Vi è talvolta un certo accanimento del creditore nel perseguire il proprio debitore, soprattutto quando quest’ultimo cerca di sottrarsi all’adempimento con maldestri tentativi diretti a neutralizzare la richiesta di pagamento o a ritardarne la soddisfazione: come, ad esempio, la vendita simulata dell’unico bene che costringe il creditore alla azione revocatoria per rendere inefficace il trasferimento e conservarlo al patrimonio del debitore affinché possa essere aggredibile.
In ogni caso, il debitore risponde esclusivamente con i propri beni, presenti e futuri (art. 2740 CC).
Tale norma configura lo stato di assoggettamento del patrimonio del debitore al potere del creditore, il quale ha la possibilità, ex art. 2910 CC, di conseguire quanto gli è dovuto attraverso la espropriazione dei beni del primo, secondo le regole stabilite dal Codice di Procedura Civile..
Il pignoramento, dunque, ha l’effetto di vincolare i beni del debitore in quanto idonei alla loro funzione satisfattiva ed incide, per questo, sulla stessa loro circolazione e commercializzazione (nessuno acquisterebbe, ad esempio, un immobile sottoposto ad espropriazione forzata) con potenziali effetti dannosi a carico del proprietario degli stessi.
Nella maggior parte dei casi, il pignoramento immobiliare è l’unico strumento per ottenere la soddisfazione del credito, a meno che sul bene non esistano iscritte ipoteche che conferiscono al creditore ipotecario il diritto di essere soddisfatto per primo sulla somma ricavata dalla vendita del bene pignorato.
Sempre meno efficace nella prassi è il pignoramento mobiliare spesso andando deserti e rimanendo infruttuosi ( come insegna l’esperienza forense) i vari tentativi di vendita all’incanto, a meno che non si tratti di beni appetibili, quali potrebbero essere quelli aventi un certo valore storico od artistico (es. quadri, mobili antichi, oggetti preziosi), i macchinari commerciali e simili, oppure gli stessi mobili registrati (autovetture) i quali hanno un certo mercato nel settore dell’usato.
Senza poi ricordare il pignoramento dei crediti, come i depositi bancari o come quello dello stipendio del debitore, possibile entro certi limiti (1/5), ma spesso l’unico ad essere effettivamente idoneo a soddisfare le ragioni del creditore ancorché non immediatamente ma entro un certo lasso di tempo strettamente proporzionale all’entità del credito vantato.
Il pignoramento, dunque, rappresenta uno strumento che possiede una certa capacità di incidere sulla vita delle persone per la privazione forzata dei beni ai quali si accompagna normalmente la impossibilità di accedere ulteriormente a prestiti di denaro per il discredito conseguente.
Tale condizione costituisce il normale effetto di un sistema in cui le persone colpevolmente non adempiono alle proprie obbligazioni reagendo il nostro Ordinamento attraverso strumenti dotati di una certa efficacia persuasiva e che tendono a garantire un riequilibrio economico fra le parti protagoniste del rapporto obbligatorio.
Come già detto, la responsabilità del debitore è esclusivamente patrimoniale, rappresentando questo una conquista relativamente recente in quanto ogni forma di sanzione personale, legata all’inadempimento di obbligazioni civili, scompare definitivamente con il Codice del 1942, eccetto i casi in cui possa configurarsi l’ipotesi delittuosa dell’insolvenza fraudolenta prevista e punita dall’art. 641 c.p., che purtuttavia non trova rilevante applicazione nel nostro Paese.
La responsabilità patrimoniale, come oggi conosciuta, è frutto di una lunga evoluzione storica che affonda le sue radici nel diritto romano, che ai suoi albori (V° secolo A.C.) prevedeva, con la legis actio per manus iniectionem la possibilità del creditore, ottenuta la c.d. addictio pronunciata dal Pretore, di tenere in catene il proprio debitore per 60 giorni e di portarlo al mercato per permettere che qualcuno lo riscattasse.
