Positività HCV: l’ospedale risponde se c’è un nesso di causalità

L’ospedale non risponde dell’HCV contratto dalla paziente se non è provato il nesso di causalità con l’intervento ivi eseguito.

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L’ospedale non risponde dell’HCV contratto dalla paziente se non è provato il nesso di causalità con l’intervento ivi eseguito. Per approfondire questa materia, consigliamo il volume Manuale pratico operativo della responsabilità medica

Tribunale di Messina -sez. II civ.- sentenza n.1982 del 10-09-2024

SENTENZA_TRIBUNALE_DI_MESSINA_N._1982_2024_-_N._R.G._00000656_2016_DEL_10_09_2024_PUBBLICATA_IL_10_09_2024.pdf 193 KB

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Indice

1. I fatti: la positività all’HCV dopo un’operazione in ospedale


Una paziente di un ospedale siciliano conveniva in giudizio la struttura sanitaria, chiedendo la condanna della stessa al risarcimento dei danni subiti a causa della contrazione del virus dell’epatite C.
In particolare, l’attrice sosteneva che nel 1990 aveva avuto un aborto spontaneo presso la struttura sanitaria convenuta e pertanto era stata sottoposta ad un intervento di svuotamento cavitario. Tre anni dopo, senza che medio tempore avesse subito altri interventi chirurgici o terapie trasfusionali, aveva scoperto di essere positiva al test HCV.
A partire dal 1999 l’attrice sosteneva di aver avuto un incremento delle transaminasi e fallita la terapia volta a contrastare detta problematica, dal 2007 le sue condizioni erano peggiorate al punto che nel 2008 le veniva diagnosticata una cirrosi epatica e poi un epatocarcioma con ulteriore peggioramento delle sue condizioni di salute.
Infine, in corso di causa, la paziente decedeva a causa del suddetto tumore al fegato e gli eredi intervenivano facendo proprie le originarie domande della stessa e chiedendo, in aggiunta, il risarcimento del danno parentale per la morte della congiunta.
La struttura sanitaria convenuta contestata che l’infezione fosse stata contratta presso la struttura sanitaria e eccepiva preliminarmente la prescrizione del diritto al risarcimento danni, in quanto tra la scoperta del danno subito (cioè la scoperta di aver contratto il virus HCV) e l’esercizio de relativo diritto al risarcimento era trascorso un tempo di circa venti anni. Per approfondire questa materia, consigliamo il volume Manuale pratico operativo della responsabilità medica

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2. Le valutazioni del Tribunale


Preliminarmente il Tribunale di Messina ha esaminato e rigettato l’eccezione di prescrizione formulata dalla struttura sanitaria.
A tal proposito, il giudice ha precisato che la responsabilità della struttura ospedaliera per i danni conseguenti ad infezioni da virus HBV, HIV e HCV contratte da soggetti emotrasfusi è di natura contrattuale, con conseguente prescrizione decennale del diritto al risarcimento del danno.
La struttura sanitaria, infatti, risponde a titolo contrattuale per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione medica da parte di un medico suo dipendente o collaboratore di cui si è avvalso. Il rapporto tra il paziente e la struttura sanitaria è sussumibile nel contratto atipico di spedalità e a tale contratto si applicano le regole ordinarie sull’inadempimento in base alle quali il debitore risponde anche del fatto doloso o colposo dei soggetti di cui si è avvalso per eseguire la prestazione.
In questo caso, inoltre, anche l’obbligazione del medico che ha posto in essere la condotta inadempiente, nei confronti del paziente, ha natura contrattuale anche se non è fondata su un contratto bensì sul contatto sociale. Ciò in quanto dal predetto contatto sociale si ricollegano degli obblighi di comportamento di varia natura diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso.
Rigettata l’eccezione di prescrizione, il giudice ha esaminato l’aspetto relativo alla sussistenza del nesso di causalità tra il danno invocato dagli attori (cioè la contrazione dell’HCV da parte della paziente) e la condotta inadempiente attribuita alla struttura sanitaria (cioè che la trasmissione del virus sia avvenuta durante l’intervento subito dalla donna).
Dalla CTU che il giudice ha disposto nel giudizio, è emerso che i periti nominati dal giudice hanno accertato che, dai documenti esaminati, non è emerso che durante l’intervento chirurgico di svuotamento cavitario subito dalla paziente presso la struttura sanitaria convenuta siano state eseguite delle emotrasfusioni o siano stati somministrati degli emoderivati che potessero essere potenziali fonte di contagio. Inoltre, dai predetti documenti medici esaminati, non risultano neanche degli eventi che possano far pensare alla sopravvenuta necessità di usare degli emoderivati.
Conseguentemente, i CTU hanno concluso che non sono individuabili eventuali errori durante l’intervento chirurgico che abbiano potuto determinare l’infezione a carico della paziente.
Tale circostanza è avvalorata – secondo i periti d’ufficio – anche dal fatto che la storia naturale della cirrosi che ha colpito la paziente (malattia che normalmente prevede la sua insorgenza tra i 25 e i 30 anni dal momento in cui si verifica l’infezione da HCV), rende presumibile che detta infezione nel caso di specie sia stata contratta almeno 10 anni prima rispetto all’intervento chirurgico eseguito dalla paziente presso la struttura sanitaria convenuta.    

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3. La decisione del Tribunale: necessità di prova del nesso causale


Nel caso di specie, il Tribunale di Messina ha quindi ritenuto di escludere la responsabilità della struttura sanitaria convenuta e di rigettare la domanda formulata dagli attori, in quanto non è stata provata la sussistenza di un nesso di causalità tra l’intervento di svuotamento cavitario effettuato dalla paziente / attrice nel 1990 presso la struttura sanitaria convenuta e il contagio dell’infezione da HCV.
Secondo il giudice, infatti, ritenendo logico e condivisibile il ragionamento dei CTU, il fatto che nella cartella clinica non riporti la somministrazione di sangue o suoi derivati e che da detta cartella non emergano circostanze che avrebbero richiesto detta somministrazione, impedisce che poter considerare sussistente il nesso di causalità tra la condotta addebitata alla convenuta e il danno invocato dagli attori.
Anche all’esito dell’istruttoria svolta in giudizio, non è emersa – con la probabilità richiesta nelle controversie in tema di responsabilità medico / sanitaria (cioè il criterio del “più probabile che non”) – quale sia stata la causa della contrazione della malattia subita dalla paziente.
Pertanto, la causa ignota non può che penalizzare l’attore danneggiato (che ha invocato la responsabilità della struttura sanitaria), in quanto non è stata fornita la prova della sussistenza del nesso causale tra condotta ed evento: onere che, invece, nei suddetti giudizio di responsabilità medica grava sull’attore danneggiato.
In conclusione il giudice ha ritenuto di compensare integralmente le spese di lite, in considerazione della particolarità della controversia e degli accertamenti tecnici eseguiti dai CTU, nonché dal fatto che l’eccezione preliminare di prescrizione sollevata dalla convenuta è stata rigettata.

Avv. Muia’ Pier Paolo

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