La pregiudiziale amministrativa
La regola della c.d. “pregiudiziale amministrativa” è stata definitivamente superata con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 104 del 2010 il cui art. 30, comma 3, prevedeche l’azione di condanna al risarcimento del danno sia proponibile in via autonoma (comma 1) entro il termine decadenziale di centoventi giorni, decorrenti dal giorno in cui il fatto si è verificato, ovvero dalla conoscenza del provvedimento, se il danno deriva direttamente da questo (comma 3, primo periodo).
La norma, da leggere in combinato disposto con il comma 4 dell’art. 7 c.p.a. fissa in termini inequivoci la sfera di autonomia, sul versante processuale, della domanda di risarcimento rispetto al rimedio impugnatorio.
Ciò posto, già l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sent. 3/2011) ha avuto modo di statuire con chiarezza che l’omessa attivazione degli strumenti di tutela, contemplati espressamente dall’ordinamento a protezione delle posizioni di interesse legittimo – nel caso in cui si dimostri, in particolare, che il rimedio impugnatorio, se esperito nel termine, avrebbe impedito la consolidazione di effetti dannosi – costituisca, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, elemento da valutare alla stregua del canone di buona fede (art. 1175 cod. civ.) e del principio di solidarietà (art. 2 Cost.), ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza.
L’art. 30 c.p.a.
In altri termini la logica sottesa all’art. 30, comma 3, ult. periodo, c.p.a., individua nell’omessa impugnazione del provvedimento lesivo non più una preclusione di rito, ma una condotta da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile (cfr. Cons. Stato, IV, 13 aprile 2016, n. 1459).
E’ una impostazione logica coerente con il disposto dell’art. 1227 del codice civile, in base al quale non sono pienamente risarcibili i danni, aggravati da una concorrente colpa del danneggiato, fino all’esclusione da qualsiasi risarcimento per i danni (ulteriori) che lo stesso danneggiato ha prodotto con la propria negligente condotta.
Ora, il “comportamento processuale diligente” del danneggiato (o del creditore, stante l’applicabilità della norma tanto nel campo delle obbligazioni contrattuali quanto nell’ambito dell’illecito aquiliano, ai sensi dell’art. 2056, comma 1, cod. civ.), può formare oggetto di una valutazione articolata in due momenti:
-il primo, volto a stabilire se il comportamento processuale che in concreto è mancato (poiché il danneggiato ha agito soltanto per il risarcimento) sarebbe stato causalmente idoneo a diminuire o ad escludere il danno;
-il secondo, diretto a verificare se tale comportamento sia esigibile ovvero ecceda i limiti del più che apprezzabile sacrificio.
Il primo accertamento attiene al nesso di causalità e si configura alla stregua di “giudizio prognostico di tipo controfattuale” (giudizio ipotetico), diretto a verificare se una determinata condotta omissiva (azione di annullamento mai esperita o esperita, ma divenuta inammissibile o improcedibile) avrebbe evitato il danno.
L’accertamento ha carattere probabilistico, dovendo valutarsi se – sulla base dei dati disponibili e dei fatti accertati dal Giudicante, nonché di una prognosi fondata sul criterio del “più probabile che non” – una o più delle voci di danno, per il risarcimento delle quali il danneggiato agisce, sarebbe stata evitata ovvero sarebbe stata di entità minore, nel caso in cui la domanda di annullamento fosse stata tempestivamente proposta dal medesimo. In tal senso, può ipotizzarsi il caso in cui l’omessa impugnazione del provvedimento si collochi in un momento in cui l’atto impugnabile (ma non impugnato) aveva già prodotto effetti in tutto o in parte irreversibili, con conseguente impossibilità per l’interessato di impedire il verificarsi di danni ormai prodottisi.
Avuto riguardo al secondo momento (valutazione della diligenza) – che introduce un valutazione logicamente posteriore a quella che afferisce al nesso causale e alla evitabilità del danno tramite l’azione processuale demolitoria, può osservarsi che non opera un automatismo tra omessa impugnazione e configurazione di comportamento negligente: e, inoltre, l’esclusione del risarcimento dei danni non investe automaticamente “tutti i danni evitabili” tramite l’esperimento degli strumenti di tutela previsti (azione di annullamento), ma “solo quei danni evitabili con l’ordinaria diligenza”, della quale possono costituire espressione anche gli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento giuridico. Infine, date le circostanze del caso concreto e tenuto conto delle condizioni anche soggettive delle parti, la proposizione della domanda di annullamento può essere però valutata, nel caso qui esaminato, come atto non esigibile, in quanto implicante un sacrificio eccessivo.
La diligenza
La nozione di diligenza rilevante ai fini dell’art. 1227 c.c., si fonda infatti, secondo la giurisprudenza, sulle clausole generali della buona fede (art. 1375 cod. civ.) e delle correttezza (art. 1175 cod. civ. e 2 Cos.t) le quali impongono al Giudice di valutare molteplici e variabili profili, che soltanto la vicenda concreta può far emergere quali, a titolo esemplificativo: il decorso del tempo, la professionalità del debitore e del creditore, l’aleatorietà del risultato, i costi e gli affidamenti creati dal funzionario pubblico.
In definitiva, si configura conforme al generale paradigma aquiliano di cui all’art. 2043 cod. civ. la fattispecie in cui siano ravvisabili: a) un provvedimento che ha illegittimamente statuito sull’interesse pretensivo della parte privata negandone il soddisfacimento; b) un danno economico per perdite subite (corrispondente ai costi progettuali, amministrativi e professionali inutilmente sostenuti; c) un nesso di causalità tra il primo ed il secondo, sul quale non può ritenersi che possa avere inciso, con effetto escludente dell’ammontare risarcitorio, l’omessa sperimentazione degli strumenti di tutela previsti (comma 3, ult. periodo, art. 30 cit.), sulla base di quanto sopra ampiamente esposto.
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