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Premessa
Il Presidente della Repubblica rappresenta la figura di vertice dell’intero regime istituzionale italiano sebbene, nei sistemi parlamentari, il Capo dello Stato sia un organo di non facile definizione.
Per affrontare la complessa tematica della figura e della responsabilità del Capo dello Stato, tutt’ora oggetto di grande attenzione da parte della dottrina costituzionalistica, occorre avere riguardo di come il Presidente della Repubblica atteggi il proprio ruolo nelle situazioni contingenti, con riferimento al quadro istituzionale e alla giurisprudenza costituzionale di riferimento.
In particolare, il contesto istituzionale degli ultimi anni ha messo in netta evidenza i punti deboli dell’ordinamento in relazione all’inquadramento della figura del Presidente della Repubblica nell’arco dei poteri istituzionali[1].
La conseguenza è stata quella di porre l’organo presidenziale al centro dell’attenzione generale, quale interlocutore privilegiato delle istanze proventi sia dagli organi di vertice sia dal Paese e quale soggetto compartecipe, alla pari degli altri soggetti titolari dell’indirizzo politico, delle scelte legate alla sua determinazione ed attuazione; se non, addirittura, quale soggetto portatore di un autonomo ‘indirizzo’, intorno al quale aggregare il consenso oltre che delle forze politiche ed istituzionali, della più ampia base sociale.
Tale posizione configura un potere, che può assumere tre forme: 1) un potere informativo-conoscitivo; 2) un potere di persuasione o, come giornalisticamente vien detto, di moral suasion; 3) un potere di esternazione.
Il primo dei tre poteri è funzionale alla conoscenza di tutto quanto necessario allo svolgimento delle attività del Presidente della Repubblica. Il potere di persuasione rappresenta, invece, una forma del potere di comunicazione, che si traduce in attività necessariamente riservate, protette “direttamente” dalla Costituzione in quanto funzionali allo svolgimento del ruolo presidenziale di mediazione e di equilibrio, presupposto della garanzia dei diritti fondamentali dei cives. Un potere “privato”, in quanto non accessibile a terzi, non propalabile quanto ai suoi contenuti e – immediatamente e in via ordinaria – non giustiziabile. Accanto a questo, sta il “potere di esternazione”, che individua le manifestazioni pubbliche di pensiero del Presidente della Repubblica, non contenute in atti formali, ma diffuse in modo informale e libero; manifestazioni, in ogni caso, a lui direttamente o indirettamente riconducibili.
Un vulnus[2], questo, che non può non ripercuotersi sulla sfera della sua responsabilità, i cui tratti delimitativi risultano ancora oggi non del tutto chiari.
Punto centrale della trattazione sarà costituito dalla questione riguardante l’effettiva capacità flessoria delle maglie all’interno delle quali i Padri Costituenti hanno collocato la figura presidenziale.
Appare opportuna, dunque, una ricerca atta a verificare ed approfondire gli atti e le prerogative del Presidente della Repubblica, mettendone a fuoco gli aspetti più controversi attraverso una ricostruzione che inevitabilmente avrà come punto di partenza il ruolo costituzionale del Capo dello Stato e la sua complessa evoluzione dal dato costituzionale al concreto atteggiarsi nell’ordinamento, non trascurando, poi, l’ulteriore problematica della responsabilità politica.
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Il Presidente della Repubblica nella scelta del Costituente
Il dibattito effettuato in sede costituente permise di tradurre in termini costituzionali i principi propri dei governi liberali, di cui si fecero promotrici tutte le forze politiche uscite vittoriose dalla guerra di liberazione, determinando tra le altre disposizioni costituzionali anche quelle relative alla figura del Presidente della Repubblica[3] ed ai suoi compiti, attraverso l’elaborazione di regole costituzionali che furono frutto di compromessi tra le diverse ideologie.
L’esigenza primaria propria di ognuno dei padri costituenti era quella di non lasciare nessuno spiraglio alla possibilità che il Paese potesse incappare nuovamente in regimi autoritari ed antidemocratici. L’onorevole Meuccio Ruini, a tal proposito, il 6 febbraio 1947 nel presentare la relazione della Commissione per la Costituzione in Assemblea costituente, precisò che proprio per evitare che si potesse di nuovo avere una svolta dittatoriale non era stata costituzionalizzata la forma di Governo presidenziale, che nonostante fosse da tempo utilizzata con successo negli Stati Uniti d’America non appariva, a suo giudizio, trasferibile all’Italia a causa della forma di Stato non federale e del differente sistema dei partiti, non bipolare come quello statunitense e, inoltre, non fu preso in considerazione il “governo d’assemblea”, in cui la sovranità popolare si riflette esclusivamente nel Parlamento, sul quale si concentrano tutti i poteri, negando la divisione dei poteri di Montesquieu e la possibilità che vi siano diverse forme di espressione della sovranità popolare[4]. Si accolse pertanto l’idea di una forma di Governo a forte centralità parlamentare, con il potere esecutivo affidato al Governo e la conseguente previsione del rapporto di fiducia tra i due suddetti organi, disciplinato dall’art. 94 della Costituzione.
In questo contesto fu istituzionalizzata la figura del Presidente della Repubblica, in parte creata in continuità con il Capo dello Stato vigente nella precedente forma di Stato della Monarchia costituzionale, ma con alcuni caratteri propri necessari in ottica del nuovo assetto costituzionale.
La stessa relazione enunciata dal Presidente della Commissione dei 75 Ruini conteneva anche delle precise indicazioni sulle caratteristiche che il Capo dello Stato della Repubblica italiana avrebbe dovuto avere secondo quanto emerso dai lavori svolti dai padri costituenti in Commissione. L’onorevole Ruini, infatti, sottolineò che secondo il progetto costituente il futuro Presidente della Repubblica non sarebbe stato un personaggio evanescente, decorativo, “il maestro di cerimonie” generato da Costituzioni di altri Paesi, ma avrebbe rappresentato ed impersonato l’unità e la continuità nazionale. Era esplicita la volontà che il Presidente non avrebbe governato, con il potere esecutivo affidato al Governo, non sarebbe più stato il capo del potere legislativo, non facendo parte del Parlamento e non avendo il potere di sanzionare le leggi, né sarebbe stato responsabile dei suoi atti, per i quali fu prevista la controfirma ministeriale, attraverso la quale la responsabilità viene assunta dal Primo Ministro e dai Ministri, ma il ruolo ritagliato per esso fu quello del “grande consigliere, il magistrato di persuasione e di influenza, il capo spirituale”[5], colui che avrebbe coordinato i rapporti tra gli organi titolari dei tre poteri. Meuccio Ruini concluse la propria descrizione della figura presidenziale specificando che il progetto di Costituzione della Commissione da lui presieduta prevedeva varie attribuzioni sia nell’ordinamento interno che in quello esterno per consentirgli di adempiere alle proprie funzioni[6].
Il confronto più serrato relativamente alle prerogative presidenziali, in sede costituente, fu quello che vide opporsi i sostenitori di un Presidente forte a chi privilegiava un Presidente debole, con vari interventi susseguitisi in Assemblea costituente da parte dei promotori delle tesi antitetiche.
Durante la discussione generale in Assemblea l’onorevole Ambrosini manifestò l’esigenza di creare un potere esecutivo forte, premettendo che per far ciò bisognava avere un Presidente della Repubblica che non fosse una figura esclusivamente simbolica ed evitare di generare un Capo dello Stato instabile, soltanto per la paura di affidargli poteri che potessero essere sfruttati per eventuali derive autoritarie, in quanto specificò che nella futura forma di Governo parlamentare il Presidente non avrebbe potuto esercitare autonomamente i propri poteri, ma sarebbe stato necessario che ciò avvenisse in armonia con il Governo[7]. Ancora più propenso ad affidare ampi e forti poteri al Presidente della Repubblica sembrò l’onorevole Benvenuti quando, durante la discussione in Assemblea concernente le funzioni e le prerogative presidenziali, presentò un emendamento, ritirato ancor prima che fosse posto in votazione, col quale propose di inserire al primo comma dell’art. 87 costituzionale[8] la frase “è il supremo custode della Costituzione”[9], aggiungendo che a suo dire sarebbe stato opportuno riconoscere al Capo dello Stato italiano il diritto di proporre azioni di incostituzionalità verso qualsiasi legge, decreto o regolamento a lui sottoposto da parte del Governo in carica e il potere di indire nuove elezioni in caso di evidenti dissensi tra il popolo e le Camere, attraverso un’autonoma decisione a prescindere dal parere governativo, così da adempiere al proprio ruolo di garante del rispetto della volontà popolare. Egli precisò, inoltre, che per consentirgli di svolgere efficacemente i due compiti suddetti sarebbe stato necessario non prevedere per essi la controfirma ministeriale che avrebbe potuto costituire, in particolari condizioni, un serio intralcio all’interesse generale dei cittadini[10].
In realtà, però, lo scambio di vedute più intenso in merito alla figura e al ruolo del Presidente della Repubblica fu quello che intercorse tra l’onorevole Vittorio Emanuele Orlando ed il Presidente della Commissione dei 75 Meuccio Ruini.
Il primo non esitò a manifestare la propria opinione sul Capo dello Stato che la Costituente stava andando a delineare, dichiarando fin dal marzo del 1947 che appariva avere “la figura di un fainéant, di un fannullone”[11], definendola una “figura pallida e senza spessore”[12].
L’onorevole Ruini rispose ad Orlando dicendo che la Commissione, a suo giudizio, avesse affidato ampie prerogative al Presidente della Repubblica, tanto da creare una figura forte e spiccata e battendo punto su punto sulle affermazioni del collega disse che il futuro Capo dello Stato avrebbe autorizzato con un proprio decreto la presentazione in Parlamento dei disegni di legge governativi, che era stato accantonato il potere di sanzione delle leggi da parte del Presidente in quanto inutilizzato già nel precedente periodo monarchico e ritenuto desueto e che in assoluto nella forma repubblicana parlamentare mai il Capo dello Stato sarebbe stato anche Capo del Governo, né detentore del potere esecutivo, così come il potere giudiziario potesse essere esercitato esclusivamente da magistrati indipendenti, in nome del popolo[13] .
La sensazione che si ha attraverso uno studio dei verbali delle sedute in Assemblea è che la maggioranza dei membri dell’Assemblea Costituente, condizionati dal vivo ricordo del ventennio di dittatura fascista appena superato e intimoriti che in seguito la minaccia di un simile pericolo potesse tornare, si preoccuparono più di limitare le prerogative presidenziali, piuttosto che di qualificarle[14], come se il primo obiettivo della nuova istituzione democratica fosse quello di cesura netta con il Capo dello Stato dello Statuto Albertino e soprattutto perché in dottrina non vi erano termini di paragone dovuti ad un’esperienza diretta consistente[15].
Ciò nonostante parte della dottrina è concorde nell’affermare che, attenzionando la prassi creatasi nelle varie presidenze, nel corso degli anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione italiana, il Presidente della Repubblica abbia avuto un ruolo attivo nel contesto politico nazionale, probabilmente superiore alle stesse aspettative dei padri costituenti, pur essendo la sua partecipazione soggetta ad oscillazioni relative al cambiamento del sistema politico, della fase storica[16].
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Il Capo dello Stato come figura complessa e di mera garanzia
Alla luce delle innumerevoli ricostruzioni effettuate da autorevoli esponenti della dottrina costituzionalistica, è il caso di porre fin da subito in evidenza – quale assunto imprescindibile da collocare alla base della presente trattazione – come il ruolo costituzionale del Presidente della Repubblica abbia avuto una propria evoluzione lungo i binari tracciati dalle vicende che hanno contribuito a modellare il quadro politico-istituzionale del nostro Paese dalla nascita della Repubblica fino ai giorni nostri.