Scaduto inutilmente tale termine, il creditore poteva vendere il proprio debitore transtiberim o addirittura ucciderlo. Procedura, invero mitigata, con la lex Poetelia del 326 A.C. che determinò il divieto di incatenamento, della vendita ed uccisione del debitore, disponendo che quest’ultimo potesse adempiere alla propria obbligazione pecuniaria attraverso il lavoro.
Con il tempo, accanto a tale forma di responsabilità personale, ne venne prevista una di tipo patrimoniale, caratterizzata dalla bonorum venditio, consistente, per l’appunto, nella vendita all’asta di tutti i beni del debitore, successivamente limitata a quella solo dei singoli cespiti del patrimonio dello stesso fino all’effettivo soddisfo del debito, denominata distractio bonarum.
Nel contesto di tale breve percorso storico, va ricordata la abolizione dell’Istituto dell’arresto di cui all’art. 2093 del Codice Civile del 1865, in caso di mancato pagamento di un debito: sanzione lasciata in vita per le sole obbligazioni da reato.
Fino recentemente al Codice Civile del 1942 che, come ricordato, ha bandito ogni responsabilità personale per l’inadempimento delle obbligazioni civili.
Il tema, dunque, è importante, in quanto il pignoramento ha effetti rilevanti che possono costituire un nocumento per coloro che debbano affrontare tali problematiche, soprattutto laddove l’espropriazione forzata sia stata intrapresa in modo ingiusto o non corretto.
In tali ipotesi, sussiste una responsabilità del creditore procedente in relazione alla concreta capacità offensiva che l’atto espropriativo possa aver prodotto sulla persona del debitore.
Se è vero che la garanzia generale del patrimonio del debitore si traduce da una parte in una serie di diritti potestativi del creditore ai quali corrisponde una situazione di soggezione del debitore, l’esercizio dei primi non può essere, per così dire, esagerato.
L’art. 2740 CC costituisce, in questo senso, un presidio a garanzia dei contrapposti interessi di più soggetti. Il bilanciamento di questi interessi in contrasto, spetta al legislatore ma anche alla giurisprudenza nella definizione dei casi concreti.
Ed è il legislatore che, in detta prospettiva, stabilisce le ipotesi in cui la responsabilità patrimoniale possa essere limitata, come nel caso (per fare solo un esempio) in cui si prevede la impignorabilità assoluta o relativa (art. 514 e 515 c.p.c.) di alcuni beni (mezzi di lavoro, cose e diritti con funzione alimentare, crediti di lavoro entro certi limiti).
Non sono ammissibili limitazioni negoziali alla responsabilità patrimoniale, stabilendo il 2° comma dell’art. 2740 CC la loro nullità.
Una deroga alla responsabilità patrimoniale è apportata, ad esempio, da alcuni vincoli con cui alcuni o più beni sono destinati ad una determinata finalità, sottraendoli così all’esecuzione forzata, come nel caso del fondo patrimoniale della famiglia. Altro esempio è dato dall’accettazione di eredità con beneficio di inventario. E così via.
Alla giurisprudenza è assegnato il compito di individuare concretamente quando l’esercizio di quel diritto potestativo del creditore travalichi i limiti imposti dal nostro Ordinamento oltre i quali si configura una responsabilità del creditore.
Orbene, molti sono i casi decisi dalla giurisprudenza e qui vanno segnalati i più significativi, proprio per evidenziare come il creditore debba dotarsi della necessaria prudenza e diligenza nel momento in cui fa valere i propri legittimi diritti in sede esecutiva.
Le disposizioni normative di riferimento sono principalmente l’art. 2043 CC, ma soprattutto l’art. 96 c.p.c. in tema di responsabilità processuale aggravata.
L’applicazione di dette disposizioni ed in particolare dell’art. 2043 CC, è resa difficile in quanto non esiste alcun principio attraverso cui possa qualificarsi come illecita la richiesta di un pignoramento da chiunque provenga e comunque sia stata posta in essere, poiché, in presenza di discrezionalità del Giudice , come previsto dall’art. 96 c.p.c. in tema di riduzione del pignoramento, è da escludersi qualsiasi forma di illegittimità o invalidità dello stesso (v. Cass. 17/10/1994 n° 8464 e Cass. 01/04/2005 n° 6895).
