(Annullamento con rinvio)
(Normativa di riferimento: D.lgs., 10-03-2000, n. 74, art. 10-bis)
Il fatto
Con sentenza del 26 gennaio 2017 la Corte d’appello di Ancona confermava la sentenza del 27 gennaio 2015 del Tribunale di Fermo di condanna dell’imputato alla pena di otto mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 per avere omesso, quale legale rappresentante della … S.r.l., di versare, nei termini previsti per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta, le ritenute relative agli emolumenti erogati nell’anno di imposta 2010 per un ammontare complessivo di euro 222.602,89.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso la suddetta sentenza presentava ricorso per cassazione l’imputato adducendo i seguenti motivi: a) con un primo motivo, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., si denunciava la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, nonché dell’art. 4, comma 1 e comma 6-ter del d.P.R. 22 luglio 1998 n. 322, per avere il giudice d’appello ritenuto, in contrasto con il richiamato orientamento giurisprudenziale di legittimità, che l’elemento costitutivo del reato rappresentato dal rilascio ai sostituiti d’imposta delle certificazioni da parte dell’imputato sia stato adeguatamente dimostrato sulla base della sola dichiarazione modello 770/2011, di per sé sola inidonea a tal fine; b) con un secondo motivo, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., ci si lamentava della violazione e della erronea applicazione degli artt. 27 Cost., 6 Convenzione Edu e 533 cod. proc. pen., per avere la Corte territoriale, affermando che l’imputato non avrebbe mai allegato espressamente di non avere rilasciato i certificati, violato la regola per cui la prova della responsabilità penale deve essere fornita dall’accusa; c) con un terzo motivo, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., si denunciava la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen. per motivazione apparente quanto alla individuazione dell’imputato come autore del presunto reato sulla base del modello 770 dallo stesso sottoscritto e tuttavia, per quanto già detto, non valorizzabile quanto al rilascio delle certificazioni; né la sentenza avrebbe indicato le prove di un concorso materiale o morale nonostante al riguardo fosse stato proposto motivo d’appello; d) con un quarto motivo si denunciava, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la violazione e l’erronea applicazione degli artt. 1, comma 143, I. 24 dicembre 2007, n. 244, 322-ter cod. pen., 1, comma 75, lett. o), della I. n. 190 del 2012 e 25, comma 2, Cost. lamentando che il giudice d’appello non avrebbe considerato che l’imputato era stato punito con una pena non prevista all’epoca di commissione del reato: la pena della confisca per equivalente per un valore corrispondente al profitto del reato sarebbe stata infatti introdotta solo con l’art. 1, comma 75, lettera o), della I. n. 190 del 2012, laddove il reato risulta commesso invece nel 2011; sarebbe stato quindi violato l’art. 25 Cost.; inoltre non sussisterebbero i presupposti per la confisca stante la mancanza di prova di effettiva evasione da parte della società e di incasso da parte del ricorrente della somma non versata, né sussisterebbe prova di concorso ex art. 110 cod. pen.; e) con un quinto motivo si denunciava, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la violazione dell’art. 1 Protocollo n. 1 Convenzione Edu e degli artt. 42 e 117 Cost. “da parte” dell’art. 322-ter cod. pen. in quanto il giudice d’appello aveva respinto come manifestamente infondate le questioni di illegittimità costituzionale dell’art. 322-ter cit. laddove lo stesso consentirebbe di far luogo alla confisca di beni anche immobili che non hanno alcun vincolo pertinenziale con il reato commesso e la cui confiscabilità risiederebbe unicamente nell’appartenenza dei medesimi al ricorrente, in tal modo violando il necessario equilibrio, imposto dal criterio di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’art.1 del Protocollo cit. integrante l’articolo 42 Cost., tra le esigenze di interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo.
Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite
Con ordinanza in data 23 novembre 2017, la Terza sezione penale della Corte di Cassazione, rilevata l’esistenza di difformità di orientamenti interpretativi in ordine alla questione di diritto coinvolta dal primo motivo di ricorso, riguardante la idoneità o meno del solo modello 770 a provare l’avvenuto rilascio delle certificazioni delle ritenute fiscali operate, rimetteva la trattazione del ricorso alle Sezioni unite.
Sul punto, infatti, sulla premessa che il rilascio delle certificazioni è presupposto o elemento costitutivo del reato in oggetto, un primo indirizzo originario aveva a suo tempo ritenuto sufficiente, per provare il rilascio delle certificazioni attestanti l’effettuazione delle ritenute, la avvenuta presentazione della dichiarazione modello 770 ad opera del sostituto d’imposta (giacché “non avrebbe senso dichiarare quello che non è stato corrisposto e, perciò stesso, certificato“).
Un secondo indirizzo, successivamente formatosi, aveva invece ritenuto appunto l’inidoneità della sola dichiarazione suddetta, ove non accompagnata da altri elementi, a provare il rilascio delle certificazioni; e ciò perché la stessa è unicamente destinata ad attestare, per il suo contenuto, l’importo delle somme corrisposte dal sostituto e delle ritenute da lui operate nonché il loro versamento, nulla invece contenendo in punto di rilascio delle certificazioni.
Di qui la natura di mero indizio della dichiarazione non sufficiente a provare l’elemento del rilascio delle certificazioni.
Si era inoltre ritenuto, sempre nell’ambito di tale orientamento, che detta impostazione avesse trovato una conferma nella modifica della norma operata con il d.lgs. n. 158 del 2015 che aveva posto, accanto al testuale riferimento delle ritenute “risultanti dalle certificazioni rilasciate“, anche quello delle ritenute dovute sulla base della dichiarazione predetta, in tal modo accreditando, per i soli fatti posti in essere successivamente alla novella, di natura innovativa e dunque non retroattiva, l’idoneità della stessa sotto il profilo probatorio richiesto.
Il Primo Presidente, dal canto suo, preso atto dell’esistenza del contrasto, con decreto del 19 dicembre 2017, assegnava il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione del medesimo in pubblica udienza la data odierna.
Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Prima di entrare nel merito della questione di diritto prospettata dal giudice remittente, le Sezioni unite circoscrivevano il tema da doversi trattare, per dirimere il contrasto prospettato, nei seguenti termini: “Se, ai fini dell’accertamento del reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, nel testo anteriore all’entrata in vigore dell’articolo 7, comma 1, lett. b), del d.Igs. 24 settembre 2015, n. 158, sia sufficiente la sola dichiarazione modello 770 proveniente dal datore di lavoro per integrare la prova dell’avvenuta consegna ai sostituiti delle certificazioni delle ritenute fiscali”.
Orbene, prima di entrare nel merito di tale problematica giuridica, si riteneva all’uopo necessario in primo luogo richiamare i tratti essenziali della disciplina relativa al versamento delle ritenute, operate sulle retribuzioni, da parte del sostituto d’imposta e, subito dopo, soffermarsi sulla regolamentazione, sotto il profilo sanzionatorio, delle relative omissioni.
Tal che si osservava a tal fine come andasse innanzitutto ricordato che la sostituzione predetta è uno strumento impositivo con il quale l’Amministrazione finanziaria, in luogo della riscossione dell’imposta direttamente dal percettore del reddito, incassa il tributo da un altro soggetto, ovvero quello che eroga gli emolumenti, il quale assume la qualifica di “sostituto” d’imposta in quanto tenuto al pagamento in luogo dell’altro (normale soggetto passivo, c.d. “sostituito“), sotto forma di prelievo di una percentuale (c.d. “ritenuta alla fonte“) della somma oggetto di erogazione (costituente reddito) e del suo successivo versamento all’Erario (in genere con cadenza mensile).