Già in Assemblea Costituente, il problema consisteva sostanzialmente nell’individuazione del giusto equilibrio tra la figura del Capo di Stato e la forma di governo. Il governo parlamentare – che secondo qualcuno era addirittura «l’unico possibile» – per sua stessa natura avrebbe rigettato il dualismo delle monarchie ottocentesche, ma al contempo era inconciliabile con l’idea di governo assembleare puro[17] promossa dalle sinistre.
Si pensò dunque ad una via di mezzo, in cui il Presidente della Repubblica conservi intatta la propria funzione rappresentativa dello Stato, ma dotato altresì di una funzione regolatrice – per quanto di carattere «essenziale» – atta ad assicurare il corretto funzionamento del sistema costituzionale.
Ciò che è importante sottolineare è che l’idea di un Presidente che in qualche modo possa contribuire alla determinazione dell’indirizzo di governo oltrepassa l’impostazione pensata dai Costituenti. L’attuale situazione politica – che vede il Capo dello Stato al suo secondo mandato e, addirittura, indicato spesso dalla stampa come “Presidente del Consiglio di fatto” – sembra essere infatti il risultato di una notevole forzatura.
Proprio il rapporto intercorrente tra le funzioni del Capo dello Stato e le vicende della politica sembrano aver ispirato una prima importante ricostruzione della dottrina, che pone l’esigenza di considerare i due profili in esame in un’ottica di totale dissociazione[18].
Il Presidente esercita, infatti, principalmente un ruolo di tutela e garanzia dell’interesse generale dello Stato. La Costituzione, in particolare, affida al Capo dello Stato la tutela di interessi «obiettivi, permanenti ed intimamente connessi con l’esistenza dello stato stesso, e perciò sottratti alle cangianti valutazioni della politica»[19].
Non sembra emergere da queste parole il riconoscimento di alcun rapporto di influenza tra le vicende politiche del Governo e lo svolgimento delle funzioni presidenziali.
Tutela e garanzia dell’interesse generale dello Stato si traducono nell’attribuzione presidenziale di un potere di controllo, diretto al Governo, che sembra avere una propria fonte legittimante nell’art. 90. Ai sensi del medesimo, in effetti, viene a configurarsi una responsabilità – che qui possiamo qualificare come responsabilità giuridico-penale – del Presidente della Repubblica laddove, nell’esercizio delle proprie funzioni, egli si macchi dei reati di alto tradimento o attentato alla Costituzione.
Ciò che la dottrina riscontra, quale riflesso della norma suddetta, è da un parte l’esistenza di un potere di sindacato, di esame e di controllo; dall’altra – di conseguenza – l’esistenza di un potere-dovere di astensione dall’esercizio delle attribuzioni presidenziali qualora l’atto compiuto integri una delle due fattispecie di reato richiamate dall’art. 90.
La non influenza della politica governativa sullo svolgimento delle funzioni presidenziali appare qui chiara: vi è un obbligo giuridico, per il Presidente, di astenersi dall’esercitare la sua competenza ogni qual volta la proposta governativa potrebbe condurre all’adozione di un atto che si sostanzi in uno dei due reati previsti dal suddetto articolo della Costituzione[20].
È chiaro come la ricostruzione in esame risenta notevolmente dell’influenza esercitata dal contesto politico all’interno del quale vediamo concretizzarsi le prime esperienze presidenziali dell’Italia repubblicana.
Ai giorni nostri, infatti, la teoria del ruolo costituzionale del Presidente proposta da Galeotti fornisce un’interpretazione alquanto riduttiva delle funzioni presidenziali.
Non si tratta, in ogni caso, di una ricostruzione da confinare nel limbo della dottrina “d’altri tempi”[21], anzi costituisce il punto di partenza per lo sviluppo delle interpretazioni successive.
Infatti, il contesto politico all’interno del quale vengono a spendersi gli anni del mandato di Ciampi , ad esempio, è un contesto di temperie istituzionale, in cui il consociativismo dei partiti – che prima caratterizzava le decisioni del Parlamento – lascia un grande spazio alla politica governativa, in nome di una maggior efficienza decisionale.
L’azione del Presidente di quel periodo, dunque, non può che essere stata guidata dalla necessità di dare un maggior vigore ai principi indefettibili della Costituzione, al fine di mettere un freno all’esuberanza delle forze politiche, specie di quelle titolari del potere esecutivo[22].
L’obiettivo presidenziale sembra dunque essere stato quello di giungere alla «sintesi tra la molteplicità delle forze politiche» affinché non sussistesse un eccessivo atteggiamento scontroso tra le parti, «attraverso un’azione costante di moderazione e relativizzazione delle contrapposizioni politiche, nonché proseguendo il superamento dei conflitti politici che impedivano il buon funzionamento del sistema costituzionale»[23].
È chiaro come, in una situazione del genere, costante è stata la ricerca di continui avalli e sostegni presidenziali, consentendo a Ciampi di portare avanti quella che è stata definita una “politica comunitaria del Presidente della Repubblica”[24] Evidente è, infatti, l’orientamento dell’allora Capo dello Stato verso il compimento di una missione di «costituzionalizzazione ed integrazione dell’Unione Europea», che lo ha portato col tempo ad assumere «un ruolo sussidiario di altre autorità e delle stesse forze politiche sia nei confronti dell’incentivazione del dibattito sui temi europei fra le forze politiche italiane sia per quanto concerne la presenza italiana anche fuori dalle sedi istituzionali»[25].
Certo, il rischio è quello che, nel tentativo di unire le parti, il Presidente possa essere suscettibile di assumere un atteggiamento eccedente la propria funzione di “mediatore”. È chiaro che tale funzione debba essere esercitata con rigore, ma soltanto entro – e non oltre – le attribuzioni Costituzionali, che restano pur sempre la garanzia della terzietà del Capo dello Stato rispetto alle manovre condotte dalle varie forze abitanti i palazzi della politica[26].
4. Modalità di elezione del Presidente della Repubblica
La discussione relativa alla modalità d’elezione del Capo dello Stato repubblicano fu lunga e condizionata anche dalla forma di Governo scelta in Assemblea costituente, frutto della considerazione, emersa con l’approvazione il 5 settembre del 1946 all’interno della seconda Sottocommissione dell’ordine del giorno Perassi, che il sistema presidenziale e quello direttoriale non sarebbero stati idonei alle esigenze della società italiana e che, dunque, la soluzione più idonea sarebbe stata quella di optare per una Repubblica di tipo parlamentare, con alcune correzioni volte a rendere maggiormente stabile l’azione del Governo[27].
Muovendosi, così, entro i confini tracciati dalla forma di governo parlamentare si operò una scelta tra tre alternative, rappresentate dall’elezione diretta del Presidente della Repubblica da parte del popolo, contrapposta all’elezione indiretta effettuata dall’Assemblea Nazionale, mentre la terza opzione constava in un’elezione, pur sempre indiretta, nella quale il Parlamento, riunito per l’occasione in seduta comune, sarebbe stato implementato da rappresentanti delle Regioni. La prima scelta sarebbe dovuta essere operata nella seconda Sottocommissione dell’Assemblea costituente, ma in quella sede non si riuscì a raggiungere alcun compromesso tra le differenti tesi[28].
Vi fu chi, come gli onorevoli La Rocca e Terracini, riteneva inutile la partecipazione durante l’elezione presidenziale dei delegati regionali, in quanto le Regioni sarebbero già state rappresentate dal Senato, altri come il relatore Tosato che sostenevano la diversità tra la figura dei senatori, rappresentanti dell’intera Nazione e il ruolo dei delegati che avrebbero integrato l’Assemblea come portavoce delle Regioni, credendo che così sarebbe stato evitato sia lo strapotere presidenziale dettato da un’eventuale elezione diretta, sia la dipendenza del Capo dello Stato dalla volontà delle Camere, consequenziale nel caso di votazione spettante ai parlamentari in via esclusiva.
Altri ancora spinsero per far sì che fosse prevista l’elezione diretta del Presidente da parte del popolo, con l’onorevole Nobile che propose l’istituzione di un Consiglio Supremo della Repubblica al fine di limitare l’eventuale strapotere dovuto all’investitura diretta ed infine vi fu anche una variante promossa dall’onorevole Mortati che prevedeva un sistema di tipo misto di secondo grado, con la partecipazione di tutti i parlamentari e di alcuni rappresentanti delle differenti forze sociali. Come detto tutte le proposte furono respinte e la decisione fu rinviata alla Commissione dei 75, dove si optò per l’elezione indiretta, con voto spettante alle Camere riunite in seduta comune, integrate da delegati regionali[29].
In Assemblea, infine, in seguito ad una proposta ad opera dell’onorevole Fuschini si decise che i rappresentanti delle regioni sarebbero stati tre, ad eccezione della Valle d’Aosta che ne elegge solo uno, eletti dal Consiglio regionale in modo da assicurare che le minoranze presenti all’interno dello stesso fossero adeguatamente rappresentate[30].
Fu così che prese forma l’art. 83 della Costituzione, il quale inoltre al terzo comma disciplina che il Presidente della Repubblica sia eletto mediante scrutinio segreto con una maggioranza dei due terzi dei membri che compongono l’assemblea nelle prime tre sedute e, nel caso in cui nessuno ottiene il numero dei voti indicato, a partire dal quarto scrutinio diventa sufficiente il raggiungimento della maggioranza assoluta[31].
La decisione di prevedere una maggioranza dei due terzi fu simbolo di volontà che il Capo dello Stato non venisse scelto da una base esigua, ritenendo tale la maggioranza assoluta poiché rappresentante la maggioranza del Governo in seno alle Camere. Parecchie furono le critiche mosse in Assemblea costituente circa il fatto di dover effettuare tre scrutini prima che il suddetto quorum venisse ridotto, motivate da una eventuale diminuzione del prestigio presidenziale, ma la Commissione fece valere la propria tesi sostenendo che la scelta di questo quorum veniva dettata proprio dalla necessità di salvaguardare il prestigio dell’organo posto al vertice dello Stato, che sarebbe dovuto essere eletto da un ampio numero di consensi[32].
Al primo comma dell’art. 84 viene prescritto che ogni cittadino italiano, in possesso dei diritti civili e politici, che abbia già compiuto i cinquant’anni d’età possa essere eletto Presidente della Repubblica. Si ritiene che il termine “ogni” si riferisca al fatto che sia i cittadini di sesso maschile che coloro appartenenti al gentil sesso possano ambire alla carica e a tal proposito intervenne in sede di sottocommissione l’onorevole Fuschini, che a precisa domanda in merito ottenne risposta affermativa dalla Commissione, pertanto nonostante non sia finora accaduto il Capo dello Stato potrebbe senza ombra di dubbio essere una donna. Per quanto riguarda, poi, il limite d’età dettato dalla Costituzione, ampio fu il dibattito costituzionale, poiché la Commissione tendeva a fissarlo a quarantacinque anni, ritenendo tale limite sufficiente a garantire una piena maturità per ricoprire il ruolo, facendo riferimento al fatto che si sarebbe trattato di un soggetto che sarebbe potuto essere deputato già da vent’anni[33]. Ma lo stesso onorevole Fuschini fece notare che tra i quarantacinque anni del futuro Presidente ed i quaranta necessari per essere eletto in Senato il margine sarebbe stato troppo esiguo, propendendo per i cinquant’anni e riuscendo ad ottenere la maggioranza dei consensi in Assemblea, nonostante la Commissione avesse espresso parere negativo per mezzo del proprio relatore[34]. Bisogna, inoltre, sottolineare che i requisiti del possesso della cittadinanza e dei diritti civili e politici devono essere propri del Presidente della Repubblica per tutta la durata del suo mandato, pena l’immediata decadenza dalla carica[35]. Il medesimo art. 84, al secondo comma, determina che l’ufficio presidenziale non è compatibile con alcuna altra carica, intendendo escluse anche le cariche private, secondo quanto emerso in sede costituente e quanto sostenuto dalla totalità della dottrina. Prassi vuole che il Presidente, al momento della propria elezione, si dimetta anche da eventuali incarichi di cui è titolare all’interno del suo partito, così da consolidare la propria posizione d’indipendenza rispetto a tutti i partiti politici e svolgere in modo inequivocabile il ruolo di organo garantista e super partes attribuitogli dalla Costituzione[36].
