(Ricorso dichiarato inammissibile)
[Normativa di riferimento: C.p.p. artt. 578, 630, c. 1, lett. c)]
Il fatto
Con istanza depositata in data 25 luglio 2017, veniva chiesta la revisione della sentenza con cui la Corte di appello di Genova aveva dichiarato estinto per prescrizione il reato di lesioni colpose ascrittogli, confermando le statuizioni civili disposte in primo grado, onde ottenere «il proscioglimento nel merito».
A sostegno dell’istanza, premessa l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza in ordine all’ammissibilità dell’istanza di revisione avente ad oggetto una sentenza meramente dichiarativa dell’estinzione del reato, con conferma della condanna alle statuizioni civili pronunciata in primo grado, ed argomentata la fondatezza del più recente orientamento, che ne sostiene l’ammissibilità, si indicava, come prove sopravvenute, e quindi “nuove“, le dichiarazioni che sarebbero state rese all’istante, «solo a seguito della conclusione della vicenda giudiziaria ordinaria, allorché […] si è dovuto confrontare con i familiari per affrontare le conseguenza civilistiche della condanna al risarcimento dei danni», dalla moglie G. D. e dal figlio L. M., i quali avevano asseritamente «conoscenza diretta della situazione e soprattutto erano in grado di confermare, per avere assistito ai colloqui telefonici anche in tal senso, che il direttore dei lavori, nonché responsabile della sicurezza del cantiere, R. aveva avuto contezza sin da subito della ripresa dei lavori nel cantiere, che il medesimo sapeva inoltre […] che la botola non era stata messa in sicurezza».
Il condannato, inoltre, pur avendo espressamente chiesto alla Corte d’appello la revoca delle sole statuizioni penali, non anche di quelle civili, aveva evocato, nel corpo dell’istanza, i pregiudizi asseritamente ricevuti dalla condanna alle statuizioni civili, che costituisce effetto diretto ed immediato della declaratoria di estinzione per prescrizione del reato.
La Corte d’appello, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ritenuta implicitamente l’ammissibilità in rito dell’istanza di revisione, l’aveva dichiarata inammissibile nel merito.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Contro questo provvedimento, veniva proposto ricorso per cassazione per i seguenti motivi: a) violazione dell’art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. atteso che, ad avviso del ricorrente, in accordo con l’orientamento giurisprudenziale asseritamente ormai pacifico, “prova nuova“, rilevante ai fini della revisione, non sarebbe solo quella «sopravvenuta o scoperta solo successivamente al passaggio in giudicato della sentenza», ma anche quella «che, pur esistendo al tempo del giudizio, non sarebbe stata portata alla cognizione del giudicante anche a prescindere dall’inerzia della parte»; b) violazione dell’art. 634 cod. proc. pen. giacché sarebbe stata indebita la valutazione operata in riferimento all’irrilevanza degli elementi invocati dall’instante, dovendo al contrario la Corte d’appello limitarsi, secondo il ricorrente, a valutare – e nel caso di specie riconoscere – unicamente l’astratta ammissibilità della chiesta revisione, salvo il successivo esito in concreto del giudizio di merito.
La rimessione alle Sezioni Unite
Il ricorso de quo veniva assegnato alla Quarta Sezione penale che ne disponeva la rimessione alle Sezioni Unite rilevando l’esistenza di un contrasto interpretativo in ordine all’ammissibilità dell’istanza di revisione proposta dall’imputato nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione, con conferma della condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile.
Con decreto del 6 luglio 2018, il Presidente Aggiunto, preso atto dell’esistenza e della rilevanza ai fini della decisione del contrasto giurisprudenziale ravvisato dall’ordinanza di rimessione, aveva a sua volta assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione, con le forme previste dall’art. 611 cod. proc. pen., l’odierna udienza camerale.
Le argomentazioni sostenute dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione
Con requisitoria scritta pervenuta in data 5 ottobre 2018, il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione concludeva chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso.
Si osservava, in particolare, che le “nuove prove” invocate sarebbero state palesemente inidonee ad inficiare l’accertamento dei fatti posti alla base della sentenza di condanna, e che la relativa valutazione della Corte di appello si sottraeva a censure in sede di legittimità perché fondata su motivazione adeguata e immune da vizi logici.
Con specifico riferimento alla questione controversa, si evidenziava oltre tutto la pregnanza argomentativa dell’orientamento che ritiene l’inammissibilità della revisione in difetto di una sentenza di condanna pronunciata agli effetti penali, sottolineando che le Sezioni Unite, con la sentenza Marani, avevano già ammesso che l’imputato prosciolto per prescrizione possa presentare ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen. per far valere errori materiali inerenti alla condanna alle statuizioni civili disposte in sede penale, in considerazione del fatto che, ove l’azione di risarcimento danni fosse stata proposta in sede civile, in presenza di analoghi errori sarebbe stata ammessa la revocazione della sentenza civile, ed auspicando conclusivamente «un’apertura interpretativa che tenga conto del peculiare contenuto – di affermazione della responsabilità – della sentenza emessa ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen.».
Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Prima di esaminare la questione sottoposta al loro vaglio giudiziale, le Sezioni Unite delimitavano la problematica giuridica da doversi risolvere nei seguenti termini: “Se sia ammissibile la revisione della sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione che, decidendo anche sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, condanni l’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile”.
Premesso ciò, si faceva presente come siffatto problema si ponesse sia agli effetti penali, in riferimento alla finalità di ottenere il proscioglimento nel merito, con formula più favorevole, ai sensi dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., sia agli effetti civili, in riferimento alla finalità di vedere caducate la statuizioni civili contestualmente confermate (od anche disposte ex novo) dalla sentenza di appello che abbia dichiarato l’estinzione del reato (nel caso in esame, per prescrizione).
Chiarito ciò, si osservava al contempo che in ordine a siffatta questione la giurisprudenza elaborata in sede nomofilattica fosse divisa.
