È questo però il caso dell’ordinanza n. 4949 del 15 luglio 2019, che affronta, a mio modo di vedere, due macro-questioni la cui risoluzione è potenzialmente foriera di dispiegare effetti sistematici di non poco conto.
Da qui l’esigenza di svolgere una nota in commento, che articolerò in tre paragrafi, riguardanti rispettivamente: a) un’esposizione sintetica della vicenda processuale; b) la macro-questione processuale; c) la macro-questione sostanziale.
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La vicenda processuale
Nel 2012 (e quindi nel vigore del D.lgs. 163/2006) R.F.I. rigettava una richiesta di revisione del corrispettivo di un contratto di pulizie: attraverso la richiesta l’operatore economico affidatario mirava ad adeguarlo agli aumenti contrattuali dovuti in applicazione di una sopravvenuta contrattazione collettiva.
Il ricorso, sinteticamente, mirava a sostenere l’illegittimità costituzionale del mancato richiamo dell’art. 115 D.lgs. 163/2006 (il cui primo periodo così recitava: “tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo”) da parte dell’art. 206 D.lgs. 50/2016, che individuava le “norme applicabili” ai contratti relativi ai settori speciali.
Nel ricorso, inoltre, si configurava il servizio di pulizie come “neutro” e, pertanto, non funzionale, non strumentale alle attività che costituiscono il core della specialità che giustifica la diversa disciplina.
Con sentenza n. 433 dell’11 giugno 2014 il Tar Sardegna rigettava il ricorso, non rimettendo la q.l.c. alla Corte Costituzionale e ritenendo invece sussistente in concreto il nesso di strumentalità.
In appello, però, il ricorrente spostava l’asse del parametro di supposta illegittimità degli artt. 115 e 206 (ed altre disposizioni) dalle norme costituzionali al diritto comunitario, insisteva sulla diversa configurazione del contratto di pulizie come “neutro” e prefigurava perfino l’illegittimità della stessa Direttiva 2004/17.
Con una prima ordinanza di rinvio pregiudiziale (n. 1297 del 22 marzo 2017) il Consiglio di Stato, dopo aver convenuto con il giudice di prime cure riguardo l’affermazione del carattere strumentale del servizio di pulizie, poneva al giudice comunitario due questioni concernenti:
- la compatibilità con la direttiva 2004/17 (e con altri principi comunitari) della disciplina nazionale dei settori esclusi nella parte in cui esclude la revisione del corrispettivo, con particolare riferimento ai contratti strumentali;
- la compatibilità con i principi comunitari della direttiva 2004/17 nell’ipotesi in cui si ritenesse che l’esclusione della revisione del corrispettivo sia imposta dalla stessa.
La sentenza CGE del 19 aprile 2018 nella causa C-152/17 non ravvisava l’illegittimità della disciplina nazionale, in quanto l’immodificabilità delle condizioni contrattuali risponde ad esigenze di tutela della trasparenza e della concorrenza. Al contempo, precisava che il divieto di revisione non è un effetto comunitariamente obbligatorio: la Direttiva 2004/17 è semplicemente “non ostativa” ad una siffatta disciplina nazionale, ma non la impone. Pertanto, la questione sub b) veniva dichiarata irricevibile.
L’appellante, però, non demordeva: ed insisteva indicando varie questioni di incompatibilità comunitaria del diritto nazionale.
Due di queste sono state ritenute nuove dal Consiglio di Stato e sono così unitariamente riassumibili.
Sinteticamente, la circostanza della sopravvenuta contrattazione collettiva opererebbe “dall’esterno” come un fattore destinato ad incidere obbligatoriamente sull’assetto degli interessi definito dal contratto.
Se non si consentisse la modifica, pertanto, si imporrebbe una “prestazione supplementare” all’operatore economico affidatario, nonché si verificherebbe l’effetto distorsivo per cui quest’ultimo o subirebbe una ingiustificata compressione dell’utile (fino a farlo diventare negativo e mettere perfino a rischio la sopravvivenza della stessa impresa) o non adeguerebbe gli stipendi alla contrattazione collettiva.
Il carattere di novità che il Consiglio di Stato attribuisce a tali questioni implica l’obbligo da parte di quest’ultimo di un nuovo rinvio pregiudiziale, che però investe anche la stessa possibilità che vi possano essere più rinvii pregiudiziali nella stessa controversia (in quanto potrebbe generare un “abuso del processo” delle parti processuali, che potrebbero così innescare una serie di questioni pregiudiziali e sfuggire così ad una sentenza sfavorevole).