L’art. 85 della Costituzione italiana disciplina la durata della carica presidenziale, fissandola in sette anni e non prevedendo, né negando la fattispecie di un secondo mandato, sia esso immediatamente successivo o meno[37]. In sede costituente la scelta del numero di anni di permanenza del Capo dello Stato vide idee sostanzialmente divergenti tra chi, come gli onorevoli Lussu e Bordon, volevano un mandato di cinque anni[38], altri, tra cui Aldisio e Caronia, propose un mandato di sei anni e chi, l’onorevole Nitti su tutti, si spese per una durata di quattro anni, seguendo l’esempio statunitense, con l’obiettivo di trasmettere la sensazione di una carica non duratura, da sfruttare operando al meglio[39]. La Commissione optò per un mandato settennale, adducendo la spiegazione che differenziando la durata della carica presidenziale da quella della legislatura si sarebbe ottenuto un rafforzamento dell’indipendenza del Presidente rispetto al Parlamento che lo elegge, rinvigorendo la sua figura e sarebbe stata garantita la continuità dell’esercizio delle funzioni pubbliche[40].
Il mandato presidenziale, che non inizia il giorno in cui il Presidente della Repubblica viene eletto, ma dal momento del suo giuramento di fedeltà alla Repubblica effettuato dinnanzi al Parlamento che sancisce il suo insediamento[41], diventa così il più duraturo tra quelli elettivi prescritti dalla Costituzione, secondo solo alla durata della carica dei giudici della Corte Costituzionale, prevista per un periodo di tempo di nove anni[42].
Lo stesso art. 85 della Costituzione, al secondo comma prevede che il Presidente della Camera dei Deputati abbia il compito di convocare il Parlamento in seduta comune e i delegati regionali per l’elezione del Capo dello Stato trenta giorni prima che si concluda il mandato presidenziale in corso. Tale previsione fu inserita in Costituzione su proposta dell’onorevole Corbino che propose di designare il Presidente della Camera come Presidente d’Assemblea, in occasione dell’elezione presidenziale, per ragioni di praticità visto che essa si tiene all’interno dell’aula di Montecitorio, così come lo stesso costituente indicò il Presidente del Senato per sostituire il Presidente della Repubblica in caso di impedimento temporaneo, realizzando un perfetto equilibrio tra le cariche[43]. Quanto al termine di trenta giorni, va specificato che esso non si riferisce al giorno in cui si tengono le votazioni per l’elezione presidenziale, ma semplicemente al momento in cui viene effettuata la convocazione degli aventi diritto al voto da parte del Presidente della Camera dei deputati, al fine di consentire alle Regioni, qualora non l’avessero ancora fatto, di eleggere i propri rappresentanti che parteciperanno al procedimento elettorale del Capo dello Stato, che si svolgerà il giorno in cui termina il mandato del Presidente della Repubblica uscente.
Il terzo comma, infine, funge da integrazione al comma precedente appena esaminato, disponendo che l’elezione del nuovo Presidente non può avere luogo nel caso in cui le Camere sono sciolte o se mancano meno di tre mesi al termine della legislatura ed in tale evenienza si attenderà la costituzione delle nuove Camere e l’elezione si terrà entro quindici giorni.
La possibilità che la scadenza del settennato coincida con gli ultimi tre mesi della legislatura o con lo scioglimento del Parlamento è assolutamente minima, ma la disposizione risulta comunque necessaria al fine di garantire che in simili circostanze il Presidente della Repubblica sia scelto dai membri che verranno eletti e non da quelli che stanno terminando il proprio mandato o l’hanno già concluso[44]. Ciò garantisce da un lato che il futuro Capo dello Stato sia espressione della volontà di rappresentanti del popolo eletti in un periodo non troppo distante e d’altro canto evita che esso si possa ritrovare, sin dall’inizio della propria carica, ad essere il “mentore” di una classe politica, appena eletta, che non lo ha scelto[45].
“Nel frattempo sono prorogati i poteri del Presidente in carica” conclude testualmente l’art. 85, avvalorando la consapevolezza che il costituente abbia inteso evitare qualsivoglia possibilità di vacanza della carica presidenziale, che non deve conoscere pause o intervalli, assicurando l’indispensabile continuità dell’esercizio della funzione. In merito all’istituto della prorogatio, introdotto dalla Commissione, spese le proprie parole il relatore Tosato in sede costituente, spiegando che si tratta della possibilità in possesso di un organo, che ha esaurito il proprio mandato, di continuare ad esercitare, pur limitatamente, i propri poteri, non in virtù di un atto speciale che lo autorizza, ma di diritto in quanto previsto dalla Carta costituzionale[46].
La Costituzione non accenna all’ipotesi in cui le votazioni presidenziali si dovessero protrarre oltre i trenta giorni e sul tema si dividono le tesi della dottrina, tra chi sostiene che anche in questo caso debba applicarsi l’istituto della prorogatio[47] e chi invece prevede che si verificherebbe la supplenza da parte del Presidente del Senato[48].
Proprio l’art. 86, infatti prevede che in caso di impossibilità da parte del Presidente della Repubblica di adempiere alle proprie funzioni, esso debba essere sostituito dal Presidente del Senato. Se tale impedimento è a carattere temporaneo, come nel caso di viaggi volontari privati o ufficiali oppure in caso di malattia, il Capo dello Stato rientrerà in possesso dei propri poteri e compiti al termine dell’impedimento. Se l’impedimento è permanente, in caso di decesso, dimissioni, decadenza dovuta alla perdita dei requisiti di eleggibilità o destituzione, causata da alto tradimento o attentato alla Costituzione, del Presidente della Repubblica invece sarà compito del Presidente della Camera dei deputati indire l’elezione del nuovo vertice dello Stato entro quindici giorni o, comunque, entro quindici giorni dalla prima riunione delle nuove Camere, nell’eventualità in cui esse siano sciolte o manchino meno di tre mesi alla cessazione della loro carica[49].
All’interno dell’Assemblea costituente l’onorevole Mortati propose invano di fissare un termine massimo alla durata dell’impedimento temporaneo, decorso il quale si sarebbe dovuto procedere a nuove elezioni, così come non fu costituzionalizzata la richiesta dell’onorevole Crispo di incaricare un organo di valutare se l’impedimento presidenziale abbia carattere temporaneo o permanente, lasciando il giudizio insindacabile, in situazioni non lapalissiane, allo stesso Presidente della Repubblica in carica. Esso, comunque, cessato il proprio mandato presidenziale diventa in automatico senatore a vita, a meno che la carica non sia terminata in seguito a decadenza o destituzione[50].
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I poteri presidenziali
Ampio spazio in sede costituente fu concesso alle discussioni relative alle prerogative presidenziali, che per un verso non sarebbero dovute essere troppo accentuate, per evitare possibili derive autoritarie, ma dall’altro verso non avrebbero dovuto neanche relegare il Capo dello Stato a svolgere una funzione puramente formale e caratterizzata da una sostanziale indeterminatezza.
Così ad esso sono state attribuite funzioni in merito all’indirizzo politico, istituzionale e al procedimento legislativo, amministrativo e giurisdizionale[51], pur senza concedergli alcuno dei tre poteri dello Stato.
Tra i poteri che l’art. 87 gli affida vi è il tradizionale compito di rappresentare l’unità nazionale e, nell’ambito dell’indirizzo politico e istituzionale, quello di vigilare sul sistema politico affinché i rapporti e lo svolgimento delle funzioni si svolgano nel rispetto della Costituzione, potendo in caso contrario intervenire nel merito in qualità di garante della Costituzione[52].
Altra prerogativa del Presidente è quella di inviare dei messaggi alle Camere, con i quali esso esercita un potere di influenza nei confronti del potere legislativo, manifestando il proprio pensiero su determinate tematiche di rilievo e attualità, richiamandone l’attenzione. Questi messaggi possono avere carattere formale, se redatti in forma scritta e inviati alle Camere in seguito alla controfirma del Presidente del Consiglio o di un Ministro, oppure carattere informale, se rivolti a destinatari diversi dal Parlamento, ossia per far attenzionare all’opinione pubblica una fattispecie di particolare interesse, come il messaggio del Capo dello Stato di fine anno, che non necessitano di alcuna controfirma. Delle dichiarazioni informali, la maggioranza della dottrina ritiene che facciano parte anche le “esternazioni”[53], attraverso le quali il Presidente della Repubblica manifesta la propria opinione, in forma non scritta nell’esercizio delle proprie funzioni, che possono avere o meno un significato politico[54], così come l’istituto dell’Alto Patronato, con cui il Presidente presta il proprio consenso a obiettivi di iniziative ritenute particolarmente meritevoli, siano esse nazionali o manifestazioni internazionali che istituzioni estere effettuano in Italia oppure svolte all’estero su iniziativa italiana.
Il compito di indire le elezioni del Parlamento e fissare la prima riunione delle nuove Camere che saranno elette viene attribuito al Presidente della Repubblica dal terzo comma dell’art. 87 attraverso un suo decreto. Si tratta di un potere meramente formale, visto che la stessa Costituzione prevede all’art. 61 che le Camere, in seguito alle elezioni si debbano riunire entro venti giorni e poiché spetta al Consiglio dei Ministri convocare i comizi elettorali e deliberare la data della prima riunione del nuovo Parlamento[55], così come gli atti formalmente presidenziali sono anche l’indizione del referendum popolare, mera applicazione della volontà popolare e le nomine dei funzionari dello Stato deliberate dal Governo e adottate, su proposta di quest’ultimo, con decreto presidenziale.
Il Presidente, inoltre, autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa potendo rinviare al Governo l’atto per una riesamina in caso di dubbi relativi alla legittimità costituzionale o per vizi di merito, ma tale autorizzazione non può essere rifiutata così come nel caso della promulgazione delle leggi[56]. Quest’ultima prerogativa è stata frutto di un’ampia discussione in sede costituente, infatti l’art. 87 al comma 5 prevede che spetti al Capo dello Stato promulgare le leggi ed emanare i decreti aventi valore di legge e i regolamenti.
Particolarmente rilevante appare l’approvazione del costituzionalista Orlando della parola “emanazione” accostata a decreti e regolamenti, in parte contestata in Assemblea costituente, visto che fino all’entrata in vigore della Costituzione nella Gazzetta Ufficiale veniva utilizzata la formula “promulga” per i decreti legislativi.
A tal proposito il Presidente Ruini indicò che si trattava della dicitura corretta richiamando per l’appunto interpretazione del suddetto onorevole Orlando[57]. Altre obiezioni furono poste in riferimento all’abolizione del potere di sanzione, precedentemente spettante al Capo dello Stato, sostenendo che l’eliminazione di questa prerogativa avrebbe reso il potere presidenziale di promulgazione meramente formale.