A questo proposito, una volta fatto presente che l’orientamento tradizionale, senz’altro dominante, consisteva nell’ammettere la revisione soltanto nei confronti di sentenze penali di condanna agli effetti penali, negandone l’ammissibilità (sia agli effetti penali che agli effetti civili) nei confronti delle sentenze che si siano limitate a dichiarare l’estinzione del reato, contestualmente confermando (o disponendo) le statuizioni civili, si osservava come in tal senso si fosse pronunciata Sez. 1, n. 1672 del 15/04/1992, omissis, Rv. 190002, per la quale il mezzo d’impugnazione straordinario rappresentato dalla revisione è esperibile esclusivamente, per espressa volontà legislativa, nei confronti di sentenze (o decreti penali) di condanna, con esclusione delle sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere e in seguito, Sez. 6, n. 4231 del 30/11/1992, dep. 1993, omissis, Rv. 193457 aveva ribadito che la revisione è un mezzo (sia pur straordinario) di impugnazione, per il quale opera, quindi, il principio di tassatività, ex art. 568, comma 1, cod. proc. pen., con la conseguenza che, riguardando l’art. 629 cod. proc. pen. soltanto le sentenze di condanna, non possono ritenersi assoggettabili a revisione anche le sentenze che applichino l’amnistia; questa decisione precisò che tale principio vale anche quando la corte di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto, abbiano confermato le statuizioni civili della precedente sentenza, giacché anche in tal caso non si ha una condanna agli effetti penali rilevandosi al contempo che siffatto orientamento fosse stato ulteriormente ribadito da Sez. 5, n. 15973 del 24/02/2004, omissis, Rv. 228763 (sempre valorizzando il principio di tassatività delle impugnazioni, e ritenendo conseguentemente la possibilità di chiedere la revisione unicamente di sentenze che abbiano pronunciato una condanna agli effetti penali) e da Sez. 5, n. 2393 del 02/12/2010, dep. 2011, omissis, Rv. 249781 e in cui, tra l’altro, era stato valorizzato quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 129 del 16/04/2008, proprio in relazione al giudizio di revisione: «Il Giudice delle leggi ha, invero, ritenuto come il contrasto per il quale si legittimi e razionalmente si giustifichi la revisione, più che attenere alla diversa valutazione di una vicenda processuale in due diverse sedi della giurisdizione, abbia la ragion d’essere esclusivamente nella inconciliabilità di ricostruzioni alternative di un determinato accadimento della vita all’esito di due giudizi penali definiti con sentenze irrevocabili. Il che vale a confermare l’assunto, correttamente affermato nell’impugnata decisione, secondo il quale l’avvenuta conferma delle statuizioni civili, in presenza dell’avvenuta dichiarazione di estinzione dei reati per prescrizione, non costituisca affatto sentenza penale di condanna suscettibile di essere impugnata con lo straordinario rimedio della revisione» (così come, nel medesimo senso, si era successivamente pronunciata anche Sez. 5, n. 24155 del 03/03/2011, omissis, Rv. 250631 (le cui argomentazioni sono integralmente richiamate da Sez. 2, n. 8864 del 23/02/2016, omissis), sempre valorizzando il carattere di mezzo straordinario d’impugnazione della revisione, in quanto tale esperibile esclusivamente nei confronti di sentenze o decreti penali di condanna, con esclusione delle sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere, ed osservando, inoltre, che la sopravvenuta dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. proc. pen. (Corte cost., sentenza n. 113 del 2011), per effetto della quale era stata introdotta una nuova fattispecie di revisione in riferimento alla possibile violazione della Convenzione EDU, «non induce ad alcun revirement con riferimento alla fattispecie ora in esame, dovendo trattarsi pur sempre di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna e non già di proscioglimento»).
Si evidenziava oltre a quanto sin qui esposto che, anche in sede di diritto vivente, fosse stata, seppur indirettamente, confermata la correttezza dell’orientamento sostenuto, osservando che la revisione «risulta strutturata in funzione del solo proscioglimento della persona già condannata: obiettivo, che si trova immediatamente espresso come oggetto del giudizio prognostico circa l’idoneità dimostrativa degli elementi posti a base della domanda di revisione, che l’art.631 cod. proc. pen. eleva a condizione di ammissibilità della domanda stessa»; sarebbe stato, in tal modo, definitivamente chiarito che, nella sua originaria previsione, la revisione presuppone la necessaria allegazione di elementi idonei a fondare una pronunzia di proscioglimento.
Secondo un altro orientamento minoritario, rappresentato dalla Sez. 5, n. 46707 del 03/10/2016, omissis, Rv. 269939, e rimasta isolata, si riteneva invece ammissibile l’istanza di revisione della sentenza di appello dichiarativa dell’estinzione del reato (nel caso esaminato, per prescrizione), confermando le statuizioni civili.
Nel dettaglio, alla luce di quanto sostenuto in questo orientamento ermeneutico, una volta premesso che la revisione ha natura di mezzo (straordinario) d’impugnazione ed è, come tale, soggetta al principio di tassatività delle impugnazioni, e che le sentenze, le quali abbiano disposto unicamente il proscioglimento dell’imputato per essere il reato ascrittogli estinto per amnistia o prescrizione, non sono suscettibili di revisione poiché l’art. 629 cod. proc. pen. ammette la revisione soltanto delle sentenze di condanna e di c.d. “patteggiamento“, si osservava, da un lato, come i riferimenti normativi abitualmente valorizzati dal contrario orientamento sarebbero stati suscettibili di una diversa lettura poiché l’art. 629 cod. proc. pen. indica tra i provvedimenti soggetti a revisione “le sentenze di condanna“, «senza precisare ulteriormente l’oggetto delle stesse», e, simmetricamente, il successivo art. 632, nell’individuare i soggetti legittimati a proporre la richiesta di revisione, evoca «in maniera altrettanto generica la figura del ‘condannato’», dall’altro, come non si sarebbe potuto dubitare che la decisione la quale accoglie l’azione civile esercitata nel processo penale costituisce una «pronunzia di condanna che presuppone l’accertamento della colpevolezza dell’imputato per il fatto di reato, come espressamente stabilito dagli artt. 538 e 539 c.p.p.» e che, dunque, in presenza di siffatta situazione processuale, l’imputato sia “condannato” alle restituzioni ed al risarcimento del danno.
Ad ulteriore conferma dell’interpretazione sostenuta, venivano valorizzate le analoghe considerazioni svolte dalle Sezioni Unite nelle sentenze n. 28719 del 21/06/2012, omissis, Rv. 252695, e n. 28718 del 21/06/2012, omissis, in cui, per affermare la legittimazione del prosciolto condannato agli effetti civili ad esperire il ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen., si era anche ricordato che il giudice dell’appello può essere chiamato, ex art. 576 cod. proc. pen., non già a confermare le statuizioni civili adottate nel primo grado di giudizio contestualmente alla condanna penale dell’imputato, bensì a pronunziarsi in maniera inedita ed esclusiva in favore della parte civile, senza essere contestualmente investito agli effetti penali della questione relativa alla responsabilità del presunto autore del fatto di reato.
Sempre in ragione di questo indirizzo interpretativo, inoltre, non sarebbe stato possibile desumere decisivi argomenti contrari all’accoglimento della tesi propugnata: I) dalla legge delega del nuovo codice di rito (I. n. 81 del 1987), posto che la direttiva n. 99 dell’art. 2 nulla prevedeva in tal senso; II) dal fatto che lo stesso art. 629 cod. proc. pen. consente la revisione della condanna «anche se la pena è già stata eseguita o estinta», poiché con tale disposizione il legislatore, lungi dal delimitare l’ambito oggettivo dell’innpugnazione straordinaria, avrebbe unicamente inteso rimarcare la sussistenza di un interesse “morale” del condannato a rimuovere il giudicato anche in tali casi; III) dall’art. 631 cod. proc. pen.
Si faceva infine presente che, accogliendo l’orientamento tradizionale, l’imputato prosciolto per estinzione del reato, ma al tempo stesso ingiustamente condannato agli effetti civili, sarebbe restato privo di tutela, non potendo neppure ricorrere all’istituto della revocazione civile (art. 395 cod. proc. civ.), impraticabile in difetto di una espressa previsione normativa che legittimi la revoca della sentenza pronunziata dal giudice penale da parte del giudice civile, e stante il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione.
Una volta chiarito in cosa consistono questi indirizzi nomofilattici, e una volta evidenziato che la questione controversa investe il tema dell’individuazione dei provvedimenti impugnabili con la revisione, dovendo in particolare stabilirsi se per soggetto “condannato“, in quanto tale, sia legittimato a proporre richiesta di revisione, si debba intendere anche quello nei cui confronti sia stata pronunciata una mera condanna agli effetti civili, con contestuale declaratoria di estinzione del reato ascrittogli agli effetti penali, le Sezioni Unite ritenevano che il contrasto dovesse essere risolto affermando che è ammissibile (anche agli effetti penali) la revisione della sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione (o per amnistia) che, decidendo, ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen., anche sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, condanni l’imputato al risarcimento del danno (od alle restituzioni) in favore della parte civile.