Il Consiglio di Stato, pertanto, con l’ordinanza in commento propone sia le questioni sostanziali “nuove”, sia la questione processuale avente ad oggetto la possibilità di questioni pregiudiziali “a catena”.
La macro-questione processuale
Con prudenza ed eleganza istituzionali il Consiglio di Stato adombra implicitamente la rischiosità di un’interpretazione solamente letterale dell’art. 267 TFUE, che al primo periodo del terzo comma statuisce l’obbligatorietà secca e incondizionata del rinvio pregiudiziale per il giudice di ultima istanza.
Nella disposizione citata, infatti, è assente qualsivoglia forma di raccordo con il sistema delle preclusioni processuali di diritto interno, né si prevedono limiti, condizioni, presupposti del rinvio pregiudiziale.
Il rischio starebbe nella possibilità di legittimare forme di “abuso del processo”, figura che racchiude tanto la ben nota “lite temeraria” (che va sempre più declinandosi in istituti positivi puntuali: si pensi alle ipotesi di iniziative giudiziali in contrasto con l’assetto negoziale prefigurato in sede di mediazione o con orientamenti giurisprudenziali consolidati), quanto la galassia dei comportamenti ostruzionistici atti proprio a ritardare la conclusione del processo (si pensi massimamente ai giudizi penali).
Il Consiglio di Stato, tuttavia, non colora di tinte fosche la questione pregiudiziale, nel senso che non la pone nell’ottica semplicemente preventiva e repressiva di comportamenti processuali devianti.
Mira, piuttosto, ad una costruzione giurisprudenziale dell’istituto del rinvio pregiudiziale del giudice nazionale di ultima istanza: istituto che, così come ci è consegnato dal testo nudo dell’art. 267 TFUE, appare come una monade staccata dal sistema ed irrelata rispetto a quest’ultimo.
La questione pregiudiziale, infatti, si sub-articola nelle tre sub-questioni:
- è possibile proporre motivi di rinvio pregiudiziale dopo il primo atto di instaurazione del giudizio o di costituzione nel medesimo?
- è possibile proporre motivi di rinvio pregiudiziale dopo che la causa sia stata trattenuta per la prima volta in decisione?
- è possibile proporre motivi di rinvio pregiudiziale dopo che vi sia già stato un primo rinvio pregiudiziale?
Il Consiglio di Stato, in altri termini, avrebbe ben potuto limitarsi a porre solo la terza, in quanto è l’unica strettamente legata al giudizio a quo, essendo la sola riguardante la proponibilità di più questioni pregiudiziali in momenti separati: le prime due, infatti, riguardano ipotesi di preclusione che potrebbero impedire anche per la prima volta la proposizione di istanze di rinvio pregiudiziale.
Ritengo ora opportuno svolgere due ordini di considerazioni.
Ragionando con le categorie giuridiche tipiche della formazione teorico-giuridica e deontologico-forense in Italia, sarebbe difficilmente prevedibile e accettabile un esito della questione pregiudiziale che negasse radicalmente limiti, condizioni, preclusioni ecc. al rinvio pregiudiziale.
Da un punto di vista prettamente teorico-giuridico, infatti, si è sempre tenuta ben distinta la dimensione processuale da quella sostanziale, pur nella costante affermazione della necessità che la prima sia posta a servizio della seconda e della possibilità che la prima sia rimodulata, corretta, calibrata (perfino nel corso del processo) in funzione della seconda.
Le preclusioni sono coessenziali al processo sia in sé, sia in relazione agli specifici strumenti processuali: sul piano interpretativo le si potrà rendere meno rigide, le si potrà spostare in avanti, ma non se ne potrà mai fare a meno.
Lo stesso processo, una volta conclusosi, è preclusivo, salvo le estremamente limitate ipotesi di revisione del giudicato: il giudicato, infatti, è l’atto che per antonomasia è dotato di efficacia preclusiva.
Da un punto di vista deontologico-forense, poi, le preclusioni processuali sono coessenziali al mantenimento di un complesso ordinato di funzioni, ruoli, comportamenti, discipline, e contribuiscono alla solennità ed alla sacralità del processo: ovvero di caratteri che sembrano resistere pervicacemente perfino in un momento storico segnato dall’avanzare inesorabile dell’understatement, della liquefazione dei formalismi e del trionfo del concreto, del sostanziale, del diretto, dell’immediato.