Alcuni proposero addirittura che senza la sanzione sarebbe stato meglio escludere totalmente il Presidente della Repubblica dalla funzione legislativa, ma la Commissione spinse per il mantenimento dell’attuale comma, motivandolo sia con il sostanziale inutilizzo della sanzione in epoca monarchica, che con il fatto che il potere di rinvio avrebbe comunque generato un effetto di veto sospensivo dell’efficacia dell’atto, senza però includere una diretta ed effettiva partecipazione presidenziale al procedimento di formazione della volontà legislativa[58].
Pertanto il Presidente della Repubblica può rinviare alle Camere leggi sottoposte alla sua promulgazione o decreti e regolamenti per i quali viene richiesta la sua emanazione, chiedendo al Parlamento di effettuare una nuova disamina attraverso un messaggio motivato[59], ma se l’organo titolare della funzione legislativa dovesse riapprovare il medesimo testo il Capo dello Stato è tenuto a promulgarlo[60].
L’ottavo comma del medesimo articolo della Costituzione prescrive che spetti al Presidente accreditare e ricevere i rappresentanti diplomatici ed anche ratificare i trattati internazionali, per i quali in taluni casi necessita una preventiva autorizzazione del Parlamento. Tali compiti rientrano nelle succitate funzioni di rappresentanza, in questo caso in ambito internazionale, del Capo dello Stato.
Allo stesso modo risultano funzioni prettamente simboliche quelle relative al comando delle Forze armate e alla presidenza del Consiglio superiore della magistratura. Si tratta di cariche onorifiche in capo al Presidente della Repubblica, visto che non viene affidato ad esso il comando tecnico delle Forze armate, spettante al Capo di Stato maggiore generale dell’Esercito, così come il Consiglio superiore della magistratura viene nella pratica esercitata dal vicepresidente dello stesso Consiglio e il Capo dello Stato non è responsabile per qualsivoglia provvedimento emanato in qualità di presidente di tale Consiglio. Il Presidente della Repubblica presiede inoltre il Consiglio supremo di difesa, che si riunisce almeno due volte l’anno, con la possibilità di licenziare atti che non necessitano di controfirma ministeriale, in quanto tale Consiglio è composto anche da tutti i Ministri interessati e dal Presidente del Consiglio dei Ministri, oltre che dal Capo di Stato maggiore della difesa[61] e dichiara l’eventuale stato di guerra, mediante decreto presidenziale, solo in seguito ad un’apposita autorizzazione del Parlamento.
Un ragionamento a parte va, invece, fatto sul potere presidenziale di concedere la grazia e commutare le pene, che potrebbe apparire come una diretta partecipazione del Presidente della Repubblica all’amministrazione della giustizia, mentre in realtà tale potere necessita della controfirma ministeriale. Si tratta di uno dei vecchi poteri regi mantenuto all’interno dell’attuale ordinamento e prevede che tali proposte vengano presentate al Capo dello Stato dal Ministro della Giustizia, solo in seguito a parere positivo espresso dagli uffici competenti. Nel merito della questione è intervenuta anche la Corte Costituzionale che con la sentenza 200/2006 ha specificato come il riconoscimento al Presidente del potere di grazia faccia parte delle funzioni umanitarie ed equitative, in capo ad esso perché portatore dell’interesse generale proprio della comunità nazionale, senza alcuna influenza scaturente da istanze di fazione o pregiudizi ideologici[62].
Secondo l’art. 88 della Costituzione il Presidente può, sentito il parere obbligatorio ma non vincolante dei loro Presidenti, sciogliere le Camere, purché non sia negli ultimi sei mesi del proprio mandato, indicendo nuove elezioni. Ciò può avvenire in caso di grave conflitto tra i due rami del Parlamento, in caso di maggioranze opposte tra le due Camere che potrebbero causare una paralisi istituzionale o quando il Governo non abbia più la fiducia del Parlamento[63].
In quest’ultima circostanza il Capo dello Stato può, in alternativa, incaricare un nuovo soggetto di formare un Governo in grado di continuare la legislatura o rinnovare il mandato al Governo uscente, purché le Camere votino la fiducia. Particolari risultano i casi del 1994 e del 2011 in cui, rispettivamente il Presidente Oscar Luigi Scalfaro e il Presidente Giorgio Napolitano, optarono per un Governo tecnico, relegando il Governo uscente al ruolo d’opposizione. Nel secondo caso addirittura il Presidente della Repubblica, in seguito a pressioni internazionali, decise di affidare il compito di formare un nuovo Governo ad un soggetto esterno al Parlamento e totalmente estraneo alla vita politica, ossia Mario Monti, con l’obiettivo di far fronte ad una crisi economica globale.
Tale potere di scioglimento è valido anche nei confronti dei Consigli comunali che abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge, secondo il comma 1 dell’art. 126. Lo scioglimento viene adottato mediante decreto presidenziale motivato, successivo a parere di una Commissione di deputati e senatori costituita per le questioni regionali. La stessa disposizione si applica anche al caso di rimozione del Presidente della Giunta.
L’art. 89 della Costituzione disciplina che gli atti presidenziali siano validi solo se controfirmati dai ministri che li propongono e che ne assumono la responsabilità giuridica e politica, mentre tutti gli atti che hanno valore legislativo e gli altri atti eventualmente indicati dalla legge necessitano anche della controfirma del Presidente del Consiglio dei Ministri. Vengono esclusi dal regime della controfirma ministeriale gli atti cosiddetti “personalissimi” del Capo dello Stato, come le proprie dimissioni, i messaggi informali, e gli atti compiuti in qualità di Presidente del Consiglio superiore della magistratura e del Consiglio superiore di difesa.
Proprio per questo il successivo articolo della Costituzione solleva politicamente, civilmente e penalmente il Presidente della Repubblica dagli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, ad eccezione per i reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione per i quali è prevista la sua messa in stato d’accusa da parte del Parlamento in seduta comune, che deve votarla a maggioranza assoluta dei suoi componenti e il successivo giudizio da parte della Corte Costituzionale[64]. La terminologia “alto tradimento” indica un comportamento doloso, che leda la personalità nazionale ed internazionale dello Stato, sinonimo di violazione da parte del Presidente della Repubblica del dovere di fedeltà espresso durante il giuramento che dà vita al proprio mandato, mentre per “attentato alla Costituzione” si intende un comportamento intenzionale, volto a sovvertire le istituzioni costituzionali o, in generale, violare la Costituzione, come l’ipotesi di tentativo di colpo di Stato o accordarsi con uno Stato estero per sovvertire la forma costituzionale nazionale[65]. Vengono così escluse tutte le violazioni involontarie compiute dal Presidente della Repubblica e la sua firma di qualsivoglia atto legislativo che dovesse successivamente essere dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale.
Si può comunque ritenere che nel caso in cui il Capo dello Stato commettesse una grave violazione costituzionale, colposamente o meno, egli dovrebbe farsi temporaneamente sostituire dal Presidente del Senato o, in casi estremi, rassegnare le proprie dimissioni. A maggior ragione le dimissioni dovrebbero essere rassegnate nei casi di accusa di alto tradimento o attentato alla Costituzione, in quanto il solo sospetto lederebbe in modo incontrovertibile il Presidente, a meno che esso non possa senza problemi dimostrare in maniera inconfutabile l’infondatezza dell’accusa. In questo caso potrebbe essere temporaneamente sostituito dal Presidente del Senato, a causa del forzato impedimento[66].
Nella storia repubblicana, comunque, nessun Presidente è mai stato messo formalmente in stato d’accusa o destituito, anche se in talune occasioni l’ipotesi è stata vicina a concretizzarsi[67].
In particolare nel 1978 quando il Presidente Leone si dimise dopo essere stato coinvolto nello scandalo Lockheed e l’annuncio del partito comunista di voler avviare la procedura per la messa in stato d’accusa e nel 1992 quando il Presidente Cossiga rassegnò le proprie dimissioni a poche settimane dalla scadenza della carica, in seguito alla dichiarazione del Pds di porlo in stato d’accusa.
Più recentemente, nel 2014, il Movimento 5 Stelle ha presentato istanza d’accusa nei confronti del Presidente Napolitano, archiviata dal Comitato parlamentare per la messa in stato d’accusa ancor prima di essere sottoposta la voto del Parlamento in seduta comune perché ritenuta “manifestamente infondata”.
Da ultimo, nel 2018, sempre il Movimento 5 Stelle aveva tentato di presentare istanza d’accusa, nei fatti poi mai avviata, nei confronti del Presidente Mattarella, per il mancato “gradimento” di un ministro proposto per la formazione del nuovo governo[68].
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La responsabilità del Capo dello Stato
6.1. La responsabilità istituzionale e diffusa
La concezione del Presidente come organo totalmente estraneo alle dinamiche politiche comincia ad essere vista con perplessità all’indomani dell’insediamento al Quirinale, nel 1955, di Giovanni Gronchi. Il settennato di Gronchi, in effetti, apre le porte ad una tendenziale ingerenza del Capo dello Stato nella formazione dell’indirizzo politico. Celebri, sotto questo aspetto, rimangono le già ricordate sollecitazioni di Gronchi all’attuazione di istituti fino ad allora esistenti soltanto “sulla carta”, come la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura e l’ordinamento regionale[69]. Di certo il quadro appena descritto è sintomo – o, se vogliamo, diretta conseguenza – di un’ulteriore evoluzione del ruolo costituzionale del Presidente della Repubblica, cui la dottrina comincia ad attribuire una «funzione di indirizzo politico generale o costituzionale, finalizzata dunque al perseguimento dei fini espressamente o implicitamente previsti dalla Costituzione e consistente non solo nel potere di stimolarne l’attuazione»[70], ma anche – seppur in via indiretta – di predisporre,in un certo senso, il terreno su cui, in seguito, il Legislatore dovrà operare.
È evidente, qui, il superamento della dottrina costituzionalistica in voga nei primissimi anni del centrismo: il ruolo del Presidente della Repubblica non può più andare incontro ad alcuna commisurazione col Capo dello Stato descritto dalla teoria di Constant, venendo ora alla luce ulteriori facoltà presidenziali non esplicitate dalla Carta, ma al contempo non esorbitanti i limiti delle attribuzioni costituzionali.
In altre parole, se prima i tratti del ruolo del Presidente erano stati delineati sulla base di un’interpretazione restrittiva delle norme costituzionali – al punto da escludere ogni altra forma di responsabilità che non fosse quella giuridico-penale di cui all’art. 90 – a partire dalla Presidenza Gronchi si insinua il dubbio che la politicizzazione della figura del Presidente della Repubblica non possa dare seguito alla fisiologica attribuzione di una responsabilità sullo stesso piano.
L’idea che alla responsabilità per atti funzionali ex art. 90 Cost. si aggiunga – in via interpretativa – una responsabilità di carattere politico ha provocato qualche scintilla negli ambienti della dottrina. La posizione di chi – fedele alla vecchia impostazione – sostiene la necessità di mantenere viva l’irresponsabilità politica di un Presidente che, in fondo, «non può far male perché non può far niente»[71], si scontra con il principio per cui – e qui sta il punto – all’esercizio di un potere deve necessariamente seguire una responsabilità[72].