Per addivenire a siffatta conclusione giuridica, gli ermellini osservavano prima di tutto che la revisione costituisce, secondo la dottrina tradizionale, il rimedio contro «il pericolo che al rigore delle forme siano sacrificate le esigenze della verità e della giustizia reale»: l’istituto consente, in particolare, di rimuovere gli errori giudiziari, revocando provvedimenti di condanna — sentenze, emesse anche ai sensi degli artt. 444 ss. cod. proc. pen., o decreti penali – che, in considerazione di successive emergenze, si rivelino, come pure è stato sottolineato, «frutto di ingiustizia» rilevando al contempo che la necessità della previsione di un giudizio di revisione è contemplata dall’art. 24, quarto comma, della Costituzione, che, nell’imporre al legislatore ordinario di determinare «le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari», ineludibilmente costituzionalizza anche lo strumento processuale finalizzato alla revoca delle sentenze di condanna frutto dei predetti errori, e trova conferma ulteriore nell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, poiché la «rieducazione del condannato», cui le pene devono tendere, non deve aver luogo nei confronti di un innocente atteso che l’istituto risponde alla «esigenza di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell’innocente, nell’ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità» (Corte cost., n. 28 del 1969).
Si sottolineava per di più come la revisione trovasse esplicito riconoscimento anche in plurime fonti sovranazionali poste a tutela dei diritti umani: l’art. 4, VII Protocollo alla Convenzione EDU prevede – in deroga al divieto di bis in idem — la possibilità della riapertura del processo «se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta»; l’art. 14, § 6, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
Si metteva inoltre in risalto come, a livello codicistico, il codice di procedura penale individui nell’art. 630 cod. proc. pen. i casi di revisione (ampliati per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 113 del 2011, che ha dichiarato l’articolo costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo») con i limiti previsti dall’art. 631, in favore dei «condannati», nei confronti «delle sentenze di condanna o delle sentenze emesse ai sensi dell’articolo 444, comma 2, o dei decreti penali di condanna, divenuti irrevocabili, anche se la pena è già stata eseguita o è estinta» e dunque il presupposto imprescindibile, per la legittimazione ad esperire l’impugnazione straordinaria de qua, è, quindi, lo status di “condannato” da intendersi necessariamente come «il soggetto che ha esaurito tutti i gradi del sistema delle impugnazioni ordinarie e rispetto al quale si è formato il giudicato in ordine alla decisione che lo riguarda» (così Sez. U., n. 13199 del 21/07/2016, omissis, Rv. 269790) e, pertanto, ad avviso della Corte, il ricorso alla revisione andrebbe, quindi, negato con riferimento ai procedimenti ante iudicatum, ovvero a tutte le tipologie di decisioni che non hanno come destinatario un “condannato” in tal modo inteso oltre che per le ipotesi diversi da quelle per cui è consentito avvalersi di questo istituto dato che la tassativa previsione dell’art. 629 comporta che la revisione non è esperibile nei confronti delle ordinanze e nei casi in cui l’ordinamento appresti rimedi “speciali” diversi.
I giudici di Piazza Cavour, a questo punto della disamina, una volta individuati i casi per cui non è consentito avvalersi di questa impugnazione straordinaria (sentenze di non luogo a procedere, per le quali gli artt. 434-437 del codice di rito prevedono una forma di impugnazione straordinaria ad hoc; presenza di una sopravvuta abolitio criminis (cfr. art. 673 cod. proc. pen., che in tal caso prevede, come rimedio ad hoc, la revoca della sentenza); – sentenze pronunciate da giudici speciali (cfr., con rimedi speciali, artt. 29 e 33 I. n. 20 del 25 gennaio 1962 – per quanto riguarda le decisioni della Corte costituzionale – ed art. 401 cod. pen. mil . pace – per quanto riguarda le decisioni dei tribunali militari), fanno presente che l’art. 629 cod. proc. pen. ammette la revisione unicamente in favore del “condannato“, non dunque anche della sentenza che si sia limitata, soltanto agli effetti penali, a dichiarare l’estinzione del reato (per prescrizione, come nel caso di specie, od anche per altra causa), poiché in tal caso: a) il soggetto instante non avrebbe qualifica di “condannato“, a nessun effetto (in difetto di contestuali statuizioni civili); b) la presunzione costituzionale di non colpevolezza fino alla condanna definitiva (art. 27, comma 2, Cost.), nel caso di specie non intervenuta, impedirebbe di configurare possibili pregiudizi (in ipotesi giuridicamente rilevanti) alla sua onorabilità.
Una volta evidenziati i margini di applicabilità di questa normativa procedurale, i giudici di legittimità ordinaria osservavano come un problema avrebbe potuto in astratto porsi in riferimento all’impossibilità di esperire la revisione in tali casi poiché anche dal proscioglimento, in ipotesi conseguente ad un’amnistia oppure all’applicazione del perdono giudiziale, ovvero all’accertamento del difetto di imputabilità, e che pertanto postuli un quanto meno implicito accertamento di responsabilità, potrebbero conseguire effetti pregiudizievoli per l’imputato (ad esempio, l’applicazione di misure di sicurezza) mentre si denotava come a conclusioni diverse si dovrebbe pervenire quando alla declaratoria di estinzione del reato (per prescrizione o per amnistia “propria“), valida e rilevante ai soli effetti penali, si accompagni in appello, come previsto e consentito dall’art. 578 cod. proc. pen., la contestuale affermazione di responsabilità agli effetti civili (confermativa della corrispondente statuizione del primo giudice, od anche pronunziata ex novo su gravame della parte civile), con conseguente condanna dell’imputato al risarcimento del danno e/o alle restituzioni.
Si rilevava a tal proposito prima di tutto come da lungo tempo, la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 28 del 1969) – premesso che «l’istituto della revisione si pone nel sistema delle impugnazioni penali quale mezzo straordinario di difesa del condannato ed è preordinato alla riparazione degli errori giudiziari, mediante l’annullamento di sentenze di condanna, che siano riconosciute ingiuste posteriormente alla formazione del giudicato» – aveva riconosciuto che «esso risponde all’esigenza, di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell’innocente, nell’ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità» e, quindi, pur dovendo essere la revisione necessariamente subordinata a condizioni, limitazioni e cautele, nell’intento di contemperarne le predette finalità con l’interesse, fondamentale in ogni ordinamento, alla certezza e stabilità delle situazioni giuridiche ed all’intangibilità delle pronunzie giurisdizionali di condanna, che siano passate in giudicato, «l’evoluzione della nostra legislazione positiva dimostra una graduale estensione delle categorie dei soggetti in favore dei quali la revisione dei giudicati penali è stata ammessa, sul riflesso di un sempre più accentuato favor per la tutela degli interessi materiali e morali di chi sia stato a torto condannato» e, dunque, il rimedio della revisione risulta apprestato per rimuovere ogni giudicato “ingiusto” idoneo a causare un «serio pregiudizio non solo alla libertà e al patrimonio, ma anche alla onorabilità ed alla dignità morale e sociale dei soggetti. Beni morali che devono essere tutelati di fronte alla riprovazione sociale»; e viene all’uopo in considerazione anche l’obbligo (enunciato nell’art. 185 cod. pen.) «delle restituzioni e del risarcimento del danno, nei casi in cui il fatto accertato ne abbia arrecato a terzi».
Gli ermellini evidenziavano oltre a ciò come le Sezioni Unite avessero in più occasioni esaminato questioni controverse inerenti alla revisione.