Purtuttavia, si deve tener conto che la legge prevede limitazioni al potere di espropriazione consentito al creditore, come nei casi di impignorabilità di alcuni beni ed in quelli in cui la pignorabilità deve considerarsi esclusa dalla inesistenza del titolo esecutivo necessario per procedere esecutivamente. In tali ipotesi è noto che il rimedio consentito è quello delle opposizioni esecutive (ex art. 615 e segg. c.p.c.) nel contesto delle quali appare senz’altro ammissibile l’azione risarcitoria ex art, 96 c.p.c., in tema di responsabilità aggravata, proponibile solo nell’ambito del giudizio di opposizione: una azione che comprenderebbe tutte le ipotesi di atti e comportamenti processuali delle parti ed ogni possibile effetto pregiudizievole conseguente (così Cass. 01/021993 n° 1212; Cass. 12/03/2002 n° 3573; Cass. 23/03/2004 n° 5734; Cass. 01/04/2005 n° 6895).
Detti principi risultano confermati in una più recente giurisprudenza della Corte Regolatrice (Cass. 03/03/2010 n° 5069), in un caso in cui il creditore aveva eseguito un pignoramento presso terzi sulla base di un assegno postdatato che non ha valore di titolo esecutivo. Anche in questa ipotesi di inesistenza del titolo, come quella afferente la impignorabilità dei beni, la responsabilità per danni ricade interamente, in tutte le sue possibili ipotesi, nell’ambito normativo dell’art. 96 c.p.c., disposizione speciale rispetto l’art. 2043 CC, proponibile dinanzi al Giudice della opposizione ,funzionalmente competente sull’an e sul quantum. Con la conseguenza che sarebbe inammissibile una domanda di condanna generica con riserva di agire in separato giudizio per il quantum che per espressa precisione normativa può essere liquidato anche d’ufficio (Cass. 24/05/2003 n°8239; Cass. 06/05/2010 n° 10960).
In tale direzione si muove la più recente Cass. 16/06/2016 n° 12413, in tema di conseguenze dannose in ipotesi di illegittimità di un fermo amministrativo, avendo ritenuto che “il risarcimento danni, asseritamente subiti dal debitore, può essere avanzata ex art. 96, comma secondo, c.p.c. e, quindi, presuppone l’istanza di parte e l’accertamento dell’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito il provvedimento di fermo e della mancanza della normale prudenza in capo all’Agente della Riscossione”.
Nella pronuncia appena citata la S.C. ricorda che non sarebbero risarcibili comunque i danni consistenti in meri disagi, fastidi, disappunti, ansie ed ogni altra espressione di insoddisfazione costituenti conseguenze non gravi ed insuscettibili di essere monetizzate perché bagatellari”.
Un orientamento, dunque, restrittivo che recepisce quello maturato soprattutto dopo le famose sentenze di S. Martino del 2008, che hanno posto in luce, in pratica, come sia doveroso per il Giudice, quando richiesto e sussistendone le condizioni, di risarcire integralmente il danno subito dalla vittima dell’illecito (di qui il dibattito sulla autonomia ontologica delle voci del danno non patrimoniale, ossia biologico, morale esistenziale) dovendosi escludere, tuttavia, la risarcibilità di quelle conseguenze di modesta portata, per l’appunto definite bagatellari.
Ciò non toglierebbe che possa essere risarcito quel danno non patrimoniale più grave come nel caso deciso da Cass. 11/06/2012 n° 9445 chiamata a pronunciarsi sulla configurabilità delle conseguenze dannose asseritamente subite da un avvocato destinatario di un pignoramento mobiliare nel proprio studio, eseguito alla presenza di colleghi, segretaria e figlia, nonostante che la cartella, da cui scaturiva il credito tributario, era stata annullata e la sentenza trasmessa prontamente all’Equitalia con una diffida ad astenersi dal porre in esecuzione il titolo, relativo ad un credito insussistente.