Quanto appena detto pare concretizzarsi durante il settennato di Sandro Pertini, durante il quale il costante ricorso al potere di esternazione – di cui Pertini fu noto utilizzatore – sembra fare strada ad un ampliamento del ruolo del Capo dello Stato, visto ora come figura rappresentativa ed unificatrice dei valori nazionali. Conseguenza del superamento della iniziale funzione meramente “notarile” del Presidente non può che essere l’apertura di un ulteriore vulnus, a livello di responsabilità politica, tale da determinare l’ampliamento del settore di controllo esercitato dall’opinione pubblica.
Si apre qui un’ulteriore questione, già prospettata in uno dei primissimi studi sul tema della responsabilità del Presidente della Repubblica[73].
Si mette in evidenza, qui, come il fatto che l’atto presidenziale – fosse anche una semplice esternazione – abbia, certe volte, raggiunto i palazzi della politica non debba portare alla conclusione che vi fosse – oltre alla classica responsabilità per alto tradimento e attentato alla Costituzione –una seconda responsabilità di carattere politico-istituzionale. Non è però neanche il caso di escludere che gli atti del Presidente eventualmente pervasi da un fumus politico non debbano tenere aperta quantomeno la via della responsabilità politica diffusa. Si intende, con tale accezione, l’esposizione del Presidente al fuoco della pubblica critica, che, secondo Rescigno, è più o meno accentuata quanto più palese sia l’impronta politica che il Presidente ha dato alla propria condotta istituzionale. Detto in altri termini, «è solo a condizione che il Presidente non eserciti un proprio indirizzo politico o si faccia portavoce di istanze politiche che può affermarsi il mito della imparzialità e della neutralità del Capo dello Stato e la sua conseguente irresponsabilità politica»[74].
È indubbio che la responsabilità del Presidente della Repubblica – pur alla luce dell’allargamento degli orizzonti entro i quali viene esercitato il ruolo presidenziale – presenta una qualificazione giuridica laddove si rientri nella fattispecie di cui all’art. 90, dove cioè è il diritto a sancire una precisa forma di responsabilità, per gli atti compiuti nell’esercizio delle proprie funzioni. Più difficile appare l’inquadramento giuridico della responsabilità politica – e di conseguenza della responsabilità diffusa – dal momento che tali forme di responsabilità non sono oggetto di chiare determinazioni normative da parte della legge e – tantomeno – della Costituzione.
Il diritto, cioè, non stabilisce i fatti che determinano la responsabilità politica – intesa qui in entrambe le accezioni di responsabilità politico-istituzionale e di responsabilità politico- diffusa – né le conseguenze che possano derivare dal verificarsi di quei fatti. Ne deriva che l’essenza della responsabilità politica non va ricercata lungo le vie del diritto positivo, che conducono invece alla dimora della responsabilità giuridica, a presidio della quale troviamo regole ben precise. La responsabilità politica – e ancor più quella diffusa – costituisce un genere a sé stante, che si sviluppa secondo logiche e meccanismi di stampo squisitamente politico[75]. Il ruolo del diritto è qui marginale: è mero strumento di ricognizione esterna della responsabilità, la cui sostanza, tuttavia, non è qui che trova fondamento.
6.2. L’irresponsabilità giuridica come eccezione
L’art. 90 della Costituzione riguarda il profilo della responsabilità giuridica del Capo dello Stato, la quale si differenzia dal profilo già esaminato della responsabilità politica, al punto che, per meglio distinguere, in dottrina c’è chi fa riferimento alla prima con la denominazione alternativa di «immunità in senso lato»[76].
Il primo comma stabilisce che «il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione».
Sono due i principali orientamenti riguardanti il suddetto articolo: la responsabilità come regola secondo l’uno, la responsabilità come eccezione secondo l’altro.
La prima tesi stabilisce che l’irresponsabilità del Capo dello Stato per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni costituisce un’eccezione al principio generale della responsabilità presidenziale, pertanto le due ipotesi di alto tradimento ed attentato alla Costituzione costituiscono un momento di ripristino della regola comune[77].
Di segno opposto è la seconda tesi, in base alla quale la norma di eccezione sarebbe costituita dalla previsione di una responsabilità per alto tradimento e attentato, mentre l’irresponsabilità resterebbe la regola, o in quanto connessa alla posizione dell’organo, o come espressione di un principio generale valido per tutti gli organi costituzionali[78].
La tesi della responsabilità come regola pare decisamente più accettabile, in quanto da ritenersi maggiormente in sintonia col principio democratico, il quale di certo non tollera l’esistenza di soggetti immuni alla legge[79].
Decisiva sembra poi la circostanza per cui, in sede di Assemblea Costituente, non si parlò di irresponsabilità bensì di responsabilità del Presidente, della quale semmai erano da definire la natura ed i limiti[80].
Dalla norma in esame sembra derivare che il Capo dello Stato non può essere chiamato a rispondere sul piano giuridico – penale, in particolare – qualora la propria attività venga esplicata all’interno dei confini delle proprie attribuzioni costituzionali. Confini entro i quali, dunque, l’unica condotta presidenziale suscettibile di ripristinare la responsabilità giuridica è quella che dia seguito all’integrazione delle fattispecie di alto tradimento ed attentato alla Costituzione.
In questo caso, l’unico meccanismo idoneo a perseguire legittimamente la responsabilità presidenziale è la messa in stato di accusa davanti al Parlamento in seduta comune, cui fa seguito l’eventuale giudizio di fronte alla Corte Costituzionale[81].
Sebbene la Costituzione nulla dica sul punto, al di fuori di questi confini la garanzia di cui all’art. 90 Cost. non opera, venendosi dunque a ristabilire la regola generale della responsabilità, in virtù della quale il Capo dello Stato soggiace allo stesso regime che regola il rapporto tra l’autorità giudiziaria ed i cittadini comuni[82].
Mettendo da parte qualsiasi considerazione inerente alla concezione dell’immunità – o irresponsabilità giuridica – presidenziale che avevano i Padri Costituenti – che come abbiamo visto erano tutto fuorché propensi a fare dell’irresponsabilità la regola generale – lo stesso Legislatore, con la legge n. 20/1962[83], pare aver decretato il prevalere della prima tesi sulla seconda.
Si ricava infatti, dalla suddetta legge, che ben potrebbe presentarsi l’occasione di instaurare un procedimento penale a carico del Capo dello Stato o, in generale, che esso sia già pendente, facendo poi dei precisi riferimenti all’autorità giudiziaria ordinaria e addirittura a quella militare[84].
La legge del ’62 richiama persino l’ipotesi di un vero e proprio conflitto di competenza tra la Commissione parlamentare inquirente e l’autorità giudiziaria, dove cioè la prima ritenga il capo di imputazione assimilabile alla fattispecie di cui agli articoli 90 e 96 della Costituzione, mentre la seconda rivendichi invece la competenza come propria[85].
Sembra chiaro, dunque, che al di fuori delle proprie attribuzioni costituzionali, il Presidente debba rispondere di eventuali reati comuni nelle stesse modalità dei privati cittadini.
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Considerazioni finali
A questo punto, si è giunti al termine del percorso che, prendendo origine dai lavori dell’Assemblea Costituente, ha condotto ad una riflessione ricostruttiva del ruolo e della figura del Presidente della Repubblica.
Nell’assetto odierno, il Presidente ha posto in essere comportamenti che concretizzano il presunto indirizzo politico costituzionale oppure la sua azione è stata diretta a facilitare e coadiuvare l’azione politica delle istituzioni ad essa espressamente preposte? Larga parte della dottrina sottolinea come appaia realmente arduo trovare risposte soddisfacenti se ci si limita ad un ballottaggio tra le due definizioni maggiormente inflazionate di Capo dello Stato poichè entrambe le soluzioni conservano notevoli criticità: seguendo “la teoria della garanzia, si può arrivare a sostenere che qualsiasi atto del Capo dello Stato è legittimo o comunque “coperto” dalla funzione di custodia della Costituzione; a seguire la teoria dell’indirizzo politico (con o senza aggettivazione) si scopre il nervo di atti presidenziali ai confini, se non al di là, delle regole costituzionali”[86].
La teoria del Presidente della Repubblica si trova così a fare i conti da un lato con un dettato costituzionale “a maglie larghe”, dall’altro con la prassi degli “inquilini del Colle”: da questo binomio emerge una figura complessa e polifunzionale che “viene a contatto con tutti i poteri dello Stato (secondo la loro tradizionale qualificazione) e, allo stesso tempo, con la comunità governata (specie, ma non solo, a mezzo delle sue esternazioni)”[87].
Vi sono comunque alcune convenzioni interpretative sul ruolo del Presidente della Repubblica e della sua collocazione nella forma di governo parlamentare diametralmente condivise; innanzitutto l’idea che tra poteri del Presidente e sistema politico esista una relazione di proporzonalità inversa, nel senso che gli uni vengono ad allargarsi in seguito alla crisi degli altri.
In secondo luogo l’idea che la sempre crescente difficoltà nell’elezione della figura presidenziale non sia da rapportare ai più o meno complessi equilibri politici, ma si ponga in relazione alla sempre più diffusa consapevolezza dello specifico plusvalore racchiuso nella carica presidenziale che si configura ormai come una guida politica riconosciuta dai cittadini e dalla maggior parte delle forze politiche.
Secondo taluni autori il ruolo del Capo dello Stato potrebbe “essere definito ‘iper- politico’: nel significato etimologico di potere ‘al di sopra’ della politica e, quindi, ‘più’ politico di ogni altro potere; nonché di potere ‘in favore’, ‘a vantaggio’, ‘per la salvezza’ della πολις”[88].
In ragione tanto dell’ampiezza delle valutazioni presidenziali (di legittimità e, soprattutto, di ‘merito’, anche se inteso come ‘merito costituzionale’), quanto della quantità e della qualità di relazioni che intercorrono tra il Quirinale, le forze politiche e sociali, le altre istituzioni, nazionali e internazionali, il Paese intero, ecc…, egli appare totalmente immerso nella ‘politica’, intesa come governo a tutto tondo della res publica, che la sua posizione costituzionale finisce per identificarsi con essa.
A dispetto di fredde e astratte interpretazioni costituzionali[89], che tendono a separare il piano dell’indirizzo politico e quello della garanzia, appare del tutto reale e vivente l’immagine del Capo dello Stato che s’identifica con e custodisce la ’politica’ del Paese: tanto che diventa impossibile non considerarlo tra le componenti strutturali della nostra forma di governo”[90].
Si configura a questo punto uno snodo fondamentale del ragionamento: per comprendere realmente la legittimazione e il ruolo del Presidente della Repubblica è necessario muovere dalla posizione di quest’ultimo all’interno del sistema costituzionale. Essa può essere definita valorizzando l’articolo 87 della Costituzione ovvero la norma sul ruolo di rappresentanza dell’unità nazionale[91].
Tale ruolo presidenziale non deve restare circoscritto entro i termini di contingenze storiche emergenziali[92] ma assume il carattere diffuso e continuativo, esteso ad ogni comportamento del Capo dello Stato.
L’unità nazionale[93] rappresenta al contempo il fine che muove ogni attività presidenziale, la fonte della sua legittimazione e il metro per valutare la compatibilità costituzionale dei mezzi di volta in volta prescelti. “Gli strumenti funzionali alla custodia dell’unità nazionale sono nella disponibilità del Capo dello Stato, la scelta è rimessa al suo prudente apprezzamento e, infine, il giudizio sui singoli atti prescelti va svolto per relationem, ossia con riferimento all’obiettivo dell’unità nazionale”[94].