In particolare, chiamate a decidere se fosse ammissibile il giudizio di revisione della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (all’epoca normativamente non previsto), queste Sezioni avevano inizialmente osservato che «la revisione, che presuppone il ‘giudicato’, è stata espressamente disciplinata dal legislatore quale istituto applicabile unicamente alle sentenze di ‘condanna’ ed ai decreti penali di ‘condanna’ divenuti irrevocabili (art. 629 c.p.p.), ovverosia alle sole decisioni che comportano il riconoscimento della responsabilità dell’imputato per un determinato reato e l’applicazione della relativa pena» (Sez. U, n. 6 del 25/03/1998, omissis) mentre, in seguito, investite del ricorso tanto per la particolare importanza delle questioni proposte quanto per la soluzione del contrasto giurisprudenziale insorto fra le Sezioni ordinarie circa il concetto di prova nuova ai fini della delibazione sull’ammissibilità della richiesta di revisione, le Sezioni Unite (sentenza n. 624 del 26/09/2001, omissis) – premesso che «al fondo della normativa sulla revisione sta il conflitto tra esigenze di natura formale ed esigenze di giustizia sostanziale che, nella tensione dialettica finalizzata alla ricerca della verità, accompagna l’intero corso del processo e ne segue i passaggi più salienti» – avevano ribadito che, con il giudizio di revisione, l’ordinamento, sulla base di scelte di politica legislativa, sacrifica «il valore […] del giudicato in nome di esigenze che rappresentano l’espressione di valori superiori», precisando che tra i valori fondamentali a cui la legge attribuisce priorità, rispetto alla regola della intangibilità del giudicato, vi è la «necessità dell’eliminazione dell’errore giudiziario, dato che corrisponde alle più profonde radici etiche di qualsiasi società civile il principio del favor innocentiae, da cui deriva a corollario che non vale invocare alcuna esigenza pratica – quali che siano le ragioni di opportunità e di utilità sociale ad essa sottostanti – per impedire la riapertura del processo allorché sia riscontrata la presenza di specifiche situazioni ritenute dalla legge sintomatiche della probabilità di errore giudiziario e dell’ingiustizia della sentenza irrevocabile di condanna».
A sua volta il fondamento costituzionale della revisione era individuato dalle Sezioni Unite nella disposizione contenuta nell’art. 24, quarto comma, Cost.; sulla scia della condivisa giurisprudenza costituzionale, la funzione della revisione è stata ricollegata non soltanto all’interesse del singolo, ma anche «all’interesse pubblico e superiore alla riparazione degli errori giudiziari, facendo prevalere la giustizia sostanziale sulla giustizia formale».
Inoltre, successivamente chiamate a decidere se fosse ammissibile la proposizione del ricorso straordinario per errore di fatto nei confronti della decisione di legittimità che confermi le statuizioni civili di condanna dell’imputato, queste Sezioni avevano osservato che «la locuzione ‘condannato’ che delimita soggettivamente la sfera di applicabilità del rimedio straordinario […], non può arbitrariamente scandirsi in ragione del tipo di condanna in capo al soggetto che sia stato sottoposto, come imputato, al processo penale, giacché l’essere stato costui evocato in giudizio tanto sulla base della azione penale quanto in forza della azione civile esercitata nel processo penale, non può che comportare una ontologica identità di diritti processuali, a meno che la legge espressamente non distingua i due profili», il che si è ritenuto non avvenga in tema di ricorso straordinario.
Infine, chiamate a decidere se fosse ammissibile il ricorso straordinario ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen. contro la sentenza o l’ordinanza della Corte di cassazione che rigetta o dichiara inammissibile il ricorso del condannato contro la decisione della corte d’appello che ha respinto ovvero dichiarato inammissibile la richiesta di revisione, le Sezioni Unite (sentenza n. 13199 del 21/07/2016, dep. 2017, omissis) avevano ribadito che il ricorso straordinario «si rifà al modello della disciplina della revisione», la quale, dal canto suo, «si inserisce nel sistema delle impugnazioni come un mezzo straordinario di difesa del condannato, per porre rimedio agli errori giudiziari, eliminando le condanne che siano riconosciute ingiuste, attraverso un giudizio che segue alla formazione del giudicato, la cui base giustificativa è di ordine prevalentemente pratico»; all’istituto della revisione è, quindi, attribuita «la funzione di rispondere all’esigenza, di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell’innocente, nell’ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità’ (Corte cost., sent. n. 28 del 1969)».
Orbene, una volta terminato questo excursus giurisprudenziale, le Sezioni Unite, nella pronuncia qui in commento, ritenevano innanzitutto che l’istituto della revisione costituisse applicazione estrema del principio costituzionale che assegna al processo penale il compito dell’accertamento della verità («poiché il fine primario e ineludibile del processo penale rimane la ricerca della verità»: Corte cost., sentenza n. 111 del 1993): proprio la necessità di perseguire il rispetto della verità impone di non accogliere opzioni ermeneutiche che portino a mantenere ferme decisioni condizionate da un quadro probatorio, esistente al momento della decisione, ma che in seguito risulti radicalmente smentito rilevando al contempo che proprio che questa funzione dell’istituto della revisione assumesse rilievo fondamentale ai fini della decisione della questione controversa.
Premesso ciò, si evidenziava che l’art. 629 cod. proc. pen. indica tra i provvedimenti soggetti a revisione “le sentenze di condanna” (senza precisarne ulteriormente l’oggetto), ed il successivo art. 632 – che dell’art. 629 costituisce pendant -, nell’individuare i soggetti legittimati a proporre la richiesta di revisione, evoca (altrettanto genericamente) lo status giuridico di “condannato” e pertanto non si poteva dubitare, ad avviso della Corte, che la decisione, che accoglie l’azione civile esercitata nel processo penale, costituisce una pronunzia di condanna che presuppone l’accertamento della colpevolezza dell’imputato per il fatto di reato, secondo quanto espressamente stabilito dagli artt. 538 e 539 c.p.p., e che, dunque, in presenza di siffatta situazione processuale, all’imputato debba essere riconosciuto lo status di soggetto “condannato“, sia pure soltanto alle restituzioni ed al risarcimento del danno, e ciò anche perché, come osservato da Sez. 5, n. 46707 del 03/10/2016, nel testo dell’art. 629 non vi è traccia della possibile rilevanza della distinzione tra la condanna riportata agli effetti penali e quella riportata agli effetti civili a seguito dell’esercizio nel processo penale dell’azione civile, e nessun elemento induce a ritenere l’esistenza di «una qualsiasi incompatibilità logica o strutturale della norma a consentire la revisione al condannato solo per gli interessi civili» e di conseguenza, anche in tali casi si è al cospetto di un’affermazione di responsabilità, contestuale alla declaratoria di estinzione del reato, e ad essa inscindibilmente collegata, per la medesimezza del fatto storico costituente oggetto della duplice valutazione (agli effetti penali e civili) e dei materiali probatori valutati, di tal che la condanna, pur pronunciata ai soli effetti civili, si risolve, pur incidentalmente, in una affermazione di responsabilità anche agli effetti penali.
Tal che, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, si giungeva alla conclusione secondo la quale lo status di “condannato“, da intendere come «il soggetto che ha esaurito tutti i gradi del sistema delle impugnazioni ordinarie e rispetto al quale si è formato il giudicato in ordine alla decisione che lo riguarda» (così Sez. U., n. 13199 del 21/07/2016, omissis, Rv. 269790), va certamente riconosciuto anche al soggetto nei cui confronti sia stata pronunciata in appello, ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen., sentenza di proscioglimento, per estinzione del reato per prescrizione ovvero per amnistia, con contestuale conferma della condanna pronunciata in primo grado alle statuizioni civili od anche con condanna alle statuizioni civili pronunciata per la prima volta in appello su gravame della parte civile e dunque, pure in questo caso, la locuzione “condannato“, che delimita soggettivamente la sfera di applicabilità del rimedio straordinario, non può arbitrariamente scandirsi in ragione del tipo di condanna in capo al soggetto che sia stato sottoposto, come imputato, al processo penale, giacché l’essere stato costui evocato in giudizio tanto sulla base della azione penale quanto in forza della azione civile esercitata nel processo penale, non può che comportare una ontologica identità di diritti processuali, a meno che la legge espressamente non distingua i due profili.
