Il premierato: come cambia la forma di governo. Analisi

Sara Fabiani 04/10/24

Con il disegno di legge di revisione costituzionale si dispone, tra le altre cose, l’elezione diretta del Capo del Governo, al fine di dare maggiore stabilità all’Esecutivo e di ottenere, pertanto, “Governi di legislatura” (cioè, Governi che restino in carica per tutta la durata delle Camere).
Ciò che, di primo acchito, risulta evidente, è il fatto che, introducendo un elemento di tipo presidenziale, come l’elezione diretta del Primo Ministro, non si dà soltanto luogo ad una razionalizzazione della forma di governo parlamentare (cioè, non si introduce solamente un meccanismo per avere una maggiore governabilità), ma un cambiamento del suo assetto che, se non fosse per l’assenza del principio “aut simul stabunt aut simul cadent” (di cui si parlerà in seguito), la rende molto simile alla forma di governo adottata dallo Stato di Israele dal 1992 al 2001.
Attraverso l’elezione di diritto del Presidente del Consiglio, si vorrebbe ricreare quella stabilità, governabilità ed efficienza decisionale tipiche della forma di governo parlamentare con funzionamento maggioritario, caratterizzata da un bipolarismo perfetto e, a volte, addirittura da un bipartitismo; l’esempio più classico è il Regno Unito, in cui si parla di elezione di fatto del Premier.
In questi sistemi, alle elezioni politiche si presentano due partiti, o due coalizioni di partiti, con un preciso programma di governo e con la persona che, in caso di vittoria, andrà a ricoprire la carica di Primo Ministro; in genere, il leader del partito o della coalizione di partiti.
Anche l’Italia ha conosciuto, durante la seconda Repubblica, una fase di bipolarismo, con due coalizioni contrapposte (una di centro destra e l’altra di centro sinistra), ma il funzionamento della forma di governo è stato solo tendenzialmente maggioritario, lungi dal ricalcare la falsa riga del Regno Unito. Tale esperienza, iniziata nel 1994, cominciò a venir meno con le elezioni del 2013, per poi tramontare con quelle del 2018. La nostra Costituzione è aperta sia ad un funzionamento di tipo maggioritario della forma di governo, sia ad un funzionamento non maggioritario; esiste, infatti, un legame stretto tra forma di governo, sistema politico e legge elettorale, per cui, andando a modificare uno di questi elementi, si ha una diretta influenza sul funzionamento degli altri due. È su questo punto che si inserisce la riforma costituzionale oggetto di questo studio, come meglio si dirà qui di seguito.