Si può dire quindi che il Presidente della Repubblica in Italia sia ancora il supremo e indiscusso garante dell’ordinamento? certamente, ma solo se si abbraccia un’idea più ampia di garanzia, che non si limita a porre in essere un controllo costituzionale sugli atti, ma si adopera quotidianamente per il raggiungimento di una razionalizzazione del funzionamento del circuito democratico. Sappiamo bene quanto ciò comporti, in un contesto come quello odierno, lacerato dalla instabilità e dalla conflittualità esasperata tra i diversi schieramenti, scelte forti, prese di posizione che non lasciano indifferenti e che attirano critiche e dissapori.
Nondimeno l’appartenenza delle funzioni del Presidente della Repubblica al potere esecutivo non significa che al Capo dello Stato competa di svolgere un’attività di indirizzo politico governativo andando quindi a contrapporsi alla forma di governo parlamentare recepita dalla Costituzione e di cui il Presidente è garante. Certo è che, anche se l’obbligo della controfirma ministeriale riduce notevolmente l’ampiezza della discrezionalità del Presidente della Repubblica, non può negarsi che egli sia abilitato a svolgere una propria attività politica, quando esercita le funzioni per le quali ha un più o meno ampio margine di discrezionalità. E ciò soprattutto per funzioni rilevanti per la vita delle istituzioni costituzionali, come quelle relative alla risoluzione delle crisi di governo o allo scioglimento del Parlamento. Tale attività non può essere però ricondotta a quello che è stato definito da Barile “l’indirizzo politico costituzionale”: in primo luogo, sul piano delle scelte politico costituzionali, esso dovrebbe corrispondere all’indirizzo politico di governo o a quello maggioritario, avendo tutti il medesimo fine di attuazione della Costituzione; inoltre tale concetto risulta indeterminato e inadatto per distinguere le funzioni del Presidente da quelle di qualsiasi altro organo di sistema, in quanto tutti sono soggetti all’osservanza della Costituzione.
I limiti del potere presidenziale sono individuabili nello stesso sistema parlamentare nel quale il Presidente opera: nello svolgimento delle attività politiche deve indirizzare i suoi comportamenti in modo da non turbare l’equilibrio che si è concretato nella forma di governo approvata dal Parlamento, come pure deve tenere sempre di vista la maggioranza che si è creata nell’ambito parlamentare, oppure deve rendersi interprete della effettiva, possibile maggioranza parlamentare, come avviene nel procedimento di formazione del Governo.
Quando poi il suo intervento sugli atti degli altri organi viene giustificato con l’esigenza di salvaguardare l’osservanza della Costituzione, esso non può essere ispirato da finalità diverse se non quelle di fare adeguare l’azione degli altri organi alla Costituzione, restando quindi escluso ogni tentativo di voler realizzare uno specifico, autonomo indirizzo politico presidenziale[95].
Note
[1] Scriveva Guarino, “il Presidente della Repubblica si pone come un quarto potere soggettivamente autonomo, estraneo alla funzione di governo. Giacché indipendente dalle parti e dagli altri poteri, è anche al di sopra delle parti e degli altri poteri. Egli è il capo dello Stato e a lui sono conferite le attribuzioni che richiedono la presenza dello Stato nella sua maestà ed unità. Ed ogni volta che l’ordinamento ha bisogno di una scelta o di un comportamento indipendente, si ricorre di nuovo al presidente, la cui intera figura è costruita per l’imparzialità”. Cfr. GUARINO G., Il Presidente della Repubblica italiana. Note preliminari, in Riv. trim. dir. pubbl., 1951, p. 965.
[2] ESPOSITO C., Diritto costituzionale vivente. Capo dello Stato ed altri saggi, Milano, 1992. Secondo l’autore, la legittimità dei poteri straordinari del Capo dello Stato, è condizionata al verificarsi di un presupposto oggettivo certo e incontestabile, cioè la materiale impossibilità di funzionamento degli altri organi costituzionali, in particolare del Parlamento e del Governo che gode della fiducia del Parlamento. Stante questo presupposto, Esposito ammette uno slittamento delle competenze di questi organi in capo al Presidente della Repubblica al quale resta comunque preclusa la possibilità di adottare decisioni contrarie alla Costituzione. Il Capo dello Stato nel momento in cui deve sostituirsi a Parlamento e Governo può compiere unicamente gli atti di competenza di tali organi. Questa ultima conclusione per la verità è incerta sia perchè Esposito non ha mai affermato questo punto in maniera esplicita sia perchè non valuta il fatto che il Parlamento è investito legittimamente del potere di revisione costituzionale. Si potrebbe così affermare che anche il Presidente, in situazioni di gravi crisi, potrebbe esercitare il medesimo potere. In tal modo tornerebbe ad affiorare la tesi classica del Capo dello Stato che in momenti di crisi può adottare tutti i provvedimenti necessari a ristabilire la normalità. In definitiva il tentativo di Esposito di legittimare i poteri eccezionali del capo dello Stato è solo apparentemente più garantista di tutti gli altri tentativi che pretendono di regolare il anticipo quello che invece per sua diretta natura non sopporta regole pre costituite. Certo è che, di fatto, il Capo dello Stato, proprio in quanto preposto alla funzione di garante dell’unità e continuità dello stato, si trova nella posizione più idonea ad acquisire potei extra ordinem nel caso di crisi generale dello Stato ma non è possibile far rientrare all’interno della trattazione giuridica poteri e libertà ulteriori rispetto a quelli regolarti dalla Costituzione.
[3] Per un’analitica ricostruzione dell’evoluzione della figura del Capo dello Stato, si rinvia a GALEOTTI S., La posizione costituzionale del Presidente della Repubblica, in Il Presidente della Repubblica garante della Costituzione, Giuffrè, Milano, 1992, pp. 1-76. In particolare, l’autore rileva che “…la realtà ed il fatto di una trasformazione di notevole rilievo nella posizione di forza del Capo dello Stato, comparata a quella del precedente ordinamento statutario, varranno anche a convincere dell’erroneità di una svalutazione dell’istituto, quale potrebbe essere suggerita da una affrettata, e non riposata, considerazione”.
[4] ASSEMBLEA COSTITUENTE, Relazione al progetto di Costituzione della Repubblica italiana, Meuccio Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione, 6 febbraio 1947. legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/ddl/00Anc.pdf
[5] Sosteneva Galeotti, in uno studio del 1949, che «dire che il Presidente della Repubblica è, nel nostro ordinamento “guardiano o tutore della Costituzione”, secondo la terminologia ricorrente nel linguaggio dei nostri costituenti, non è semplicemente esprimere un attributo, con cui si tenti di conferire alla nuova istanza, repubblicana e democratica, una parte almeno di quell’aureola prestigiosa e maiestatica, di che l’immaginazione politica era solita rivestire il Capo dello Stato nelle monarchie; ma è soprattutto rilevare, con termini forse lievemente immaginosi, e pur racchiudendosi in un’indubbia significazione giuridica, la giuridica funzione che si incentra nell’organo». Cfr. GALEOTTI S., La posizione costituzionale del Presidente della Repubblica, Milano, pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, 1949, p. 36
[6] ASSEMBLEA COSTITUENTE, Relazione al progetto di Costituzione della Repubblica italiana, Meuccio Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione, 6 febbraio 1947. legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/ddl/00Anc.pdf
[7] ASSEMBLEA COSTITUENTE, Seduta pomeridiana di martedì 16 settembre 1947, Gaspare Ambrosini, p. 221. legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/Assemblea/sed220/sed220nc.pdf
[8] Letteralmente: “Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”.
[9] Secondo Kelsen, la custodia della Costituzione poteva essere meglio svolta dalla Corte Costituzionale, ma ciò non significava escludere il Capo dello Stato, simbolo vivente dell’autorità, dall’esercizio di questa funzione: “Si tratta di vedere solo se è più indipendente e neutrale un siffatto tribunale o il Capo dello stato…..Ora nessuno negherà che egli sia anche questo, che funzioni da garante della Costituzione accanto alla Corte costituzionale…Dichiarare unico custode della Costituzione il presidente del Reich contraddice alle più chiare disposizioni costituzionali”. Cfr. KELSEN H., Wer soll der Hüter der Verfassung sein?, in trad.it., in GERACI C., La giustizia costituzionale, Giuffrè, Milano, 1981, pp. 280-281. Kelsen controbatte alla tesi di Schmitt non per negare che anche il Capo dello Stato possa essere custode della Costituzione, ma per sottolineare che anche la Corte lo sia.
[10] ASSEMBLEA COSTITUENTE, Seduta pomeridiana di mercoledì 22 ottobre 1947, Lodovico Sforza Benvenuti, pp. 1441-1443. legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/Assemblea/sed268/sed268nc.pdf
[11] GERVASONI M., Le armate del presidente: La politica del Quirinale nell’Italia repubblicana, Marsilio Editori, Venezia, 2015, pp. 15 e ss.
[12] ASSEMBLEA COSTITUENTE, Seduta di lunedì 10 marzo 1947, Vittorio Emanuele Orlando, pp. 1934 – 1939. legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/Assemblea/sed056/sed056nc.pdf
[13] ASSEMBLEA COSTITUENTE, Seduta antimeridiana di giovedì 23 ottobre 1947, Meuccio Ruini, pp. 1465 – 1468. legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/Assemblea/sed269/sed269nc.pdf
[14] MASTROPAOLO A., Dualismo rimosso. La funzione del Presidente della Repubblica nella forma di governo parlamentare italiana, in Rivista AIC n°4/2013, pp. 10 e ss.
[15] GALEOTTI S., Il Presidente della Repubblica garante della Costituzione, Giuffrè editore, Milano, 1992, pp. 241
[16] Essendo, tuttavia, l’attività del Capo dello Stato svolta nel rispetto di oggettivi criteri costituzionali vincolanti, è da escludere che si possa parlare di attività politica. E’ la Costituzione a stabilire, in via preventiva, il fine dell’atto politico e – al tempo stesso – il suo fondamento. La Costituzione ha tracciato due principali livelli di politicità degli atti: un primo livello – quello superiore – riguarda la tenuta complessiva dell’ordinamento; un secondo livello attiene invece alla dinamica particolare delle scelte di governo. Ciò spiega perché l’attività politica del Presidente della Repubblica non può dirsi libera, essendo essa incanalata nel processo di realizzazione di un quadro generale di cui la Costituzione ha già delineato i contorni e le peculiarità. Sul punto si veda CRISAFULLI V., Le norme programmatiche della Costituzione, in CRISAFULLI V., La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Giuffrè, Milano, 1952, p. 69, secondo cui «le norme costituzionali programmatiche rappresentano la fissazione, nella Costituzione dello Stato, di determinate direttive politiche, che avrebbero potuto anche, in ipotesi, essere stabilite di volta in volta dagli organi competenti, ma anche per la loro importanza, sono state sottratte ad ogni eventuale oscillazione e mutamento di criteri degli organi stessi. Sono, cioè un indirizzo politico tradotto in termini di norme costituzionali, quindi istituzionalmente stabilito a premessa ed a limite delle direttive che saranno concretamente adottate dalla maggioranza parlamentare e dal governo da questa promanante».
[17] Nel senso di organizzare i ministri come membri di un comitato esecutivo dell’Assemblea legislativa e limitare il Capo dello Stato ad una mera funzione dichiarativa e rappresentativa, senza alcun potere di ingerenza nelle vicende dello Stato.
[18] Questa interpretazione del ruolo costituzionale del Presidente della Repubblica è stata proposta da Serio Galeotti.
[19] GALEOTTI S., La posizione costituzionale del Presidente della Repubblica, Milano, pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, 1949, p. 36.