Il risarcimento del danno morale ottenuto dall’avvocato era stato fondato sulla astratta configurabilità del reato di omissione di atti di ufficio ex art. 328 CP, che rendeva operante la positiva pronuncia attraverso il combinato disposto degli artt. 2059 CC e 185 CP (ancorché, quindi, privo di rilevanza costituzionale)
Nello stesso senso Corte di Appello di Genova 28/05/2015 n° 694, in un caso in cui Equitalia aveva agito prima iscrivendo il fermo auto e poi resistendo in giudizio in maniera gravemente imprudente perché era stata informata che il credito per il quale procedeva era venuto meno.
In tale contesto vedasi però Cass. 12/10/2011 n° 20995 la quale testualmente ha ritenuto: “In tema di responsabilità aggravata per lite temeraria, l’art. 96 c.p.c. prevede, nel caso di accoglimento della domanda, il risarcimento dei danni, da intendersi, quindi, come ampia formulazione letterale comprensiva sia del danno patrimoniale, che del danno non patrimoniale, quest’ultimo trovando giustificazione anche in ragione della qualificazione del diritto di azione e difesa in giudizio in termini di diritto fondamentale. Ne consegue che, sotto il profilo del danno patrimoniale, in assenza di dimostrazione di specifici e concreti pregiudizi derivati dallo svolgimento della lite, è legittima una liquidazione equitativa che abbia riguardo allo scarto tra le spese determinate dal giudice secondo le tariffe e quanto dovuto dal cliente in base al rapporto di mandato professionale; mentre, sotto il profilo del danno non patrimoniale, la liquidazione equitativa deve avere riguardo alla lesione dell’equilibrio psico-fisico che, secondo nozioni di comune esperienza (anche in forza del principio della ragionevole durata del processo , di cui all’art. 111 Cost. ed alla L. 24 marzo 2001 n° 89), si verifichi a causa di ingiustificate condotte processuali.”
Particolarmente interessante appare la decisione della Cassazione del 20/05/2016 n° 10518 in un caso in cui il Supremo Collegio “ha bacchettato” i Giudici di merito che avrebbero erroneamente omesso di valutare le conseguenze dannose che, almeno astrattamente, possono derivare da un pignoramento illegittimo per l’indisponibilità giuridica e l’impossibilità di una proficua utilizzazione del bene pignorato.
Un errore del creditore nell’eseguire un pignoramento immobiliare contro un soggetto diverso dal debitore esecutato, può costare caro allo stesso dovendo rispondere a titolo di responsabilità aggravata ex art. 96, 2° co., c.p.c. ed essendo tenuto a risarcire anche il danno non patrimoniale subito dal legittimo proprietario dei cespiti pignorati (v. Tribunale di Venezia 17/05/2013 in La Nuova Procedura Civile, 1, 2014).
La pronuncia offre rilevanti spunti di riflessione in quanto intervenuta in un caso in cui l’esecuzione immobiliare aveva colpito un bene il cui proprietario era estraneo al credito fatto valere in executivis. Sarebbe stata sufficiente una più puntuale verifica dei registri immobiliari per verificare la suddetta estraneità ed escludere la responsabilità aggravata di cui all’art. 96, 2° co. c.p.c.. Questa, secondo il consolidato orientamento della S.C., è riscontrabile laddove il creditore procedente abbia agito senza la normale prudenza e, quindi, anche con colpa lieve a differenza della ipotesi prevista dal 1° comma per la cui ricorrenza è prevista la sussistenza del dolo o della colpa grave (per un caso simile a quello esaminato dal Giudice veneziano vedasi anche Tribunale di Napoli 27/03/2002 in Red. Giuffré 2002). Nella decisione del Tribunale di Venezia è stato ritenuto assumesse rilievo un pregiudizio di tipo non patrimoniale ravvisabile non tanto nello stress psicofisico, in conseguenza dell’illecita aggressione di un primario bene della vita quale l’abitazione, quanto piuttosto” nella lesione del diritto (inviolabile) al rispetto della vita privata e del domicilio tutelati dall’art. 8 CEDU e dall’art. 14 Cost. quale luogo ove coltivare la sfera degli affetti familiari e quella parte della giornata non dedicata ad attività reddituali”.