Indice

1. Elezione diretta del Presidente del Consiglio e premio di maggioranza


L’articolo 3 del disegno di legge di revisione costituzionale, oggetto di questa disamina, va ad abrogare espressamente l’articolo 92, comma terzo della Costituzione, stabilendo che il Presidente del Consiglio sia eletto a suffragio universale e diretto, duri in carica cinque anni e che le elezioni delle Due Camere e del Presidente del Consiglio avvengano contestualmente. Contemporaneamente, viene disposto che il Capo del Governo sia eletto nella Camera in cui ha presentato la sua candidatura ed il sistema elettorale venga disciplinato con legge, secondo i princìpi di rappresentatività e governabilità ed in modo tale che sia assegnato un premio, su base nazionale, che garantisca il 55 per cento dei seggi, in ciascuna delle due Camere, alle liste ed ai candidati collegati al Presidente del Consiglio. Quindi, il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio eletto l’incarico di formare il Governo e nomina, su proposta di questo, i ministri.
Viene, inoltre, sostituito il terzo comma dell’articolo 94 della Costituzione e si dispone che, entro dieci giorni dalla sua formazione, il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Se la mozione di fiducia al Governo non viene approvata, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio eletto e, qualora anche in quest’ultimo caso, il Governo non ottiene la fiducia delle due Camere, il Capo dello Stato procede al loro scioglimento.
Tralasciando, per il momento, il ridimensionamento del ruolo del Presidente della Repubblica, del quale si dirà in seguito, risulta “icto oculi” evidente la mancanza, nel nuovo scenario che si profila, del meccanismo di raccordo Governo-Parlamento “aut simul stabunt aut simul cadent”, previsto nella forma di governo adottata dallo Stato di Israele dal 1992 al 2001 e per il quale i due organi sono sempre eletti contemporaneamente: il Primo Ministro può sciogliere il Parlamento, ma in questo caso deve rassegnare le dimissioni e, dal canto suo, il Parlamento può sfiduciare il Governo, ma è sciolto automaticamente.
L’assenza di questo meccanismo, con la contestuale introduzione per il Presidente della Repubblica dell’obbligo di sciogliere le Camere, qualora il Governo, al secondo tentativo, non ottenga la fiducia ed, ancora, con la previsione di un premio di maggioranza molto elevato per le liste collegate al Presidente del Consiglio eletto, dànno un’idea della volontà di razionalizzare la forma di governo, al fine di porre rimedio all’instabilità politica, in virtù di un principio di governabilità che, nelle intenzioni del legislatore, porterebbe a Governi, così detti, di legislatura (che rimangono in carica, cioè, per l’intero mandato elettorale delle Camere).
Il Parlamento ne esce, senz’altro, ridimensionato. Infatti, tra i due organi costituzionali Governo e Parlamento, entrambi diretta espressione della volontà popolare, non c’è un raccordo connotato da mutualità: o il Parlamento vota la fiducia al Governo, quanto meno in seconda battuta, oppure viene eletto un nuovo Parlamento; esso, però, non può, in sostanza, far cadere il Governo.
Per evitare l’”impasse” in cui si andrebbe a trovare il sistema se il Presidente del Consiglio ed il Parlamento fossero espressione di due maggioranze diverse, viene prevista l’assegnazione di un premio di maggioranza, su base nazionale, del 55 per cento dei seggi alle liste ed ai candidati collegati al Presidente del Consiglio eletto, in ciascuna delle due Camere. Siffatto premio non viene attribuito, pertanto, al partito che abbia ottenuto più voti rispetto agli altri, ad esempio, ma alle liste ed ai candidati per il fatto stesso di essere collegati al Premier eletto.
Chi scrive avanza qualche dubbio, nel caso in cui altre liste abbiano ottenuto un maggior numero di voti rispetto a quella od a quelle collegate con il Presidente del Consiglio eletto; in questo contesto, attribuendo un premio di maggioranza così elevato alla lista collegata al Premier eletto, rispetto a quella che, nella competizione elettorale, abbia ottenuto più voti rispetto alle altre, si andrebbe, forse, a non tenere nella dovuta considerazione, fino in fondo, la volontà del corpo elettorale che si è espressa in un determinato senso.