Una volta dunque chiarito che sia valorizzando il fatto che al predetto soggetto va riconosciuto lo status formale di condannato, sia valorizzando il fatto che l’affermazione di responsabilità agli effetti civili, contestuale alla declaratoria di estinzione del reato, non può non assumere in concreto valenza sostanziale di affermazione di responsabilità anche agli effetti penali, il Supremo Consesso riteneva come fosse evidente che l’art. 629 cod. proc. pen. ne ammette la legittimazione a chiedere la revisione della sentenza d’appello che abbia dichiarato l’estinzione del reato, contestualmente confermando la condanna o condannando ex novo l’imputato alle statuizioni civili ex art. 578 cod. proc. pen. (anche se con statuizione di condanna generica e rinvio al giudice civile per la quantificazione dei danni).
Venendo quindi ad esaminare l’art. 578 c.p.p., si evidenziava prima di tutto che questa norma di rito penale attua la direttiva n. 28 della legge delega n. 81 del 1987, riproducendo pressoché integralmente l’art. 13 della I. 3 agosto 1978, n. 405, «che costituisce il testo di legge innovativo in materia, estendendone la normativa anche all’analogo istituto della prescrizione» (Relazione al Progetto preliminare del codice di procedura penale, 288) per poi subito dopo osservare che questa disposizione legislativa comporta che, quando nei confronti dell’imputato sia pronunciata condanna, anche generica, al risarcimento dei danni, il giudice d’appello e la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione che siano sopravvenute, decidono sull’impugnazione, ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili: il potere-dovere del giudice dell’impugnazione di decidere sugli effetti civili del reato estinto per prescrizione o per amnistia, previsto dall’art. 578, presuppone una sentenza di condanna estesa alle statuizioni civili, emessa in primo grado, in assenza di cause estintive già maturate ed erroneamente non dichiarate e di conseguenza il giudice dell’appello, nel prendere atto dell’esistenza di una delle predette cause estintive del reato verificatasi nelle more del giudizio di secondo grado, deve necessariamente compiere una valutazione approfondita dell’acquisito compendio probatorio, senza essere legato ai canoni di economia processuale, che imporrebbero la declaratoria della causa di estinzione del reato quando la prova dell’innocenza non risulti ictu oculi stante il fatto che la previsione di cui all’l’ comporta che i motivi di impugnazione dell’imputato devono essere esaminati compiutamente, non potendosi dare conferma alla condanna al risarcimento del danno in ragione della mancanza di prova dell’innocenza dell’imputato, secondo quanto previsto con riferimento agli effetti penali, per esigenze di economia processuale, dall’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 18889 del 28/02/2017, omissis, Rv. 269890; Sez. 4, n. 20568 del 11/04/2018, D.L.), tanto vero che la sentenza di appello, che non abbia compiuto un esaustivo apprezzamento sulla responsabilità dell’imputato, deve essere annullata con rinvio, limitatamente alla conferma delle statuizioni civili (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, omissis; Sez. 6, n. 16155 del 20/03/2013, omissis; Sez. 5, n. 3869 del 07/10/2014, dep. 2015, omissis).
Da ciò se ne faceva discende come non potesse dubitarsi che la statuizione di condanna agli effetti civili, pronunciata ai sensi dell’art. 578 c.p.p., di per sé suscettibile – se ingiusta – di arrecare pregiudizio all’interessato con riguardo alla sfera patrimoniale, contenga necessariamente, anche se incidentalmente, una implicita quanto ineludibile affermazione di responsabilità tout court operata, a cognizione piena, in relazione al fatto-reato causativo del danno, certamente suscettibile di arrecare pregiudizio all’interessato anche con riguardo alla sfera dei diritti della personalità e ciò proprio perché la contestualità delle pronunzie di estinzione del reato e di condanna alle statuizioni civili evidenzia la sussistenza di un inscindibile collegamento tra l’affermazione di responsabilità agli effetti civili e la mancata pronunzia liberatoria, anche nel merito, agli effetti penali, che è senz’altro idonea a produrre un apprezzabile pregiudizio al diritto all’onore dell’imputato, con superamento – in concreto – della presunzione costituzionale di non colpevolezza.
Pertanto, essendo analoghi i pregiudizi che l’interessato, pur non condannato agli effetti penali, potrebbe patire anche in tali casi, per effetto di una decisione irrevocabile successivamente rivelatasi ingiusta, sia alla propria sfera personale (per la compromissione della propria onorabilità) che a quella patrimoniale (per le – in ipotesi irreversibili – statuizioni risarcitorie o di condanna alle restituzioni), il diniego della possibilità di accesso al giudizio di revisione, secondo la Corte, potrebbe porsi in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, sotto il duplice profilo della violazione del principio di uguaglianza, derivante dal diverso trattamento riservato a situazioni che presentino analoghi profili di pregiudizio, e della palese irragionevolezza, in difetto di apprezzabile giustificazione della discrasia.
A sostegno di siffatta argomentazione, i giudici di Piazza Cavour facevano oltre tutto presente come questa conclusione si ponesse in linea con quanto già ritenuto dalle Sezioni Unite (sentenze n. 28719 del 21/06/2012, omissis, Rv. 252695, e n. 28718 del 21/06/2012, omissis) con riferimento al tema della legittimazione del soggetto prosciolto agli effetti penali, ma condannato agli effetti civili, ad esperire il ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen. atteso che cotali decisioni, nell’affermare la legittimazione attiva al ricorso straordinario anche del soggetto avente il predetto status giuridico, avevano ritenuto effettivamente “percepibile” l’esistenza di forti analogie con l’altro mezzo d’impugnazione straordinario costituito dalla revisione.
Di conseguenza, l’esistenza di una tendenza normativa all’assimilazione degli istituti del ricorso straordinario e della revisione, in più occasioni evidenziata dalle stesse Sezioni Unite, ad avviso delle Corte, mal si concilierebbe, invero, con una soluzione che, ai soli fini dell’esperibilità della revisione, intendesse la legittimazione normativa del “condannato” riferibile soltanto a colui che risulti tale agli effetti penali, e non anche a colui che risulti tale agli effetti civili, come ritenuto dalla sentenza Marani in tema di ricorso straordinario, tenuto peraltro conto del fatto che, come già osservato con riferimento al ricorso straordinario, anche in riferimento alla revisione la legge non distingue espressamente i due profili degli effetti penali e civili della condanna.