[20] GALEOTTI S., La posizione costituzionale del Presidente della Repubblica, cit., pp. 36- 37.
[21] La dottrina ha, in effetti, da sempre affrontato la questione della figura e del ruolo del Presidente della Repubblica in termini ampiamente problematici sia perchè si trattava di un istituto nuovo, rispetto al quale non poteva essere d’aiuto l’esperienza statutaria prefascista, sia perché avrebbe dovuto essere la prassi a “riempire gli spazi bianchi” lasciati dalla disciplina costituzionale dell’istituto.
[22] CRISAFULLI V., Aspetti problematici del sistema parlamentare vigente in Italia, in Studi in onore di Crosa, I, Milano, Giuffrè, 1960, pag. 36, l’autore parlò, con riferimento a questo effetto inibitorio dei principi costituzionali, di “funzione neutralizzatrice della Costituzione”.
[23] ROSSI S., La presidenza Ciampi nel segno del patriottismo costituzionale, in Forum di Quaderni Costituzionali, www.forumcostituzionale.it, 2006.
[24] BARTOLE S., La politica comunitaria del Presidente della Repubblica, in Forum di Quaderni Costituzionali, www.forumcostituzionale.it, 2002.
[25] ROSSI S., La Presidenza Ciampi nel segno del patriottismo costituzionale, cit., p. 6.
[26] Sul punto, la sentenza della Corte costituzionale n. 1/2013 riprende le argomentazioni già sviluppate nella sentenza n. 200/2006 in cui, nel punto 7.1. del considerato in diritto, il Capo dello Stato viene definito “quale organo super partes, ‘rappresentante dell’unità nazionale’, estraneo a quello che viene definito il ‘circuito’ dell’indirizzo politico-governativo”
[27] ARMAROLI P., L’elezione del Presidente della Repubblica in Italia, Cedam, Padova, 1977, pp. 110 e ss.
[28] MORTATI C., Ispirazione democratica della Costituzione, in AA.VV., Il secondo risorgimento. Nel decennale della resistenza e del ritorno alla democrazia (1945-1955), Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1955, pp. 434 e ss.
[29] ARMAROLI P., L’elezione del Presidente della Repubblica in Italia, Cedam, Padova, 1977, pp. 110 e ss.
[30] CIAURRO L., DI CIOLO V., Il diritto parlamentare nella teoria e nella pratica, Giuffrè, Milano, 2013, p. 857.
[31] Questo criterio è stato qualificato dai Costituenti con la previsione di una particolare maggioranza: i due terzi degli aventi diritto al voto nei primi tre scrutini, la maggioranza assoluta a partire dal quarto scrutinio, resa necessaria dall’esigenza pratica di addivenire ad un’elezione anche in presenza di contrasti. Tale obbligo imposto al Parlamento racchiude l’esigenza che il Capo dello Stato sia “l’espressione di qualcosa di più ampio e, in un certo senso, di più elevato di una coalizione di maggioranza”. Sul punto si veda BALDASSARRE A., MEZZANOTTE C., Gli uomini del Quirinale. Da De Nicola a Pertini, Laterza, Bari, 1985, p. 12. Gli autori, con riferimento al metodo di elezione, rilevano come “l’unità nazionale, massimamente rappresentata dal Presidente della Repubblica, non era diretta a configurare qualcosa di ontologicamente superiore e di assolutamente oppositivo, ma piuttosto un polo problematico, un’istanza di attenuata dialettica e di riflessione, la cui base legittimante fosse parzialmente diversa e, comunque, più ampia di quella propria della maggioranza”
[32] CIAURRO L., DI CIOLO V., Il diritto parlamentare nella teoria e nella pratica, Giuffrè, Milano, 2013, p. 857.
[33] COMITATO NAZIONALE PER LA CELEBRAZIONE DEL PRIMO DECENNALE DELLA PROMULGAZIONE DELLA COSTITUZIONE, I precedenti storici della Costituzione (studi e lavori preparatori), Giuffrè editore, Milano, 1958, pp. 234 e ss.
[34] ASSEMBLEA COSTITUENTE, Seduta pomeridiana di mercoledì 22 ottobre 1947, Giuseppe Fuschini, p. 1431. legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/Assemblea/sed268/sed268nc.pdf
[35] ARMAROLI P., L’elezione del Presidente della Repubblica in Italia, cit., p. 271.
[36] CONSALES B., Compendio di diritto costituzionale e amministrativo, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna (RN), 2010, p. 213.
[37] ARMAROLI P., L’elezione del Presidente della Repubblica in Italia, cit., p. 142.
[38] FALZONE V., PALERMO F., COSENTINO F., La Costituzione della Repubblica italiana, Casa Editrice Carlo Colombo, Roma, 1954, pp. 206 e ss
[39] FALZONE V., PALERMO F., COSENTINO F., La Costituzione della Repubblica italiana, cit., pp. 206 e ss
[40] LUCIFREDI R., La nuova Costituzione italiana raffrontata con lo Statuto Albertino e vista nel primo triennio di sua applicazione, Società editrice libraria, Milano, 1952, p. 74.
[41] IARICCI G.P.,Istituzioni di diritto pubblico, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna (RN), 2014, p. 251.
[42] CONSALES B., Compendio di diritto costituzionale e amministrativo, cit., pp. 213 – 214.
[43] ASSEMBLEA COSTITUENTE, Seduta pomeridiana di mercoledì 22 ottobre 1947, Epicarmo Corbino, pp. 1434 – 1436. legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/Assemblea/sed268/sed268nc.pdf
[44] CATERINO A.T. Compendio di Istituzioni di Diritto Pubblico, Primiceri Editore, Padova, 2016, pp. 123 e ss.
[45] BALDASSARRE C., Il Presidente della Repubblica nell’evoluzione della forma di Governo, in Rivista AIC, n°1/2011, pag. 6 e ss.
[46] GUARINO G., Il Presidente della Repubblica italiana, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1951, p. 959, p. 961.
[47] IARICCI G.P., Istituzioni di diritto pubblico, cit., p. 250.
[48] ARMAROLI P., L’elezione del Presidente della Repubblica in Italia, cit., pp. 393 e ss.
[49] MASTROPAOLO A., Dualismo rimosso. La funzione del Presidente della Repubblica nella forma di governo parlamentare italiana, in Rivista AIC, n°4/2013, pp. 10 e ss.
[50] CATERINO A.T., Compendio di Istituzioni di Diritto Pubblico, Primiceri Editore, Padova, 2016, pp. 123 e ss.
[51] IARICCI G.P., Istituzioni di diritto pubblico, cit., p. 254.
[52] ROLLA G., Il sistema costituzionale italiano. Vol. 1: L’organizzazione costituzionale dello Stato, Giuffrè, Milano, 2014, pp. 329 e ss
[53] MARTINES T. , Il potere di esternazione del Presidente della Repubblica, in G.SILVESTRI, La figura ed il ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano, Milano, 1985, p. 135
[54] LUCIANI M., VOLPI M., Il Presidente della Repubblica, il Mulino, Bologna, 1997, pp. 221 e ss.
[55] IARICCI G.P., Istituzioni di diritto pubblico, cit., p. 255.
[56] SCIACCA G., La funzione presidenziale di controllo sulle leggi e sugli atti equiparati, in Il Presidente della Repubblica nell’evoluzione della forma di Governo (Atti di un convegno, Roma, 26 novembre 2010), Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche Luiss Guido Carli, Aracne Editrice, Roma, 2011.
[57] ASSEMBLEA COSTITUENTE, Seduta antimeridiana di giovedì 23 ottobre 1947, Meuccio Ruini, pp. 1466 – 1467. legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/Assemblea/sed269/sed269nc.pdf
[58] Cfr., PREDIERI A., Appunti sul potere del Presidente della Repubblica di autorizzare la presentazione dei disegni di legge governativi, in Studi senesi, 3/1958, pp. 279-327; TERESI F., Appunti sul controllo presidenziale degli atti normativi, in Studi in onore di Leopoldo Elia, Giuffrè, Milano, 1999, p. 1660 e RESCIGNO G.U., Il Presidente della Repubblica: art. 87, Il Foro Italiano, Roma, 1978, pp. 200 e ss che mette in evidenza il valore pratico-politico dell’istituto: “attraverso il meccanismo previsto da questa disposizione il Presidente della Repubblica …è messo in grado di conoscere preventivamente tutte le iniziative legislative del Governo, e cioè la parte più significativa e incisiva dell’attività di Governo …ed è altresì messo in grado di consigliare il Governo con efficacia (e cioè prima) e con piena conoscenza dell’intero arco di iniziative”. Pochi mesi prima del primo diniego formale di autorizzazione da parte del Presidente Pertini, Rescigno affermava: “Oggi è pacifico che il Presidente della Repubblica non può negare l’autorizzazione…tutt’al più il Presidente della Repubblica può chiedere al Consiglio dei Ministri un riesame dell’iniziativa, facendo valere la sua autorità morale, la sua esperienza, i suoi consigli”.
[59] GIUFFRÈ F., Profili evolutivi del Presidente della Repubblica tra «garanzia passiva» e «attivismo garantista», in GIUFFRÈ F., NICOTRA I. (a cura di), Il Presidente della Repubblica: frammenti di un settennato, Giappichelli, Torino, 2012, pp. 2 e ss.
[60] BOZZI A., Note sul rinvio presidenziale della legge, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 4/1958, p. 750
[61] IARICCI G.P., Istituzioni di diritto pubblico, cit., p. 257.
[62] GIUFFRÈ F., Profili evolutivi del Presidente della Repubblica tra «garanzia passiva» e «attivismo garantista», in GIUFFRÈ F., NICOTRA I. (a cura di), Il Presidente della Repubblica: frammenti di un settennato, cit., p. 4.
[63] CONSALES B., Compendio di diritto costituzionale e amministrativo, cit., pp. 220 e ss.
[64] GALEOTTI S., PEZZINI B., Il Presidente della Repubblica nella Costituzione Italiana, UTET Università, Torino, pp. 417 e ss.
[65] IARICCI G.P., Istituzioni di diritto pubblico, cit., pp. 264 – 265.
[66] ELIA L., Il Presidente iracondo ed i limiti della sua responsabilità, in Giurisprudenza Costituzionale, 2004, p. 1611.
[67] Cfr RESCIGNO G.U., Trasformazioni e problemi della responsabilità politica oggi, in AZZARITI G. (a cura di) La responsabilità politica nell’era del maggioritario e nella crisi della statualità, Torino, 2005, p. 15.
