L’intollerabilità della convivenza si manifesta quando non si ha più voglia di vivere insieme ed è il presupposto per la separazione dei coniugi, siano presenti oppure non lo siano dei comportamenti che inducano a chiedere una separazione con addebito.
Il concetto del vivere insieme, è stato interpretato diverse volte come un desiderio di comunione reciproca che supera la semplice coabitazione imposta ai coniugi dall’articolo 143 del codice civile.
Se si considera la volontà del legislatore, espressa con la legge n. 76/2016, di dare rilevanza giuridica al fatto stesso del convivere, con la previsione della possibilità di accedere ai contratti di convivenza a due maggiorenni che coabitano e hanno tra loro un rapporto affettivo, purché non abbiano vincoli di parentela, affinità, adozione, matrimonio o unione civile.
L’articolo 151 del codice civile
In seguito alla riforma del diritto di famiglia con la legge 19 maggio 1975 n. 151, la norma relativa è stata modificata per arrivare all’intollerabilità della convivenza.
L’articolo 151 del codice civile cambia in modo radicale, passando dall’elencazione di fatti che ammettevano alla richiesta di separazione per volontario abbandono, eccessi, sevizie, minacce o ingiurie, a un’impostazione che, dalla parità dei diritti e dei doveri nel matrimonio, fa derivare un approccio di carattere soggettivo legando alla disaffezione e al distacco spirituale le motivazioni della possibile richiesta di separazione.
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Intollerabilità della convivenza e valenza oggettiva e soggettiva
Si tratta di un cambiamento profondo che trasforma la separazione da circostanza che puniva le violazioni degli obblighi matrimoniali, con il principio espresso della colpa, a un piano legato al rapporto di coppia.
Anche la dottrina e la giurisprudenza con l’andare del tempo hanno accettato il passaggio da tesi che si basavano sul rispetto a un interesse superiore della famiglia, a quelle che sostengono che la separazione sia un mezzo di realizzazione individuale che permette di liberarsi di un legame che non è più possibile sopportare.
La Suprema Corte di Cassazione, sezione I civile, nella sentenza 227472012 , ha stabilito che l’intollerabilità della convivenza non presuppone sempre un contrasto che deriva dalle volontà di entrambi i coniugi ma si può configurare anche quando una delle parti sia arrivata a ritenere impossibile vivere insieme.
La stessa pronuncia esprime la sua utilità ricostruendo i due diversi approcci verso la configurazione dell’intollerabilità.
All’inizio l’orientamento prevalente considerava oggettiva l’intollerabilità della convivenza, mentre in concezioni più flessibili, individuava nei “fattori gravi, reiterati e protratti nel tempo”, la causa del deterioramento dei rapporti tra i coniugi.
In presenza di simili circostanze, non risulterebbe sufficiente la volontà di uno dei coniugi di separarsi ma si dovrebbe valutare la presenza di elementi obiettivi che giustifichino la volontà di interrompere il matrimonio rispetto a una comune valutazione sociale.
L’’approccio oggettivo al principio assume come parametro “l’uomo medio” e non la sensibilità del singolo soggetto richiedente.
Reato di evasione per chi si lascia il domicilio
La sentenza di condanna a due mesi e venti giorni di reclusione per il ricorrente agli arresti domiciliari accusato di evasione per essere andato dai Carabinieri e avere chiesto di preferire il carcere alla convivenza litigiosa con la moglie è stata annullata senza rinvio.
La decisione appartiene alla Suprema Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 36518/2020 contro quella con la quale il giudice dell’impugnazione ha riformato parzialmente la sentenza di primo grado e, ritenendo prevalenti le circostanze attenuanti generiche rispetto alla recidiva, ha ridotto a due mesi e venti giorni la pena della reclusione inflitta al ricorrente, condannato per il reato di evasione.
Il ricorso e i relativi motivi
Il ricorrente decide di ricorrere contro la decisione del giudice di Appello lamentando due motivi.
Con il primo motivo sostiene di non essersi allontano dalla sua abitazione con la volontà di sottrarsi al controllo delle autorità.
Dichiara si essersi presentato in modo spontaneo presso la Caserma dei Carabinieri, lontana poche centinaia di metri da casa sua, manifestando la volontà di non voler stare a casa con la moglie, a causa di un litigio.
Con il secondo motivo contesta il rigetto della richiesta di applicazione della causa di non punibilità prevista dall’articolo 131 bis del codice penale.
La decisione impugnata non ha considerato la scarsa intensità del dolo e dell’offesa arrecata con la suo comportamento e si è basata in modo esclusivo sul fatto incerto dell’arbitrarietà del suo comportamento nel decidere di recarsi presso la Caserma dei Carabinieri.
La decisione della Suprema Corte di Cassazione
La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 3651872020 ha annullato senza rinvio la decisione impugnata perché il fatto, a causa della sua tenuità, non è punibile ai sensi dell’articolo 131 bis del codice penale.
In relazione al primo motivo, gli Ermellini lo ritengono infondato perché “integra il reato di evasione il comportamento di volontario allontanamento dal luogo di restrizione domiciliare e di presentazione presso la stazione dei Carabinieri ancorché per chiedere di essere ricondotto in carcere, in quanto il dolo generico del reato richiede la mera consapevolezza e volontà di allontanarsi dal domicilio.”
In relazione al caso particolare nel quale l’imputato si allontani dal domicilio per andare in Caserma e fare presente di voler rientrare in carcere, adducendo l’insostenibilità della convivenza con i propri familiari, la Cassazione, dopo avere illustrato due opposti orientamenti, dichiara di aderire a quello maggioritario secondo il quale “il dolo del reato di evasione per abbandono del luogo degli arresti domiciliari è generico, essendo necessaria e sufficiente – in assenza di autorizzazione – la volontà di allontanamento nella consapevolezza del provvedimento restrittivo a proprio carico, non rivestendo alcuna importanza lo scopo che l’agente si propone con la sua azione.”
Fondato invece per la Cassazione il secondo motivo, se solo si considerano le modalità con cui si è svolta l’evasione. Dalla sentenza si evince infatti, senza che siano necessari ulteriori accertamenti, la non abitualità e la minima offensività della condotta di evasione per la breve durata dell’allontanamento e per il fatto che il soggetto ha lasciato l’abitazione in cui era agli arresti al solo scopo di sottoporsi al controllo diretto delle forze di polizia.
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