Posto ciò, si faceva altresì presente come detto istituto avesse la sua ragion d’essere nell’esigenza pratica di colpire la ricchezza da tassare nel momento della produzione, prima ancora che la stessa giunga nella disponibilità del destinatario e si applica, in base a quanto stabilito dal Titolo III del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ad una platea di soggetti comprendente gli enti pubblici, gli istituti di credito, i soggetti esercenti attività di impresa, ovvero artistica e professionale, che corrispondono redditi di lavoro dipendente o assimilati, redditi di lavoro autonomo, redditi di capitale, provvigioni inerenti a rapporti di commissione, agenzia, mediazione, rappresentanza di commercio e procacciamento d’affari o redditi diversi.
A sua volta l’operatività del meccanismo di sostituzione d’imposta comporta l’adempimento di determinati obblighi strumentali a carico del sostituto, il quale deve essenzialmente: provvedere, entro scadenze predeterminate (precisamente entro il 16 del mese successivo a quello in cui le somme sono state corrisposte), al versamento in favore dell’Erario degli importi delle ritenute operate alla fonte; rilasciare al sostituito (entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello di erogazione delle somme) una “certificazione unica” (CU) attestante l’ammontare complessivo delle somme corrisposte e delle ritenute operate (in modo da permettere al soggetto passivo di documentare e di dimostrare il prelievo subito), delle detrazioni di imposta effettuate e dei contributi previdenziali e assistenziali; trasmettere in via telematica detta certificazione all’Agenzia
delle Entrate entro il 7 marzo sempre dell’anno successivo; presentare infine la dichiarazione annuale unica di sostituto d’imposta (mod. 770) dalla quale risultino tutte le somme pagate e le ritenute operate nell’anno precedente.
A loro volta i contribuenti sono obbligati a conservare le certificazioni così rilasciate e ad esibirle a richiesta degli uffici competenti per i dovuti controlli (come previsto dall’art. 3, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600).
Quanto alla disciplina sanzionatoria, veniva ricordato che inizialmente l’omesso versamento di ritenute da parte del sostituto fosse previsto dall’art. 2 d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito dalla I. 7 agosto 1982, n. 516, che, nel suo testo originario, contemplava espressamente come condotta delittuosa il fatto di non versare «all’erario le ritenute effettivamente operate, a titolo di acconto o di imposta, sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori»; la norma veniva inoltre successivamente modificata dall’art. 3 dl. 16 marzo 1991, n. 83, convertito dalla I. 15 maggio 1991, n. 154 che provvedeva, diversificando la risposta sanzionatoria, a contemplare, alla lett. a), il fatto del mero «mancato versamento nel termine delle ritenute» ed invece, alla lett. b), il fatto del «mancato versamento nel termine delle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti», con ulteriore diversificazione, in tale secondo ambito, della sanzione a seconda del superamento o meno di determinate soglie di punibilità e, allo stesso tempo, la condotta veniva sanzionata anche in via amministrativa per effetto dell’art. 13, comma 1, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 attesa l’introduzione di una specifica previsione in tal senso riguardante i versamenti tributari in generale dovuti «alle prescritte scadenze».
Si evidenziava oltre a ciò come la previsione penale fosse stata tuttavia soppressa dall’art. 25 lett. d) del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, espressamente abrogativo del titolo I del dl. 10 luglio 1982, n. 429, convertito dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, ivi compresi, dunque, anche i reati a carico del sostituto di imposta, senza alcuna contestuale introduzione di fattispecie di reato in continuità normativa rispetto a quella di cui al citato art. 2 della legge n. 516 e, pertanto, la condotta omissiva più volte indicata, non più prevista come reato, residuava solo come illecito di carattere amministrativo, attesa la scelta del legislatore di eliminare, testualmente, una «figura criminosa (…) più di altre (…) al centro di vivaci polemiche» anche in ragione della sua caratterizzazione, né più né meno, come di mero inadempimento di un debito, sia pure nei confronti dello Stato, non caratterizzato da alcuna componente di tipo fraudolento.