Ai principi sulla responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. si ispirano due ulteriori sentenze del Tribunale di Verona del 27/01/2015 (in Expartecreditoris 2015) e della Cassazione 23/01/2013 n° 1590.
Secondo la prima pronuncia, sussiste la lite temeraria ex art. 96, 2° co. c.p.c., allorché il pignoramento sia stato eseguito sulla base di un decreto ingiuntivo opposto e poi revocato e, quindi, in violazione della normale prudenza di cui sopra si è detto.
In tal caso il danneggiato potrà far valere la propria pretesa risarcitoria in un separato ed autonomo giudizio rispetto a quello da cui la responsabilità aggravata ha avuto origine: ciò in deroga al principio consolidato della giurisprudenza di legittimità al quale aderisce la seconda delle sentenze citate (Cass. 1590/2013) secondo cui la responsabilità ex art.96 cpc deve essere fatta valere nell’ambito del giudizio di opposizione esecutiva riguardando un vizio del titolo (in questo senso, v. anche Tribunale di Modena 30/01/2009 n° 112 , in Red. Giuffré 2009) salva l’ipotesi in cui ricorrano circostanze contingenti attinenti la struttura del processo, non dipendenti dall’inerzia della parte (cfr. anche Cass. 18/02/2000 n° 1861).
In buona sostanza, quando la domanda ex art. 96 c.p.c. non potrebbe essere proposta avanti il Giudice della Esecuzione, in quanto la procedura espropriativa è iniziata in base ad un titolo esecutivo valido ed efficace (il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo) ma poi revocato, ricollegandosi a tale momento il sorgere del diritto risarcitorio, non più azionabile nella opposizione esecutiva per motivi processuali.
Negli stessi termini vedasi anche Cass. 20/11/2009 n° 24538, la quale ha affermato che l’istanza ai sensi dell’art. 96 c.p.c., pur essendo volta ad attivare una tutela di tipo aquiliana, non può, tuttavia, essere considerata espressione di una potestas agendi esercitabile ad di fuori del processo in cui la condotta generatrice della responsabilità aggravata si è manifestata e, quindi, in via autonoma, consequenziale e successiva, davanti altro Giudice, salvo i casi in cui la possibilità di attivare il mezzo offerto dall’art. 96 c.p.c. sia rimasta preclusa in forza dell’evoluzione propria dello specifico processo dal quale la responsabilità aggravata ha avuto origine”.
Un principio, questo, applicato da Cass. 31/01/2014 n° 2103, in un caso in cui i creditori pignoranti non avevano curato gli adempimenti necessari affinché i debitori potessero ottenere la cancellazione della trascrizione del pignoramento: trascrizione che non avevano più il diritto di mantenere avendo i debitori provveduto ad estinguere il debito.
Posta, dunque, l’astratta risarcibilità del pregiudizio patrimoniale e non, causato da una esecuzione illegittima nei termini anzidetti, la questione si sposta sul piano della necessità che esso sia concretamente allegato e provato ancorché tali elementi possono essere ricavati, sia nell’an che nel quantum, secondo l’id quod prerunque accidit, ricorrendo alle nozioni di comune esperienza, come, ad esempio, nell’ipotesi di pignoramento di un immobile che notoriamente vincola la sua commerciabilità.
In mancanza di specifica dimostrazione del quantum, è sempre possibile il ricorso alla liquidazione equitativa.
In conclusione, per verificare se il ricorso alla esecuzione forzata possa o meno causare danni risarcibili, occorre considerare quanto segue.
1) In primo luogo che il bene non rientri in quelle categorie per cui il pignoramento è vietato o limitato.
