Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte si pronuncia sulla legittimità di un licenziamento intimato al lavoratore dal proprio datore di lavoro perché questi, durante i permessi 104, invece di accudire la madre bisognosa di cure, si recava a ballare.
A base del decisum, il Tribunale poneva la considerazione fondante secondo la quale, nella specie, non rilevava il tipo di assistenza che l’attore doveva fornire alla propria madre handicappata, quanto piuttosto la circostanza che lo stesso avesse chiesto un giorno di permesso retribuito, ex 104, per “dedicarsi a qualcosa che nulla aveva a che vedere con l’assistenza”. Pertanto, il lavoratore non avrebbe dovuto chiedere il suddetto permesso per dedicarsi ad una attività del tutto estranea alla cura e assistenza del genitore.
Successivamente adita, la Corte di Appello affermava che “proprio per gli interessi in gioco, l’abuso del diritto, nel caso di specie, era particolarmente odioso e grave ripercuotendosi senz’altro sull’elemento fiduciario trattandosi di condotta idonea a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti”.
La legge n.104 del 1992, come modificata dalle L. n. 53 del 2000 e L. n. 183 del 2010, ha come principale obiettivo quello di rimuovere le cause invalidanti, di promuovere l’autonomia e realizzare l’integrazione sociale anche attraverso un adeguato sostegno psicologico ed economico per la persona handicappata e per le famiglie. I benefici che si possono ottenere tramite la Legge 104 sono: agevolazioni lavorative, agevolazioni per i genitori e agevolazioni fiscali. I lavoratori che assistono un familiare in situazione di gravità, ex art. 33 comma 3 della Legge 104/92, possono fruire di tre giorni mensili di permesso sempre che il disabile sia parente o affine entro il terzo grado di parentela. Tale permessi garantiscono a chi lavora il diritto di potersi prendere alcuni giorni al mese con il precipuo scopo di accudire e assistere un parente oppure sopperire ai suoi principali bisogni di cui il disabile necessita ausilio.
Avverso la superiore sentenza, il lavoratore proponeva ricorso avanti la Corte di Cassazione adducendo alcuni motivi di censura avverso la pronuncia impugnata, tra questi l’erronea interpretazione del Tribunale di prime cure con la quale affermava che l’art. 33 richiedesse la continuità e l’esclusività dell’assistenza.
La Corte, rimarca la circostanza che la decisione della sentenza impugnata si fonda, non sul tipo di assistenza quanto piuttosto sul rilievo della utilizzazione del permesso retribuito per finalità diverse da quelle per il quale il legislatore ha previsto il diritto al permesso retribuito. Sono, pertanto, del tutto estranee al tema decidendum tutte le critiche che vengono mosse all’impugnata sentenza sotto il profilo della interpretazione della normativa richiamata
E’, quindi, evidente che nella parte motiva della sentenza impugnata il decisum si fonda non sulla mancata prova della avvenuta assistenza alla madre per le ore residue, ma, sulla utilizzazione, di una parte oraria del permesso in esame per finalità diverse da quelle per il quale il permesso è stato riconosciuto.
La Suprema Corte sottolinea che “il comportamento del lavoratore implica un disvalore sociale giacché il lavoratore aveva usufruito di permessi per l’assistenza a portatori di handicap per soddisfare proprie esigenze personali scaricando il costo di tali esigenze sulla intera collettività”. Altresì, il Collegio affermava che la condotta del ricorrente, oltre ad essere rimproverabile dal punto di vista sociale, ha leso il vincolo fiduciario tra il lavoratore e il datore, espressione della correttezza dei futuri adempimenti rispetto agli obblighi che il ricorrente assumerà pro futuro.
Alla luce delle considerazioni sopra effettuate, gli Ermellini rigettavano il ricorso e condannavano il ricorrente alle spese del giudizio.
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