Il fatto tornava però a riacquistare le caratteristiche di illecito penale con l’art. 1, comma 414, della I. 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria per l’anno 2005), che provvedeva ad inserire nell’impianto normativo del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 l’art. 10-bis dal titolo «Omesso versamento di ritenute certificate», venendo questa volta, infatti, sanzionato l’omesso versamento, unicamente ove riguardante «ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti», per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo di imposta.
Infine, la norma in questione era stata modificata per effetto dell’art. 7 del d.lgs. 24 settembre 2015 n. 158, sì che attualmente è punito «chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta».
Alla luce di questo articolato excursus normativo, i giudici di Piazza Cavour evidenziavano quindi che a parte l’innalzamento della soglia della rilevanza penale, apparisse dunque evidente l’elemento differenziale nelle due versioni della norma: mentre in quella ante 2015 si faceva riferimento alle sole «ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti» (quindi il CUD o CU) ad oggi la norma appare operare anche, ed alternativamente, il riferimento alle «ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione» (cioè quella annuale del sostituto, e, quindi, il mod. 770).
Premesso ciò, le Sezioni Unite iniziavano ad affrontare la questione sottoposta al loro scrutinio giurisdizionale evidenziando la sussistenza di due diversi orientamenti nomofilattici.
Si osservava in particolare come un primo orientamento fosse stato originato dalla pronuncia di Sez. 3, n.1443 del 15/11/2012 (dep.2013), omissis, Rv. 254152: nell’affermare che nel reato di omesso versamento di ritenute certificate, la prova delle certificazioni attestanti le ritenute operate dal datore di lavoro, quale sostituto d’imposta, sulle retribuzioni effettivamente corrisposte ai sostituiti, può essere fornita dal pubblico ministero mediante documenti, testimoni o indizi, la sentenza riconosce espressamente come sufficiente a tal fine la allegazione dei nnod. 770 provenienti dal datore di lavoro.
Nel dettaglio, dopo avere premesso che l’art. 10-bis, pur costituendo «una nuova fattispecie criminosa introdotta o reintrodotta dalla novella citata senza alcuna continuità normativa con le disposizioni previgenti», opera sullo stesso piano della norma abrogata, seguendo una ratio consistente nell’ «impedire, attraverso la sanzione penale, che il datore di lavoro ometta di versare le somme trattenute, quale sostituto di imposta, sulle retribuzioni corrisposte al lavoratori», la pronuncia appena citata sottolineava come la norma, mediante il riferimento alle “certificazioni rilasciate ai sostituiti” in luogo della più generica formula che si rinveniva nell’articolo 2 del dl. 10 luglio 1982 n. 429, convertito in I. 7 agosto 1982 n. 516 (“le ritenute effettivamente operate, a titolo di acconto o di imposta, sulle somme pagate“), avesse inteso esplicitare in modo assolutamente chiaro che la sanzione penale trova applicazione soltanto sulle ritenute effettivamente operate sulle retribuzioni corrisposte ai dipendenti; non vi sarebbe dunque ragione «per ritenere che la prova del rilascio quale elemento costitutivo del reato debba ricavarsi solo dalle “certificazioni” senza possibilità di ricorrere ad “equipollenti” potendo l’onere probatorio essere assolto dal pubblico ministero «mediante il ricorso a prove documentali o testimoniali oppure attraverso la prova indiziaria».
Di qui, dunque, l’idoneità a tal fine anche del modello 770 posto che da esso emerge la prova delle ritenute operate e che tali ritenute «devono ritenersi per ciò stesso certificate, dal momento che non avrebbe senso dichiarare quello che non è stato corrisposto e, perciò stesso, certificato».