2) In secondo luogo, che il bene appartenga effettivamente al debitore esecutato e non ad un terzo estraneo.
3) Occorre poi che la sussistenza del credito azionato esecutivamente non corra concretamente il rischio di essere negata nel giudizio intrapreso dal debitore per dimostrarne la inesistenza.
Mette conto di rilevare, a tale ultimo riguardo, che la mancata prudenza richiesta in tali casi è individuabile dal Giudice di merito attraverso il riscontro circa la consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti.
4) Il titolo esecutivo, in cui è consacrato il credito, deve essere tale secondo la legge di cui non si potrebbe sostenere la non conoscenza per paralizzare la richiesta risarcitoria; come nel caso citato dell’assegno postdatato che non assurge a titolo esecutivo e, quindi, appare inidoneo a fondare e/o legittimare l’azione esecutiva.
Queste le ipotesi che si verificano maggiormente nella pratica giudiziaria, meritando di essere ricordato (per concludere davvero) il caso, tutto diverso, in cui il creditore esercita l’azione esecutiva non per un credito inesistente, ma per un credito notevolmente inferiore al valore dei beni sottoposti ad espropriazione. Il mezzo per contestare tale criticità sarebbe rappresentato esclusivamente da una domanda di riduzione del pignoramento ex art. 496 c.p.c.. Sul punto appare eloquente la pronuncia della Cassazione 28/05/2010 n° 13107 (ma v. anche Cass. 03/09/2007 n° 18533) secondo la quale quando “si è in presenza dell’esercizio dell’azione esecutiva in assenza di credito, non è configurabile una responsabilità aggravata per colpa, in base al comma 2 dell’art. 96 c.p.c. potendosi al più discutere di responsabilità ai sensi del comma 1 di detto articolo dinanzi al Giudice della Esecuzione chiamato a provvedere sulla domanda di riduzione.
5) Va ricordato, poi, che in detta ipotesi resta preclusa la possibilità di invocare, con una domanda autonoma e concorrente, i principi generali della responsabilità ex art. 2043 CC con riguardo ad una specifica asserita conseguenza dannosa derivante da atti esecutivi. Non esiste concorso tra l’azione generale di risarcimento e quella specifica per responsabilità aggravata processuale, essendo le due discipline in rapporto di genere e specie, di talché la responsabilità processuale per danni ricade interamente, in tutte le sue possibili ipotesi, nell’ambito normativo dell’art. 96 c.p.c. (v. Cass. 6895/2005 già citata, ma anche Cass. 15551/2003; Cass. 12642/1992; Cass. 8239/2003; Cass. 3573/2002; Cass. 253/1999).
Sul punto, però, occorre richiamare l’attenzione circa l’apparente contrasto giurisprudenziale che vede competente a conoscere della responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c., per l’eseguita espropriazione forzata illegittima, solo il Giudice dell’opposizione alla esecuzione (Cass. 3534/1997; Cass. 8239/2003; Cass. 1096/2010), funzionalmente competente sull’an e sul quantum: e ciò in ragione del fatto che si tratta del Giudice cui è demandato l’accertamento della ingiustizia della esecuzione, cioè del compimento di essa in mancanza del relativo diritto, sia perché il titolo esecutivo fosse mancante sin dall’inizio del processo esecutivo, sia perché sia stato caducato nella pendenza di questo e del giudizio di opposizione.
Per finire, infine, si richiamano i principi sull’onere probatorio che grava sulla parte che chiede il risarcimento ex art. 96 cpc, tenuta a provare la concreta ed effettiva esistenza di un pregiudizio che sia conseguenza del comportamento processuale della controparte sicché il Giudice non potrebbe liquidare il danno, neppure equitativamente, se dagli atti non risultino elementi idonei ad identificarne concretamente la esistenza, desumibili anche attraverso le nozioni di comune esperienza. (ex multis Cass. 04/11/2005 n° 21393; Cass. 12/12/2005 n° 27383; Cass. 09/12/2014 n° 25806; Cass. 27/10/2015 n° 21798).
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