A fronte di tale quadro ermeneutico, le Sezioni Unite rilevavano come sarebbe stato possibile pervenire a conclusioni diverse soltanto valorizzando dati normativi speciali, desumibili dalla disciplina della revisione ma si evidenziava come non fossero decisivi, se non addirittura privi di rilievo, i riferimenti testuali all’uopo valorizzati dall’orientamento in atto maggioritario in quanto (secondo il Supremo Consesso): a) non appare rilevante la legge delega n. 81 del 1987 per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale, posto che la direttiva n. 99 dell’art. 2 nulla prevedeva in riferimento alla questione controversa, essendosi limitata a stabilire la «ammissibilità di revisione anche nei casi di erronea condanna di coloro che non erano imputabili o punibili a cagione di condizioni o qualità personali o della presenza di esimenti»; b) non decisivo appare il riferimento all’art. 629 cod. proc. pen., che consente la revisione della condanna «anche se la pena è già stata eseguita o estinta» (valorizzato dall’orientamento in atto maggioritario nel senso di escludere l’ammissibilità della revisione nel diverso caso in cui sia il reato, non la pena, ad essere estinto), poiché con tale disposizione il legislatore, lungi dal delimitare l’ambito oggettivo dell’impugnazione straordinaria, ha unicamente inteso rimarcare la sussistenza di un interesse “morale” del condannato a rimuovere il giudicato anche quando la pena sia già stata interamente eseguita o sia estinta; c) non decisivo appare il riferimento all’art. 631 cod. proc. pen., che si limita a contemplare il novero dei possibili esiti del giudizio di revisione in quanto, come già osservato da Sez. 5, n. 46707 del 03/10/2016, «se è vero (…) che agli effetti penali l’imputato è già stato prosciolto, è altrettanto vero che ciò è avvenuto per una causa diversa da quelle elencate negli artt. 529 e 530 c.p.p., che altrimenti non sarebbe stato possibile affermare la sua responsabilità ai fini civili.
E se l’assenza delle condizioni previste dai due articoli menzionati è il presupposto per la condanna agli effetti civili, la dimostrazione che l’imputato doveva essere prosciolto per una causa diversa da quella invece riconosciuta è logico presupposto per la rimozione del giudicato, anche agli effetti civili»; in proposito non appaiono decisivi, in proposito, anche i riferimenti alla Relazione al progetto preliminare ed al testo definitivo del codice di procedura penale vigente (GU n. 250 del 24-10-1988 – Suppl. Ordinario n. 93), nella quale si legge unicamente che «L’articolo 623 [nel testo definitivo del codice, divenuto art. 631], intitolato come l’art. 555 del codice vigente, ‘Limiti della revisione’, esprime in forma sintetica il risultato potenziale cui deve tendere l’istituto della revisione, esigenza che si spiega con la natura straordinaria dell’impugnazione mentre è stato adottato il termine ‘prosciolto’ in luogo del riferimento all’assoluzione, perché vi è un rinvio unitario alle disposizioni di legge, che si riferiscono ad ogni forma di proscioglimento: gli artt. 522 (sentenze di non doversi procedere), 523 (sentenza di assoluzione), 524 (dichiarazione di estinzione del reato)»; d) non decisivo appare il riferimento all’art. 637, comma 2, cod. proc. pen., poiché la «sentenza di condanna», che va revocata nel caso in cui sia accolta la richiesta di revisione, ben può essere quella pronunciata ex art. 578 cod. proc. pen. agli effetti civili, ed il «proscioglimento» che va pronunciato indicandone la causa in dispositivo ben può essere quello pronunciato in tali casi agli effetti penali con formula liberatoria più favorevole rispetto a quello in precedenza pronunciato per estinzione del reato; e) non decisivo appare, infine, l’ulteriore riferimento dell’art. 643 cod. proc. pen. al “proscioglimento” pronunciato in sede di revisione, che va inteso nel senso appena illustrato.
Oltre a ciò, si faceva presente come non risultasse nemmeno considerato un riferimento testuale che, al contrario, dal punto di vista sistematico, conferma la correttezza della soluzione prescelta ossia l’art. 673, comma 2, cod. proc. pen. il quale stabilisce che, in caso di abrogazione o di dichiarazione d’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione revoca (non soltanto la sentenza di condanna o il decreto penale, come previsto dal comma 1 della disposizione, ma anche) la sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere per estinzione del reato o per mancanza di imputabilità, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato ed adottando i provvedimenti conseguenti.
Difatti, ad avviso della Corte, una volta messo in evidenza come la dottrina abbia osservato che la disposizione costituisce espressione della necessità che il giudicato ceda alla «rivoluzione normativa posteriore», anche se non si tratti di un giudicato di condanna e che questa disposizione comporta il proscioglimento con la formula «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato», cui peraltro il giudice può accedere, a norma degli artt. 129 e 530 cod. proc. pen., soltanto dopo aver verificato che: – il fatto sussiste; – l’imputato lo ha commesso; – il fatto costituisce reato, si evidenzia come per evidenti esigenze di logica, oltre che per identità di ratio, nel rispetto dell’art. 3 della Costituzione, in difetto di riferimenti testuali insuperabilmente ostativi, analoga soluzione s’impone, a fortiori, in casi nei quali vi sia stata una condanna, sia pure ai soli effetti civili, contestualmente al proscioglimento per estinzione del reato, seguita dalla scoperta ex post di elementi decisivi di prova, prima ignoti, che dimostrino l’innocenza dell’imputato atteso che sarebbe irragionevole aver previsto, in presenza di una sentenza che dichiari l’estinzione del reato con contestuale condanna alle statuizioni civili, la possibile caducazione del giudicato soltanto in presenza della sopravvenuta abolitio criminis, e non anche in presenza della scoperta di prove che impongano l’assoluzione nel merito con formula liberatoria di grado poziore (in tal senso, con riferimento alle formule previste dall’art. 530 cod. proc. pen., cfr. Sez. 3, sentenza n. 9096 del 23/06/1993, omissis, Rv. 195202, per la quale, «quando il fatto non è più preveduto dalla legge come reato, sia in seguito a una pura e semplice abolitio criminis, sia in seguito alla trasformazione dell’illecito penale in illecito amministrativo, il giudice è tenuto a verificare se allo stato degli atti non risulti già evidente che il fatto non sussiste, che l’imputato non l’ha commesso o che il fatto non costituisce reato»; nel medesimo senso, con riferimento alle formule previste dall’art. 129 cod. proc. pen., Sez. U, n. 2451 del 27/09/2007, dep. 2008, omissis, Rv. 238195, per la quale «nel concorso tra diverse cause di proscioglimento, poiché l’indicazione che si trae dalla sequenza delle formule contenuta nell’art. 129 cod. proc. pen. è quella di un ordine ispirato a un’ampiezza di effetti liberatori per l’imputato progressivamente più ridotta, la formula perché il fatto non sussiste prevale su quella perché il fatto non è previsto dalla legge come reato»).
La Cassazione, d’altronde, evidenziava come una soluzione ermeneutica di tal tenore non trovasse ostacoli nella giurisprudenza costituzionale; infatti: I) la sentenza n. 129 del 2008 (richiamata a conferma dell’orientamento maggioritario da Sez. 5, n. 2393 del 01/12/2010, dep. 2011, omissis), nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., sollevata in riferimento agli artt. 3, 10 e 27 della Costituzione, nella parte in cui non si applica ai casi di assenza di equità del processo, accertata dalla Corte EDU ai sensi dell’art. 6 della Convenzione EDU, non aveva operato alcun riferimento al possibile contenuto dispositivo (di condanna agli effetti penali, o meno) delle sentenze irrevocabili emesse all’esito di diversi giudizi penali, fondate su “fatti storici“, determinanti ai fini del riconoscimento della penale responsabilità, oggettivamente incompatibili; II) la sentenza n. 113 del 2011 la quale, nell’avere dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. proc. pen. per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. e con gli artt. 46 e 6 della CEDU, nella parte in cui non consente la riapertura del processo penale al fine di dare esecuzione alle sentenze della Corte EDU che accertino la violazione dell’art. 6 della CEDU, e nell’evidenziare che «la revisione risulta strutturata in funzione del solo proscioglimento della persona già condannata», non prendeva esplicita posizione in ordine al contenuto della condanna (penale o civile) della sentenza soggetta a revisione.