Osservavano altresì le Sezioni Unite nella pronuncia in commento, come tale indirizzo fosse risultato successivamente seguito, tra le altre, da Sez. 3, n. 33187 del 12/06/2013, omissis, Rv. 256429; Sez. 3, n. 20778, del 06/03/2014, omissis, Rv. 259182; Sez. 3, n. 19454 del 27/03/2014, omissis, Rv. 260376, ove i concetti già enucleati dalla pronuncia Salmistrano venivano ripresi e ribaditi pur nella qualificazione del rilascio delle certificazioni talora come elemento costitutivo del reato (in tal senso Sez. 3, n. 33187 del 12/06/2013, omissis, cit., e Sez. 3, n. 19454 del 27/03/2014, omissis, cit.) e talaltra quale presupposto del reato stesso (in tal senso Sez. 3, n. 20778, del 06/03/2014, omissis, cit.).
Un secondo orientamento, che ha ben presto assunto, nella giurisprudenza della Corte, le dimensioni di indirizzo largamente maggioritario, era stato viceversa inaugurato da Sez. 3, n. 40256 del 08/04/2014, omissis, Rv. 259198.
Dopo avere premesso che anche secondo l’interpretazione fatta propria dalle Sezioni Unite e dalla prevalente dottrina l’elemento specializzante che determina il configurarsi della natura delittuosa della fattispecie è costituito dal rilascio della certificazione al sostituito e che quindi la norma penale non può trovare applicazione, non solo nei casi in cui il sostituto non abbia operato le ritenute, ma anche nei casi in cui non abbia rilasciato la certificazione o la abbia rilasciata in un momento successivo alla scadenza del termine per effettuare il versamento, si affermava che «gli elementi costitutivi della fattispecie, necessari per attribuire rilevanza penale alla fattispecie sono costituiti dalle parti di condotta attiva comprendenti sia l’effettuazione della ritenuta e sia la successiva emissione della certificazione».
Si aggiungeva che «trattandosi (…) di elementi costitutivi del reato (ma le conseguenze non cambierebbero anche se si volesse parlare di presupposti del reato) per ritenere sussistente il delitto è necessario che l’accusa fornisca la prova di tali elementi e, in particolare (…) che il sostituto abbia rilasciato ai sostituiti la certificazione (o le certificazioni) da cui risultino le ritenute il cui versamento è stato poi omesso», dovendo, peraltro, detta prova non essere necessariamente data dalla produzione delle certificazioni stesse, ma potendo consistere anche in altre prove documentali ovvero anche orali.
Tra di esse, tuttavia, si notava altresì che non potesse essere ricompresa la sola dichiarazione modello 770: da un lato perché la stessa non contiene la dichiarazione di avere tempestivamente emesso le certificazioni ma solo di avere erogato le retribuzioni ed effettuato le ritenute, e dall’altro perché, tra dichiarazione modello 770 e certificazione rilasciata ai sostituiti, disciplinati da fonti distinte, rispondenti a finalità non coincidenti e che non devono essere consegnati o presentati contestualmente, vi sono differenze sostanziali tali da non consentire di ritenere, automaticamente, che l’uno non possa risultare indipendente dall’altro.
Di qui, dunque, rilevano, secondo la Corte, le diverse conclusioni rispetto al primo indirizzo ricordato.