2. Il rapporto di fiducia Governo-Parlamento; sfiducia e questione di fiducia


Il Governo è composto dal Presidente del Consiglio dei Ministri, dai ministri che insieme formano il Consiglio dei ministri.
Ai sensi dell’articolo 95 della Costituzione, il presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile e mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri.
Il Presidente del Consiglio dirige la politica generale del Governo, ma essa viene determinata dal Consiglio dei Ministri, in accordo con la maggioranza parlamentare che sostiene il Governo. Con l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio, verrebbero a mutare gli equilibri tra gli organi del Governo a vantaggio del Premier, il quale, detenendo una fortissima legittimazione popolare, non solo dirigerebbe la politica generale del Governo, ma acquisirebbe un peso notevole nel determinarla. Egli può, infatti, contare anche su di una solida maggioranza parlamentare, per via del premio del 55 per cento dei seggi, assegnato alle liste ed ai candidati a lui collegati ed è forte del fatto che il Parlamento che non votasse la fiducia al Governo o lo sfiduciasse, verrebbe sciolto.
In questo contesto, che ruolo avrebbero la questione di fiducia e la mozione di sfiducia?
Bisogna premettere che, in caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio, il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o ad un altro parlamentare che sia stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per ottenere le dichiarazioni relative all’indirizzo politico ed agli impegni programmatici, su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia. Qualora il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere, come previsto dall’articolo 4 del disegno di legge in oggetto.
La ragion d’essere della previsione normativa è, evidentemente, quella di evitare i così detti ribaltoni e far sì che il programma, su cui il Governo ha ottenuto la fiducia, sia portato a termine.
Ciò premesso, per quanto concerne la mozione parlamentare di sfiducia, essa è il meccanismo con cui il Parlamento costringe il Governo a presentare le proprie dimissioni al Presidente della Repubblica.
Nel nuovo sistema, la mozione di sfiducia avrebbe, sicuramente, un campo di azione più limitato; infatti, se approvata, il Parlamento costringerebbe, pur sempre, alle dimissioni il Governo, ma ai sensi della nuova formulazione dell’articolo 94, testé riportata, il Parlamento, qualora non votasse la fiducia al Governo del Presidente del Consiglio subentrante, verrebbe sciolto. Va da sé che la sfiducia, come meccanismo per costringere il Governo a dare le dimissioni, potrebbe rivelarsi, per il Parlamento, un’arma a doppio taglio.
Per quanto concerne la questione di fiducia, invece, ad opinione di chi scrive, il suo uso potrebbe rafforzarsi. Nel vigente sistema, il Governo pone la questione di fiducia su di un provvedimento che dovrà essere, poi, approvato dal Parlamento; ad esempio, su di un progetto di legge di iniziativa governativa.
Nel porre la questione di fiducia, il Governo mette il Parlamento di fronte ad un bivio: o il Parlamento (meglio: la maggioranza che sostiene il Governo) approva il provvedimento, sul quale è stata posta la questione di fiducia, oppure il Governo è giuridicamente obbligato a presentare le proprie dimissioni al Capo dello Stato, aprendo, così, una crisi di Governo parlamentare, con il rischio che, se non si rinviene una maggioranza in grado di sostenere un nuovo Governo, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere.
Dunque, attraverso la questione di fiducia, il Governo esercita una sorta di pressione sul Parlamento, la quale si accentuerebbe, secondo chi scrive, nel nuovo sistema, là dove il rischio che il Parlamento venga sciolto, in caso di dimissioni del Presidente del Consiglio, è, senza ombra di dubbio, molto più elevato. Infatti, ai sensi della nuova formulazione dell’art. 94 della Costituzione, come sopra spiegato, in mancanza della fiducia al Governo del Presidente del Consiglio subentrante, il Capo dello Stato procede allo scioglimento delle Camere.

