti coloro che lavorano o vivono in un determinato territorio, ha la finalità di assoggettare al proprio potere criminale un numero indeterminato di persone appartenenti ad una determinata comunità, avvalendosi di metodi tipicamente mafiosi e della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo per realizzare la condizione di soggezione ed omertà delle vittime fermo restando che, per questa tipologia di mafia, la forza di intimidazione del gruppo non deve essere necessariamente diretta all’assoggettamento della popolazione di un territorio atteso che è sufficiente che tale forza intimidatoria sia funzionale al controllo ed alla sottomissione di un gruppo di persone ristretto in quanto facente capo ad una medesima comunità.

Tale pronuncia, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione al fine di comprendere quando un’organizzazione criminale straniera sia configurabile come un’associazione a delinquere di tipo mafioso.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su cotale tematica giuridica/criminale, dunque, non può che essere positivo.

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