Gli assunti della pronuncia appena citata, osservano sempre le Sezioni unite, erano stati successivamente ribaditi da numerose pronunce, tutte nel senso, per le medesime ragioni, della inidoneità della sola dichiarazione modello 770 a provare l’avvenuto rilascio delle certificazioni (Sez. 3, n. 10475/15 del 9/10/2014, omissis, Rv. 263007; Sez. 3, n. 11335/15 del 15/10/2014, omissis, Rv. 262855; Sez. 3, n. 6203 del 29/10/2014, omissis, Rv. 262365; Sez. 3, n. 37075/15 del 19/12/2014, omissis Sez. 3, n. 5736 del 21/01/2015, omissis; Sez. 3, n. 10104 del 7/1/2016, omissis, Rv. 266301; Sez. 3, n. 7884 del 4/2/2016, omissis; Sez. 3, n. 41468 del 30/03/2016, omissis; Sez. 3, n. 48591 del 26/4/2016, omissis, Rv. 268492; Sez. 3, n. 48302 del 20/09/2016, omissis; Sez. 7, n. 53249 del 23/09/2016; omissis; Sez. 3, n. 51417 del 29/11/2016, omissis; Sez. 3, n. 10509/17 del 16/12/2016, omissis, Rv. 269141; Sez. 3, n. 57104 del 12/4/2017, omissis; Sez. 3, n. 30139 del 15/6/2017, omissis, Rv. 270464; Sez. 3, n. 36057 del 11705/2017, omissis; Sez. 3 n. 1439/18 del 12/7/2017, omissis; Sez. 3, n. 46390 del 9/10/2017, omissis; Sez. 3, n. 2393 del 22/1/2018, omissis).
Orbene, una volta enucleati questi distinti indirizzi interpretativi, le Sezioni unite ritenevano di dovere adire a quello maggioritario per le seguenti ragioni.
Si premetteva prima di tutto come non potesse porsi in dubbio la circostanza che il legislatore del 2004, nel reintrodurre (secondo il percorso illustrato sopra) l’illecito penale di omesso versamento delle ritenute, già previsto, anteriormente, dalla I. n. 516 del 1982 e successivamente abrogato dal d.lgs. n. 74 del 2000, avesse condizionato testualmente l’illecito alle sole ritenute, il cui omesso versamento viene sanzionato, “risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti“; in altri termini, solo le ritenute che risultino, ovvero siano attestate, dalle certificazioni predette sono quelle idonee ad attingere il grado di disvalore penale considerato dal legislatore.
Né un tale dato, la cui evidenza è tale che nessuna delle pronunce della Cassazione che si sono occupate del tema al vaglio delle Sezioni Unite, sia se riconducibili al primo sia se riconducibile al secondo degli indirizzi illustrati, aveva mai potuto affermare il contrario – prosegue la Corte nel suo ragionamento decisorio – appare revocabile in dubbio sulla base di pur plausibili considerazioni di carattere sistematico: la eventuale irrazionalità della scelta di assoggettare a sanzione penale, diversamente dalla originaria impostazione della I. n. 516 del 1982, il mancato versamento delle ritenute solo se accompagnato dal rilascio delle relative certificazioni (sì che una condotta altrimenti penalmente irrilevante verrebbe ad assumere significato penalistico solo là dove ad essa si accosti un comportamento costituente adempimento di un dovere, finalizzato a garantire al sostituito il diritto a detrarre la ritenuta subita, evitando così il prodursi di una doppia imposizione) non potrebbe certo offuscare il chiaro significato della norma, insuscettibile, per il rispetto dovuto al principio di legalità, di interpretazioni in definitiva abrogatrici della locuzione qui in esame.
Del resto si evidenziava per un verso, come, anche restando sul piano di una interpretazione di ordine logico-critico, non si sarebbe potuto sottacersi il significato di un elemento (quello, appunto, del rilascio delle certificazioni) che, come a suo tempo già evidenziato da Sez. Un. Favellato, appare svolgere in realtà la funzione di differenziare l’illecito penale dal mero illecito amministrativo: una funzione, dunque, di carattere selettivo, che, sia pure comportando il sacrificio della realtà materiale al fine di privilegiare solo quella “contabilizzata” o “certificata“, appare tutt’altro che incomprensibile, ove si rifletta sulla necessità, alla luce del principio del ne bis in idem e della sua portata sempre più cogente, di una precisa demarcazione, a partire soprattutto dal momento della legiferazione, tra il “fatto” intrinsecamente penale (a prescindere dalle denominazioni coniate dal legislatore) e quello solo amministrativo, per altro verso, che non era secondario considerare, sempre nell’ambito di una razionale differenziazione dei due campi, la maggiore gravità di una condotta destinata ad incidere, proprio perché accompagnata dal rilascio delle certificazioni, sullo stesso rapporto fiduciario con il sostituito.