In questo scenario ideologico, quindi, le due sub-questioni b) e c) verrebbero riconosciute fondate, o almeno susciterebbero una forte sensibilità nei giudici comunitari, che potrebbero sul punto emanare principi di diritto interlocutori, ma affermativi delle relative esigenze.
Diverso (e molto più complesso) sarebbe invece l’approccio riguardo la sub-questione a), segnatamente perché una soluzione uniforme per ogni tipologia di processo rischierebbe di non offuscarne le peculiarità.
Nel processo civile sarebbe al contrario inaccettabile, in termini di tutela, un effetto preclusivo che insorgesse prima o coevamente all’ultimo momento in cui le parti possono procedere all’emendatio libelli, perché l’insieme delle norme sostanziali astrattamente applicabili può ritenersi definibile solo nel momento in cui si è completato l’insieme delle allegazioni fattuali. Parallelamente, un’eccezione di pregiudizialità riguardo norme processuali dovrebbe poter essere sollevata almeno immediatamente dopo il momento del processo in cui esse hanno avuto applicazione.
Nel processo penale queste considerazioni, mutatis mutandis, possono spingere ancora più avanti il momento entro cui un’eccezione di pregiudizialità non può non essere ammessa, in ragione delle intrinseche ed ovvie peculiarità del processo penale.
Nel processo amministrativo, invece, il thema decidendum è in linea di massima sin da subito individuabile con una certa precisione, in ragione non solo del suo marcato carattere documentale, ma anche della immediata proposizione dei motivi di ricorso (principale e incidentale): sarebbe quindi certamente non inaccettabile in termini assiologici una risoluzione della sub-questione a) in termini positivi.
Assumendo, ora, una “veste” comunitaria, viene innanzitutto da chiedersi se l’art. 267 TFUE non sia stato volutamente strutturato in termini così recisi, quasi l’avulsione dell’istituto del rinvio pregiudiziale dai vari sistemi processuali nazionali fosse qualcosa di connaturato all’istituto stesso. Tale opzione interpretativa non è affatto da escludersi.
Il rinvio pregiudiziale è infatti uno strumento formidabile di nomofilachia comunitaria: l’Unione, cioè, a fronte delle possibili dispersioni dei principi e delle norme comunitari nelle esperienze giurisdizionali dei singoli Stati membri, reagisce con un forte accentramento, sia sul piano della legittimità comunitaria delle norme nazionali, sia su quello delle legittimità degli stessi atti comunitari. Accentramento che si declinerebbe attraverso un atteggiamento estremamente liberale nell’ammettere le questioni pregiudiziali, che supererebbe quindi la strutturazione di preclusioni endo-processuali.
Non si dimentichi, del resto, che lo stesso principio di intangibilità del giudicato interno (che genererebbe una preclusione di natura eso-processuale) è considerato dalla giurisprudenza comunitaria non assoluto, ma parzialmente recessivo in talune ipotesi. Molto importante, sul punto, è la pronuncia n. 11/2016 dell’Adunanza Plenaria, che ammette il superamento del giudicato interno in sede di giudizio di ottemperanza.
In questa diversa e più ampia cornice di pensiero, quindi, le questioni pregiudiziali sottoposte alla CGE sono imprevedibili nell’esito.
La Corte, infatti, si troverà a dover effettuare un bilanciamento estremamente complesso.
Da un lato si trova il principio di attuazione del diritto comunitario, la cui notevolissima pregnanza assiologica affonda le radici in una sorta di tendenza universale all’autoconservazione che investe anche gli ordinamenti giuridici: la limitazione dei casi di rinvio pregiudiziale può infatti portare ad uno scollamento, ad una perdita di coesione, ad un processo diametralmente opposto a quello della progressiva armonizzazione degli ordinamenti nazionali.
Dall’altro, però, su un piano eminentemente fattuale si corre il rischio che si possa addivenire ad una proliferazione incontrollata di eccezioni di pregiudizialità, tali da potere snaturare il principio di attuazione predetto, che potrebbe al contrario condurre disfunzionalmente ad ingiustificate compressioni della tutela giurisdizionale e sostanziale.
Occorre ora riflettere, per un momento, sulle potenziali refluenze sistematiche che possono derivare dall’esito della macro-questione processuale.
A mio avviso, la futura decisione della CGE non potrà che essere una decisione dal sapore topografico: la CGE, in altri termini, statuirà come collocarsi rispetto agli organi giurisdizionali nazionali.