Le Sezioni Unite facevano altresì presente come l’opzione ermeneutica da essi accolta non trovasse ostacoli nemmeno dalle fonti sovranazionali; e, invero: 1) il diritto alla revisione è affermato con riguardo alle “sentenze di condanna” (senza alcuna restrizione in riferimento alle statuizioni – di natura penale od anche civile – che possano conseguirne) dall’art. 14, § 6, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici; 2) l’art. 4, § 2, Prot. Addizionale n. 7 alla CEDU prevede la possibilità di riapertura del processo senza limitazioni riferibili alla natura della sentenza (se di condanna o di proscioglimento) o delle statuizioni (penali o civili) conseguenti alla condanna, ma con il corollario del divieto di «essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva» (art. 4, § 1, Prot. Addizionale n. 7).
Si evidenziava infine come la tesi scelta non fosse oltre tutto neppure in contrasto con altre decisioni emesse dalle Sezioni Unite; e, infatti: a) la sentenza n. 6 del 1998 evoca, infatti, l’esperibilità della revisione contro le sole decisioni che comportino il riconoscimento della responsabilità dell’imputato per un determinato reato, il che è proprio non soltanto delle sentenze che comportino la conseguente applicazione della pena, ma anche di quelle che comportino la condanna dell’imputato ai soli effetti civili; b) nella sentenza n. 13199 del 2017, nel prendere le mosse dalla collocazione del ricorso straordinario per errore di fatto, quale mezzo straordinario di impugnazione che costituisce una deroga al principio dell’irrevocabilità delle decisioni della Corte di cassazione, nell’ambito delle altre «significative brecce scavate nel muro del giudicato penale dal codice del 1988», ravvisando il nucleo della questione controversa, in quella occasione esaminata, nel verificare se i provvedimenti della Corte di cassazione suscettibili di essere impugnati con ricorso straordinario ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen. siano solo quelli in grado di determinare il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, «ovvero se sia sufficiente un altro tipo di nesso con il giudicato sostanziale» e dopo avere analizzato le argomentazioni espresse dalle decisioni che avevano ampliato l’ambito operativo dell’istituto di cui all’art. 625-bis cod. proc. pen., le Sezioni Unite avevano affermato che, nei casi indicati, «si assiste ad un progressivo allentamento del rapporto funzionale tra decisione della Corte di cassazione e giudicato e il riferimento al ‘condannato’, almeno riguardo all’ultimo esempio, assume una portata più ampia. Pertanto, è vero che, come sottolineato da una attenta dottrina, il richiamo al ‘condannato’ sta a significare che possono essere impugnate con il ricorso straordinario le decisioni della Corte di cassazione che rendano ‘incontrovertibile l’accertamento del dovere di punire’, essendo evidente il collegamento con il giudicato sostanziale. Tuttavia, si tratta di verificare se i provvedimenti della Cassazione suscettibili di essere impugnati ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen. sono solo quelli in grado di determinare il passaggio in giudicato della sentenza di condanna ovvero se sia sufficiente un altro tipo di nesso con il giudicato sostanziale»; orbene, secondo quanto ritenuto dai giudici di legittimità ordinaria nella decisione qui in commento, tale argomentazione appare non particolarmente rilevante poiché immediatamente prima le Sezioni Unite avevano richiamato il caso dell’ammissibilità del ricorso straordinario per errore di fatto avverso le sentenze di condanna ai soli effetti civili, senza in alcun modo mettere in discussione i principi in precedenza affermati dalle stesse Sezioni Unite con la sentenza Marani rilevandosi al contempo che la sentenza Nunziata, nell’esaminare la questione in quella occasione controversa, aveva operato un riferimento al caso più ricorrente di revisione (la revisione della condanna penale), senza alcun ulteriore riferimento, ma limitandosi ad individuare le ragioni che giustificano la legittimazione del condannato a presentare ricorso straordinario per errore di fatto contro la sentenza con la quale la Corte di cassazione abbia dichiarato inammissibile, o rigettato, il suo ricorso contro la decisione che gli abbia negato la revisione atteso che a tal fine erano state richiamate le «esigenze che rappresentano l’espressione di valori superiori», ritenute prioritarie rispetto alla regola dell’intangibilità del giudicato, ed in particolare: – l’esigenza, «di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell’innocente, nell’ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità», già valorizzata dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 28 del 1969 cit.), e soddisfatta dall’istituto della revisione; – l’esigenza di assicurare la «effettività del giudizio di legittimità», che la giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sentenza n. 395 del 2000) aveva già indicato come obiettivo da raggiungere attraverso la previsione di meccanismi in grado di rimediare agli errori della Cassazione.
Venivano altresì ritenuti privi di decisivo rilievo, in senso contrario alla soluzione accolta, gli ulteriori elementi talora valorizzati a sostegno dell’orientamento maggioritario.
Si osservava a tal proposito che l’imputato prosciolto per estinzione del reato, ma al tempo stesso ingiustamente condannato agli effetti civili, non potrebbe ricorrere all’istituto della revocazione civile, impraticabile – proprio in ossequio al principio di tassatività dei mezzi di impugnazione – in difetto di una espressa previsione normativa che legittimi la revoca della sentenza pronunziata dal giudice penale da parte del giudice civile, fuori dai casi previsti dall’art. 622 cod. proc. pen. dato che, unicamente per effetto dell’annullamento, ai soli effetti civili, da parte della Corte di cassazione, della sentenza penale contenente condanna generica al risarcimento del danno, si determina una piena translatio del giudizio sulla domanda civile al giudice civile competente per valore in grado di appello (Cass. civ., Sez. 3, n. 15182 del 20/06/2017, Rv. 644747) e dunque ne consegue che il giudizio di rinvio avanti al giudice civile designato, che abbia luogo a seguito di sentenza resa dalla Corte di cassazione in sede penale, ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen., è da considerarsi come un giudizio civile di rinvio del tutto riconducibile alla normale disciplina del giudizio di rinvio quale espressa dagli artt. 392 e ss. cod. proc. civ. (Cass. civ., Sez. 3, n. 17457 del 09/08/2007, Rv. 600508, e n. 9358 del 12/04/2017, Rv. 644002), e ciò anche perché, come già evidenziato da Sez. 5, n. 46707 del 03/10/2016, omissis, cit., dai diversi e più ristretti limiti, che caratterizzano il suddetto istituto, non può ricavarsi un «argomento fondato sulla disparità di trattamento riservata al danneggiato a seconda che l’azione risarcitoria venga esercitata nella sede propria o in quella penale.
Infatti, innovando profondamente la disciplina previgente, il codice del 1988 ha attribuito a quest’ultimo il monopolio sulla scelta della sede in cui vedere accertate le proprie pretese la quale, a sua volta, implica l’accettazione delle regole proprie del rito opzionato» fermo restando che d’altro canto, anche a prescindere dall’inscindibilità delle statuizioni emesse dal giudice penale agli effetti penali e civili, desumibile dalla disciplina di cui all’art. 578 cod. proc. pen., il sopravvenire – rispetto al corso del procedimento culminato nel giudicato – di una prova non dedotta o non deducibile che legittimi l’esperimento della revocazione agli effetti civili, porrebbe pur sempre il problema dell’eventuale successivo contrasto di giudicati tra la pronuncia in ipotesi liberatoria ai soli effetti civili (emessa in accoglimento della richiesta di revocazione) e quella dichiarativa della mera estinzione del reato, in precedenza pronunziata agli effetti penali.