[68] La richiesta di messa in stato d’accusa per l’inquilino del Colle arriva dopo la decisione del Capo dello Stato di dire no al nome di Paolo Savona come nuovo ministro dell’Economia e quindi la remissione dell’incarico da parte di Giuseppe Conte, ipotetico premier del primo governo M5s-Lega. Tuttavia, la questione fu superata qualche giorno più tardi con l’incarico a Savona di Ministro degli Affari Esteri. Noti costituzionalisti avevano evidenziato come la procedura ex art. 90 Cost. non fosse comunque percorribile. Secondo l’ex Presidente della Corte Costituzionale, Ugo De Siervo, in una nota stampa ha ribadito come “è molto grave anche solo ipotizzare una cosa del genere. La messa in stato d’accusa può essere per alto tradimento, e chiaramente non è questo il caso, e per attentato alla Costituzione. Certamente applicare la Costituzione non è attentare alla Costituzione, anzi, è intimidatorio verso chi deve far rispettare la Costituzione dire che la sua lettura non solo è sbagliata ma addirittura costituisce un reato” . Tornando all’articolo 90, nel testo si legge che “Il Presidente non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento e attentato alla Costituzione. In tali casi è messo sotto stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi membri.” Il Capo dello Stato, dunque, può essere giudicato solo qualora ci siano violazioni della Costituzione tali da stravolgere i caratteri essenziali dell’ordinamento, e sovvertirlo con metodi non consentiti dalla Carta. Nel caso in specie, il Presidente della Repubblica ha esercitato scrupolosamente le prerogative previste dalla Costituzione e, più specificatamente, dall’art. 92 Cost. Conseguentemente, come evidenziato dal costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, “non è un notaio che asseconda muto. È piuttosto un partner che può e deve intervenire per far valere ciò che gli spetta come dovere istituzionale. Il presidente ha tutte le possibilità (in passato ampiamente esercitate) per far valere i poteri che gli spettano. Se egli accettasse a scatola chiusa ciò che gli viene messo davanti, si creerebbe un precedente verso il potere diretto e immediato dei partiti, un’umiliazione di Parlamento e presidente della Repubblica, una partitocrazia finora mai vista”. ROMANO A., ZITELLI A., Il “veto” di Mattarella e l’annuncio di impeachment. Cosa dicono i costituzionalisti, in https://www.valigiablu.it/mattarella-crisi-impeachment-costituzione/
[69] Esigenze manifestate in occasione del discorso di insediamento pronunciato davanti al Parlamento in seduta comune, l’11 maggio 1955.
[70] BARILE P. I poteri del Presidente della Repubblica, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, 1958, p. 307 ss.
[71] CUOCOLO F., Lezioni di diritto pubblico, Milano, Giuffrè, 2006, p. 328.
[72] Si fa riferimento alla frase «con c’è infatti responsabilità senza libertà di autodeterminazione, cioè senza potere» in BARILE P., CHELI E., GRASSI S., Istituzioni di diritto pubblico, Padova, Cedam, 1996, p. 338. Quanto detto sopra se ne ricava in via indiretta.
[73] RESCIGNO G. U., La responsabilità politica, Milano, Giuffrè, 1967.
[74] RESCIGNO G.U., La responsabilità politica, cit., p. 209.
[75] PIGNATELLI N., La responsabilità politica del Presidente della Repubblica tra valore storico e “inattualità” costituzionale della controfirma ministeriale, n. 2, in http://www.forumcostituzionale.it
[76] Espressione proposta da PIZZORUSSO A., Dissonanze e incomprensioni tra la concezione penalistica e la concezione costituzionalistica delle immunità parlamentari, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, Milano, Giuffrè, 1984, p. 566 ss.
[77] CARLASSARE L., Art. 90, in BRANCA G., PIZZORUSSO A. (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna, Zannichelli, 1983, p. 149.
A sostegno di questa tesi sembra poi utile un riferimento a quanto sostenuto da CRISAFULLI V., Aspetti problematici del sistema parlamentare vigente in Italia, in Studi in onore di Crosa, I, Milano, Giuffrè, 1960, pag. 617, nota 18: «non vi ha dubbio che, nella realtà storica, le norme limitatrici della responsabilità sono sempre state considerate, quasi intuitivamente, altrettante deroghe ai principi del diritto comune, per la tutela di esigenze politiche ritenute, a torno o a ragione, indeclinabili».
[78] Tesi sostenuta da GUARINO G., Il Presidente della Repubblica italiana, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, 1951, p. 917-918; CROSA E., Gli organi costituzionali e il Presidente della Repubblica nella Costituzione italiana, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, 1951, p. 95 ss.
[79] Opposta è la tesi di CROSA E. , secondo cui nemmeno una chiara e univoca intenzione dei Costituenti nel senso della normale responsabilità verrebbe contro la necessità logico- sistematica di ricavare un’interpretazione in armonia con la regola generale dell’irresponsabilità, valida necessariamente anche per tutti i casi costituzionalmente non contemplati.
[80] In questo senso DOMINEDÒ F. M., Saggio sul potere presidenziale, in Studi sulla Costituzione, vol. III, a cura del «Comitato per la celebrazione del I° decennio della promulgazione della Costituzione», Milano, 1958.
[81] SPERTI A., La responsabilità del Presidente della Repubblica. Evoluzioni e recenti interpretazioni, Torino, 2010, p. 134
[82] Perlomeno è questa la tesi prevalente, benché vi sia una parte minoritaria della dottrina propensa ad accogliere la tesi di un’immunità estesa anche agli eventuali reati comuni del Presidente.
[83] I cui primi sedici articoli sono stati abrogati dall’art. 8 della legge n. 170/1978, che tuttavia ne ha confermato in contenuti, seppur con una dizione più sintetica.
[84] Nello specifico, l’art. 14 prevedeva la possibilità, da parte del Parlamento in seduta comune (o Commissione inquirente), di dichiarare la propria incompetenza e trasmettere gli atti all’autorità giudiziaria nel caso in cui i fatti rilevati fossero diversi dalle fattispecie previste dagli art. 90-96 Cost. L’art. 12, poi, fa chiaramente riferimento all’ipotesi in cui il PM abbia intrapreso l’azione penale contro uno dei soggetti indicati negli art. 90-96 Cost. (compreso dunque il Presidente della Republica), ipotizzando un caso diverso da quello espresso dagli art. 9-10, in cui si trova sancito il dovere del PM di trasmettere gli atti al Parlamento qualora l’imputazione sia di alto tradimento o attentato alla Costituzione. Il che dimostra che l’art. 12 faceva riferimento all’ipotesi di imputazioni diverse da quelle di cui all’art. 90 della Costituzione.
[85] Nell’eventualità di tale conflitto la legge prevede la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, affinché sia essa a decidere circa la titolarità della competenza.
[86] MORRONE A., Il Presidente della Repubblica in trasformazione, Vol. 1, in http://www.associazionedeicostituzionalisti.it; A ben vedere, nel contesto odierno, le istituzioni tutte riscontrano una sempre crescente difficoltà nel muoversi correttamente la forma di governo parlamentare, e la problematica razionalizzazione del ruolo presidenziale ne è una conferma.
[87] RUGGERI A., Evoluzione del sistema politico-istituzionale e ruolo del Presidente della Repubblica, Introduzione all’incontro di studio, dall’omonimo titolo, svoltosi a Messina e Siracusa il 19 e 20 novembre 2010 ; per questo l’autore afferma che “tornare a fare oggetto di osservazione il ruolo del Presidente della Repubblica è come riguardare l’intero assetto istituzionale da un peculiare, particolarmente illuminante, angolo visuale”.
[88] FUSARO C., Il presidente della Repubblica in Italia. Originaria (e inesorabile?) ambiguità di un tutore che può tutto e niente, in http://www.carlofusaro.it, 13 marzo 2014.
[89] Si tratta di modelli presidenziali di riferimento dell’Assemblea costituente. La dottrina italiana ha poi ripreso e rielaborato sia la teoria del Presidente della Repubblica quale potere neutro e organo di controllo e garanzia costituzionale sia, con Esposito, la teoria del Capo dello Stato come “custode della Costituzione” e “reggitore dello Stato nei momenti di crisi”. Appare utile ricordare che la ricostruzione di Esposito venne assunta in un periodo particolare del concreto svolgimento costituzionale della Repubblica, quando si andava affermando la teoria dell’indirizzo politico costituzionale, sulla scia dell’attivismo gronchiano e dell’istituzione della Corte costituzionale, come sottolinea anche GALLIANI D., Il Capo dello Stato e le leggi, Giuffrè, Milano, 2011, p. XXXIV. In particolare, nel corso della Presidenza Gronchi, è stata elaborata dalla dottrina la teoria che fa del Capo dello Stato il titolare della funzione di “indirizzo politico costituzionale”: mentre le teorie sopra citate vedono nel Capo dello Stato il garante della Costituzione (in via ordinaria la prima tesi, in via d’eccezione la seconda), la teoria dell’indirizzo politico costituzionale privilegia la funzione di impulso in ordine all’attuazione dei valori costituzionali. Questa teoria si collega alle proposte “presidenzialistiche”, elaborata per primo da Piero Calamandrei in Assemblea costituente, che tendevano a definire il Capo dello Stato come l’organo principale dell’iniziativa e dell’indirizzo costituzionale. Lo stesso Calamandrei, commentando positivamente il discorso di insediamento del Presidente Gronchi, identificò quest’ultimo come la “viva vox Constitutionis”. Cfr. BARILE P., I poteri del Presidente della Repubblica, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2/1958, pp. 297 ss. La modellistica assai complessa e variegata della figura presidenziale conferma l’ambiguità e la contraddittorietà con cui è stato disegnato l’istituto del Capo dello Stato nell’ordinamento costituzionale e, al contempo, rappresenta un importante sforzo di razionalizzazione dell’istituto.
[90] MORRONE A., Il Presidente della Repubblica in trasformazione, in associazionedeicostituzio nalisti.it, 2011, p. 6.
[91] CARAVITA ritiene non idoneo il Presidente della Repubblica nello svolgimento di tale delicato compito. “La democrazia italiana è rimasta oggi, nel panorama delle grandi democrazie europee, l’unica a non aver scelto un motore unificante del sistema politico: non il Presidente della Repubblica, come nei modelli presidenziali o semipresidenziali; non il Capo dell’Esecutivo, come nei parlamentarismi maggioritari, in primis nei numerosi modelli istituzionali in cui è rimasto un Capo di stato monarchico, al quale – in un assetto democratico – viene attribuita la mera rappresentanza simbolica dell’unità nazionale, sostanzialmente sprovvista di strumenti di intervento”. CARAVITA B., Il Presidente della repubblica nell’evoluzione della forma di governo: i poteri di nomina e scioglimento delle Camere, in http://www.federalismi.it, Napoli, 2011, p. 15.
[92] vedi tesi del Presidente della Repubblica come reggitore dello Stato in Esposito.
[93] BALDASSARRE A., MEZZANOTTE C., Gli uomini del Quirinale. Da De Nicola a Pertini, cit., pp. 23-24. Secondo gli Autori la preminenza del Capo dello Stato significa centralità sul piano funzionale rispetto al funzionamento ed agli equilibri del sistema costituzionale, cioè in relazione al rapporto fra i vari poteri dello Stato (forma di governo) e tra tali poteri e l’intera comunità nazionale (forma di Stato). Gli autori in Il Presidente della Repubblica fra unità maggioritaria e unità nazionale, in Quaderni Costituzionali, 1/1985, articolo datato ma ancora attuale, sottolineano come si è venuta puntualizzando sul Capo dello Stato una domanda di riunificazione del sistema di governo intorno ai valori, poiché lo sviluppo del pluralismo ha portato alla riaffermazione dell’unità del sistema rendendo attuale il “radicamento storico” dei valori costituzionali. L’unità nazionale di cui si fa portavoce il Presidente della Repubblica, collocato in una posizione di autonomia costituzionale ed estraneo al circuito fiduciario, non corrisponde all’unità della maggioranza (“un minimo di autonomia costituzionale è necessario anche per consentire al Presidente di adempiere ad un compito di unificazione su un piano diverso e più alto da quello sul quale opera il principio di maggioranza”), ma neanche si oppone ad essa (del tipo “totalità dell’unità statale contro parzialità della maggioranza”).
[94] MORRONE A., Il Presidente della Repubblica in trasformazione, cit, p. 8
[95] FURLAN F., Presidente della Repubblica e politiche di sicurezza internazionale tra diarchia e garanzia, Giuffrè, Milano, 2013, pp. 74 e ss.
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