Per ogni limite, condizione, preclusione che la CGE eventualmente dovesse riconoscere come contenuti impliciti dell’art. 267 TFUE, si avrebbe uno (strutturalmente coessenziale) spazio valutativo lasciato all’ordinamento processuale e/o agli organi giurisdizionali di ultima istanza dei singoli Stati membri. E cioè, in caso di esito parzialmente positivo, la CGE potrebbe ritenere coincidente il momento oltre cui si verificasse la preclusione sulle eccezioni di pregiudizialità, con il momento oltre cui la parte non potrebbe svolgere alcuna attività, o potrebbe invece lasciare al giudice di ultima istanza la valutazione circa la “concreta meritevolezza” (che è ben più della “manifesta infondatezza”) di una questione proposta al di là delle tipiche possibilità endoprocessuali.
Il panorama tecnico delle soluzioni tecniche possibili è estremamente variegato e, soprattutto, come già visto, plurivoco rispetto all’ampiezza del citato “spazio valutativo”.
Né è poi da escludere che la Corte di Giustizia coinvolga direttamente anche i giudici nazionali di legittimità delle leggi, ad es. valorizzando l’assetto giurisprudenziale affermato da Corte Cost. 269/2017 secondo cui, nel caso in cui la censura dovesse investire ad un tempo parametri costituzionali di diritto interno e norme comunitarie:
- può essere adita tanto la Corte Costituzionale, quanto la CGE;
- qualora si adisse per prima la Corte Costituzionale, il previo superamento della q.l.c. interna consente il rinvio pregiudiziale alla CGE solo per profili diversi da quelli affrontati dalla Corte Costituzionale (Cass. 3831/2018 ritiene invece possibile la proposizione lla CGE anche per profili analoghi a quelli della q.l.c.).
In altri termini, nelle ipotesi di contemporanea presunta violazione di parametri di legittimità interni e comunitari, la CGE potrebbe seguire questa linea spingendosi fino ad impedire che in prima battuta si possa adire la CGE e disegnando il perimetro dei motivi per cui sarebbe possibile adirla in seconda battuta. Nel nostro ordinamento, ciò potrebbe assicurare un certo effetto deflattivo, soprattutto in ragione della non automaticità del ricorso alla Corte Costituzionale: il giudice a quo, sostanzialmente, agirebbe da vero e proprio filtro anche sul piano della protezione del diritto comunitario.
Le questioni pregiudiziali oggi poste all’attenzione della CGE potrebbero trovare quindi la soluzione in un siffatto disegno procedurale, che escluderebbe le questioni pregiudiziali a catena di fronte alla CGE, il cui ricorso sarebbe ammesso solo per i profili non toccati nel giudizio interno di costituzionalità.
Non potrebbe comunque escludersi un coinvolgimento delle Corti Costituzionali nemmeno riguardo le ipotesi in cui invece non è richiamato nelle censure un parametro costituzionale interno.
Qui, tuttavia, il coinvolgimento potrebbe essere molto più sfumato: ad es. in generale le Corti potrebbero essere invitate ad emanare obiter dicta riguardo eventuali profili comuni al diritto comunitario, cosicchè il giudice interno di ultima istanza potrebbe non procedere al rinvio qualora i profili di censura coincidessero con quelli esaminati in relazione ad altre fattispecie dalla Corte Costituzionale.
In chiusura di questo paragrafo, quindi, pare più che mai opportuno rilevare l’estrema magmaticità di una macro-questione pregiudiziale che, ragionando con le categorie tipicamente italiane, dovrebbe quasi condurre ad un esito scontato.
La sentenza della CGE contribuirà invece allo sviluppo ed all’affinamento di quel complesso gioco di equilibri istituzionali, che trova la sua linfa vitale nel “dialogo tra le Corti” finalizzato all’obiettivo asintotico di una sempre più piena tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi della persona umana.
La macro-questione sostanziale
Il tema sembra poco attuale e di applicazione limitata: le disposizioni censurate appartengono al D.lgs. 163/2006 e riguardano i contratti ad esecuzione continuata e periodica rientranti nei c.d. settori esclusi.