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3. Ridimensionamento del ruolo del Capo dello Stato


Nel vigente sistema, il ruolo del Presidente della Repubblica è assai complesso e dipende molto dalla stabilità del sistema politico e, quindi, dal funzionamento della forma di governo.
I poteri del Capo dello Stato, che vengono in rilievo in questo contesto, sono la nomina del Governo e lo scioglimento delle Camere.
Per quanto concerne il potere di nomina, è evidente che se si è di fronte ad un sistema politico stabile, con due partiti o due coalizioni di partiti (bipolarismo) che alle elezioni presentano, ognuna, il proprio programma di Governo e la persona che, in caso di vittoria, andrà a ricoprire il ruolo di Presidente del Consiglio e, dunque, si mette in grado il corpo elettorale di dare una precisa indicazione di governo, il Presidente della Repubblica avrà poteri assai più limitati nella scelta del soggetto a cui affidare l’incarico di formare il  Governo: in buona sostanza, egli prenderà atto dell’indicazione del corpo elettorale ed incaricherà, in genere, la persona a capo del partito o della coalizione che ha vinto le elezioni.
Invece, se vi è instabilità e frammentazione politica, con l’esistenza di molti partiti, i quali non formano coalizioni pre-elettorali, ma gli accordi per formare una maggioranza vengono presi dopo le elezioni, va da sé che i poteri del Presidente della Repubblica si espandono in maniera considerevole, in quanto egli dovrà, attraverso le consultazioni, trovare una personalità in grado di formare un Governo capace di ottenere la fiducia delle due Camere. In questo caso, infatti, è assente una chiara e precisa indicazione del corpo elettorale.
Per quanto concerne il potere di scioglimento delle Camere, anche in questo caso, in un sistema politico più stabile, come il bipolarismo, in caso di crisi di Governo, ben potrebbe aversi che il Presidente del Consiglio proponga al Capo dello Stato di sciogliere anticipatamente le Camere e tornare alle urne, in un’ottica di rispetto del voto popolare che ha dato una chiara e precisa indicazione di Governo, come sopra spiegato e che il Capo dello Stato proceda in questo senso.
Nel caso in cui, invece, ci si trovi di fronte ad una realtà politica connotata da instabilità e frammentarietà, il Presidente della Repubblica valuta la possibilità dell’esistenza di una maggioranza che sia in grado di accordare la fiducia ad un nuovo Governo e, solo in caso contrario, procede allo scioglimento delle Camere, il quale rappresenta, pertanto, una “extrema ratio”.
La Costituzione italiana è aperta ad entrambi i tipi di funzionamento della forma di governo parlamentare, riservando il potere di nomina del Governo e di scioglimento anticipato delle Camere al Capo dello Stato. Si ritiene che l’esercizio di questi poteri dia luogo ad atti così detti complessi, nei quali convergono, cioè, sia la volontà del Governo, sia quella del Presidente della Repubblica e che, come spiegato sopra, il potere di quest’ultimo si espanda o si contragga, a seconda della stabilità del sistema politico.
In un’ottica “antiribaltone”, si inserisce la riforma costituzionale, oggetto di questo studio, la quale va a limitare considerevolmente i poteri del Presidente della Repubblica. Infatti, per quanto concerne il potere di nomina del Governo, la riforma, all’articolo 3 (che va a modificare l’articolo 92 della Costituzione), stabilisce che il Presidente della Repubblica conferisca l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio eletto; si badi bene che la norma chiama già “Presidente del Consiglio” la persona eletta dal corpo elettorale.
L’articolo 3 prosegue, stabilendo che il Presidente della Repubblica nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, i ministri. Tenuto conto, da un lato, della elezione diretta del Presidente del Consiglio e, quindi, della sua grande legittimazione politica e, dall’altro, del premio di maggioranza del 55 per cento alle liste ed ai candidati collegati al Presidente del consiglio eletto e, dunque, sull’ampia maggioranza su cui quest’ultimo può contare in Parlamento, non risulta esserci molto spazio per il Capo dello Stato con riguardo alla nomina dei ministri proposti dal Presidente del Consiglio.
Per quanto riguarda lo scioglimento anticipato delle Camere, il Presidente della Repubblica ha l’obbligo giuridico di procedervi, ai sensi dell’articolo 94 della Costituzione, così come modificato dall’articolo 4 del progetto di legge, se, al secondo tentativo, il Governo non ottiene la fiducia del Parlamento. Inoltre, nel caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio, se il Presidente del Consiglio subentrante non ottiene la fiducia delle due Camere, il Capo dello Stato procede al loro scioglimento.
Dunque, i poteri di nomina del Governo e di scioglimento anticipato delle Camere, da atti complessi, ove convergono da un lato la volontà del Presidente della Repubblica e, dall’altro, quella del Governo, divengono espressione di una funzione formale, per così dire, da parte del Capo dello Stato, il quale prende atto di una determinata situazione e fa quello che la Costituzione gli dice di fare in quel caso. E’ palese la differenza con il sistema ancora vigente, nel quale, come spiegato, il Presidente della Repubblica ha margini più meno ampi di discrezionalità (l’ampiezza dipendendo, come già visto, dalla stabilità o meno del sistema politico).

4. Conclusioni


In conclusione, possiamo affermare che la riforma in questione abbia come obiettivo principale che i Governi durino in carica per l’intera legislatura, affinché possa venire attuato l’intero programma politico su cui si è, tramite il voto, pronunciato il corpo elettorale, in un’ottica antiribaltone e senza poteri sostanziali in capo al Presidente della Repubblica.
Data la instabilità politica che ha sempre connotato il nostro Paese, anche negli anni del bipolarismo e dovuta ad una marcata eterogeneità della società, si è voluto intervenire “a valle” per ottenere un effetto “a monte”, per così dire. Infatti, introducendo l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, gli si conferisce una fortissima legittimazione politica e di conseguenza si avrà un Governo forte, sostenuto da un’ampia maggioranza parlamentare, in considerazione del premio di cui si è ampiamente parlato sopra. Quello a cui mira il legislatore è raggiungere la stessa stabilità politica del Regno Unito, dove, si badi bene, però, il corpo elettorale non elegge direttamente il Premier, ma dà una indicazione di fatto sulla sua elezione e sul programma di governo.
Esiste, come riteneva il celebre costituzionalista francese Maurice Duverger, un legame assai stretto tra legge elettorale, sistema politico e funzionamento della forma di Governo, tale che, ove si vada a modificare un elemento della triade, si ha un sicuro effetto sugli altri due. Nel nostro caso, si è dovuti intervenire giuridicamente sulla forma di governo nell’ottica di ottenere una maggiore stabilità del sistema politico e governi di lunga durata; ma se vi sarà una maggiore governabilità del Paese potrà dirlo solo l’esperienza.

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