Si metteva infine in risalto il fatto che la talora richiamata facoltà di rinunziare alla prescrizione, da un lato, non faceva venir meno lo status di “condannato“, sia pure ai soli effetti civili, del soggetto instante, dall’altro, rimetteva alla insindacabile valutazione del soggetto interessato una opzione discrezionalmente esercitabile, dalla quale, in difetto di una contraria previsione normativa ed in ossequio al principio di non contraddizione (che non consente, ad uno stesso tempo, di accordare – ad un fine – una facoltà esercitabile discrezionalmente, e di far conseguire – a diversi fini – al suo mancato esercizio effetti pregiudizievoli), non possono derivare pregiudizi.
Si evidenziava inoltre come la questione controversa non potesse porsi con riferimento ad altre cause di estinzione del reato, diverse dall’amnistia e dalla prescrizione (le uniche considerata dall’art. 578 cod. proc. pen.) dato che la disciplina dettata dall’art. 578, che contempla la possibilità del giudice penale di decidere sulla pretesa civilistica fatta valere nel processo penale, mira ad evitare che cause estintive del reato, indipendenti dalla volontà delle parti, possano frustrare il diritto al risarcimento del danno ed alla restituzione in favore della persona danneggiata dal reato, qualora sia già intervenuta sentenza di condanna di primo grado ed è, pertanto, tassativamente limitata soltanto all’estinzione del reato per amnistia o per prescrizione, non potendo quindi essere dilatata in via estensiva od analogica ad altra causa estintiva, avendo carattere speciale (cfr., in generale, sul punto, tra le altre, Sez. 4, n. 31314 del 23/06/2005, omissis, Rv. 231745, e Sez. 3, n. 3593 del 25/11/2008, dep. 2009, omissis, Rv. 242739).
Da ciò se ne faceva conseguire, per un verso, che, in caso di dichiarazione di estinzione del reato per altra causa, la statuizioni civili vanno revocate (cfr. Sez. 4, n. 31314 del 23/06/2005, omissis, Rv. 231745, e Sez. 3, n. 5870 del 02/12/2011, dep. 2012, F., Rv. 251981, in fattispecie riguardanti l’estinzione del reato per morte del reo; Sez. 2, n. 51800 del 24/09/2013, omissis, Rv. 258062, e Sez. 5, n. 41316 del 16/04/2013, omissis, Rv. 257935, in fattispecie riguardanti l’estinzione del reato per remissione di querela; Sez. 3, n. 3593 dei 25/11/2008, dep. 2009, omissis, Rv. 242739, che, in applicazione del principio, nel dichiarare l’estinzione di un reato urbanistico per sanatoria, ha revocato le statuizioni civili disposte nei confronti degli imputati), per altro verso, che, in tali casi, viene meno lo status di “condannato” – sia pure ai soli effetti civili – valorizzato ai fini della risoluzione dell’odierna questione controversa.
Posto ciò, la Corte riteneva in astratto configurabile un problema da porsi in riferimento all’impossibilità di esperire la revisione nei confronti di sentenze che abbiano dichiarato l’estinzione del reato per amnistia o prescrizione senza contestualmente condannare l’imputato agli effetti civili: anche dal proscioglimento, in ipotesi conseguente ad un’amnistia oppure all’applicazione del perdono giudiziale, ovvero all’accertamento del difetto di imputabilità, e che pertanto postuli un quanto meno implicito accertamento di responsabilità, potrebbero conseguire effetti pregiudizievoli per l’imputato (ad esempio, l’applicazione di misure di sicurezza) e, a questo proposito, si ricordava che l’art. 1 d.lgs. 10 marzo 2018, n. 21, in attuazione della delega conferita al Governo dall’art. 1, comma 85, lettera q), I. n. 103/2017, ha introdotto nel codice penale l’art. 3-bis che afferma il principio della “riserva di codice“, in virtù del quale «nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia», nonché numerose disposizioni in precedenza collocate nella legislazione speciale, riguardanti diverse materie, ed in particolare, tra le misure di sicurezza patrimoniali, in tema di confisca, l’art. 240-bis, rubricato “Confisca in casi particolari“, che ripropone quanto già previsto dall’art. 12-sexies, d.l. 306 n. 1992, convertito in I. n. 356 del 1992 in tema di confisca obbligatoria (cosiddetta confisca “allargata” o per sproporzione).
Dal punto di vista processuale, il “nuovo” art. 578-bis cod. proc. pen. (inserito dal medesimo d. Igs. n. 21 del 2018) ha previsto che, quando sia stata disposta la confisca prevista dall’art. 240-bis, comma 1, cod. pen. o da altre disposizioni di legge (il riferimento evoca le plurime forme di confisca previste dalle leggi penali speciali), il giudice dell’impugnazione (corte di appello o corte di cassazione), nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, deve operare un accertamento incidentale di responsabilità, valido “ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato”, onde verificare se essa debba essere disposta/confermata o meno.
La Relazione al d.lgs. n. 21 del 2018, a sua volta, chiarisce che, in tal modo, è stata estesa alle indicate statuizioni di confisca la disciplina già stabilita dall’art. 578 cod. proc. pen. in relazione alle statuizioni sugli interessi civili nei medesimi casi e, analoga essendo la disciplina prevista dall’art. 578-bis c.p.p. rispetto a quella prevista dall’art. 578 c.p.p., e potendo, quindi, ritenersi che anche nei casi previsti dal citato art. 578-bis c.p.p. all’interessato vada, sia pur incidentalmente, riconosciuto lo status soggettivo di “condannato” (sia pur limitatamente alle statuizioni di confisca che conseguano all’incidentale accertamento di responsabilità richiesto dalla norma), dovrà ritenersi esperibile la revisione anche in tale caso.
Di talchè se ne faceva conseguire come la presenza o meno, contestualmente alla declaratoria di estinzione del reato, dell’affermazione di responsabilità agli effetti civili, ovvero dell’accertamento incidentale di responsabilità ai fini della confisca ex art. 578-bis cod. proc. pen., legittimasse l’accoglimento di una soluzione diversa quanto all’esperibilità della revisione contro le sentenze di proscioglimento non accompagnate dalle predette statuizioni ulteriori e di conseguenza, la soluzione prescelta non ponesse, sotto questo profilo, problemi di costituzionalità in riferimento al principio di uguaglianza ex art. 3 della Costituzione.
Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, le Sezioni Unite formulavano il seguente principio di diritto: «E’ ammissibile, sia agli effetti penali che agli effetti civili, la revisione, richiesta ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., della sentenza del giudice dell’appello che, decidendo anche sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, in applicazione della disciplina dettata dall’art. 578 cod. proc. pen., abbia prosciolto l’imputato per l’intervenuta prescrizione del reato, e contestualmente confermato la sua condanna al risarcimento del danno nei confronti della parte civile».
Conclusioni
La sentenza in esame è sicuramente condivisibile in quanto il frutto di un articolato e ben ponderato ragionamento giuridico basato su un attento esame dei dati normativi (sia nazionali, che sovranazionali), e dei profili giurisprudenziali, inerenti alla questione giuridica rispetto alla quale le Sezioni Unite erano deputate a fornire risposta.
Va da sé dunque che in un caso analogo a quello in oggetto, e dunque qualora venga emessa una sentenza con cui il giudice dell’appello, decidendo anche sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, in applicazione della disciplina dettata dall’art. 578 cod. proc. pen., abbia prosciolto l’imputato per l’intervenuta prescrizione del reato, e contestualmente confermato la sua condanna al risarcimento del danno nei confronti della parte civile, può essere richiesta la revisione ai sensi dell’art. 630, c. 1, lett. c), c.p.p..
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