Nel D.lgs. 163/2006 non c’è una disposizione analoga al citato art. 115 D.lgs. 163/2006, ma in caso di accoglimento della questione pregiudiziale la sentenza della CGE è foriera di essere applicata almeno:
– a tutti i contratti in cui l’indicazione puntuale del costo della manodopera è richiesta in fase di gara;
– a tutti quelli preceduti da una puntuale verifica della congruità dei costi della manodopera e/o dell’offerta in generale.
Non rileverebbe, cioè, se i contratti siano disciplinati dal D.lgs. 163/2006 o meno, se pertengano ai settori ordinari o ai settori speciali, se siano ad esecuzione istantanea oppure continuata/differita.
E cioè:
se
il giudice comunitario dovesse ritenere che le modificazioni del contratto collettivo agissero dall’esterno come fattore non ricadente nell’alea sopportabile dall’imprenditore in contratti, come quello del giudizio a quo, in relazione ai quali il calcolo specifico della manodopera effettuato dall’imprenditore non è stato esplicitato in sede di gara,
a fortiori
le modificazioni del contratto collettivo costituirebbero un fattore legittimante la revisione del corrispettivo dell’appalto in ipotesi in cui tale calcolo è stato esplicitato nell’offerta economica e/o in sede di verifica della congruità della stessa.
In altri termini, se il calcolo del costo della manodopera dovesse rilevare anche se non esplicitato, a maggior ragione dovrebbe rilevare se esplicitato per obbligo normativo e/o su iniziativa della Stazione Appaltante.
Attualmente, il regime normativo e giurisprudenziale circa l’indicazione in sede di gara dei costi della manodopera è molto stringente.
L’obbligo di indicare i costi della manodopera è stato introdotto dal D.lgs. 56/2017, che ha modificato l’art. 95 c. 10 D.lgs. 50/2016. Si tratta quindi di una disposizione relativamente recente, che ha generato un fortissimo dibattito giurisprudenziale riguardo l’immediata escludibilità dell’offerta priva dell’indicazione dei costi della manodopera.
Tale disposizione, tuttavia, non è mai stata interpretata nel senso di ritenere aggiudicabile un appalto nella cui procedura di affidamento l’aggiudicatario non li avesse mai indicati. La controversia interpretativa ha infatti avuto ad oggetto solo il momento in cui la mancata indicazione avesse dovuto comportare l’esclusione dalla procedura: o immediatamente in sede di apertura delle offerte economiche, o in caso di mancata adesione alla richiesta di indicarli in sede di soccorso istruttorio (melius, in sede di subprocedimento di verifica della natura sostanziale o formale dell’omessa indicazione).
L’obbligo di indicazione dei costi della manodopera è quindi imprescindibile, è considerato un elemento essenziale, ineliminabile, strutturale dell’offerta, espressivo della misura della serietà della stessa e dell’attitudine dell’operatore economico a garantire la tutela del lavoratore nelle fasi esecutive dell’appalto.
Inoltre, la giurisprudenza (valorizzando l’art. 30 c. 4 D.lgs. 50/2016) ritiene che debba essere escluso da una procedura di gara l’operatore economico che avesse indicato contratti collettivi diversi da quelli applicabili (v. es. Cons. Stato n. 1574/2018, richiamata di recente da Tar Torino n. 19/2019).
Nel non lasciare spazio ad una possibilità di rettifica dell’errore di individuazione del contratto applicabile, la giurisprudenza sembra sì congelare e fissare il calcolo dei costi della manodopera, ma anche simmetricamente sottrarlo all’alea normale del contratto, al gioco naturale delle sopravvenienze.
Nell’ordinamento vigente, quindi, la revisione del corrispettivo del contratto d’appalto sembrerebbe più facilmente ammissibile: in caso di accoglimento della questione pregiudiziale, è agevole estenderne la portata applicativa anche ai contratti disciplinati dal regime attuale.
In caso di rigetto, invece, non si può facilmente prevederne gli effetti sul regime attuale: bisognerebbe attentamente verificare se le ragioni del rigetto stiano proprio nel fatto che all’epoca il calcolo del costo della manodopera fosse implicito, o se invece si fondino su altre ragioni più generali che investono in generale il funzionamento del sinallagma nei contratti pubblici.
Conclusioni
L’ordinanza n. 4919/2019 assume un’importanza centrale, che va ben al di là delle singole questioni.
La macro-questione processuale investe infatti il cuore dei rapporti tra Corte di Giustizia e organi giurisdizionali nazionali, mentre la macro-questione sostanziale, soprattutto in caso di esito positivo, coinvolge un amplissimo ambito di contratti pubblici.
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