Da ciò si faceva conseguire come, ai fini della consumazione del reato in oggetto, occorresse il rilascio delle certificazioni, sia che lo stesso venga configurato come elemento costitutivo del reato (come è dato rinvenire nella gran parte delle decisioni sopra segnalate), sia invece che lo stesso venga configurato quale presupposto di esso (come una parte minoritaria della giurisprudenza mostra di ritenere) anche perché entrambi i suesposti indirizzi, da un lato, significativamente non uniformi al loro interno proprio su questo punto, convengono su tale postulato, in definitiva implicitamente fatto proprio anche dalle già rammentate Sezioni Unite Favellato che, sia pure restando, come visto, ondivaghe sulla esatta qualificazione di tale elemento, hanno però implicitamente considerato necessario, ai fini della consumazione del reato, il rilascio delle certificazioni, dall’altro, appaiono convenire sul fatto (o comunque appaiono implicitamente muovere dallo stesso, non essendovi affermazioni di segno contrario) che, ai fini di provare il rilascio delle certificazioni, non è necessaria l’acquisizione materiale delle certificazioni stesse, perché ben possono supplire prove documentali anche di altro genere o prove orali (tra cui in primis le dichiarazioni rese dal sostituito).
Una volta rilevati gli elementi di comunanza di questi due approdi ermeneutici, la Cassazione ne evidenziava anche i punti di discontinuità riconducendo questi in buona sostanza su una valutazione di carattere probatorio nel senso che se l’unico vero sostanziale effetto differentemente conseguente ai due orientamenti sarebbe quello di esonerare o meno il pubblico ministero dall’onere di ricercare, al fine del raggiungimento della prova richiesta sul punto già sottolineato, elementi ulteriori e diversi (orali, come ad esempio le dichiarazioni dei sostituiti, o documentali) rispetto alla sola dichiarazione modello 770, il pubblico ministero non è comunque esonerato da tale prova per il fatto che l’imputato non abbia allegato circostanze ed elementi in senso contrario, non essendo, nell’ordinamento processuale penale, previsto un onere probatorio a carico dell’imputato modellato sui principi propri del processo civile (Sez. 5, n. 32937 del 19/05/2014, omissis, Rv. 261657) dato che, sia norme sovraordinate di carattere generale internazionali (specificamente l’art. 6.2. della Convenzione Edu e l’art. 14 n.2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, entrambe espressamente indicanti la necessità che la colpevolezza dell’accusato sia provata secondo legge) e interne (art. 25 Cost. in ordine alla presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva), sia norme processuali (specificamente l’art. 533 cod. proc. pen. ove si stabilisce che il giudice pronuncia sentenza di condanna solo là dove l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio) appaiono indicative della fissazione in senso “sostanziale“, a carico di chi sostenga la tesi di accusa nel processo penale, di un preciso onere di prova (in tale ultimo senso, Sez. 3, n. 2393 del 2018, omissis, cit.).
Escluso di conseguenza che il contrasto segnalato riguardi l’esegesi della norma, in particolare con riguardo all’elemento oggettivo del reato contemplato, gli indirizzi già illustrati divergevano quindi, in definitiva, in ordine alla possibilità o meno di includere di per sé solo, tra gli elementi indicativi dell’avvenuto rilascio della certificazione unica attestante le ritenute effettuate, il “documento” rappresentato dal mod. 770 (dichiarazione del sostituto d’imposta).
Appare allora significativo, secondo la Corte, per dirimere questo contrasto, in primo luogo, un primo dato oggettivo: il quadro ST del modello 770 non appare, come ben posto in risalto dall’indirizzo maggioritario, recare alcuna specifica indicazione in ordine al rilascio delle certificazioni avendo invece ad oggetto, per quanto qui interessa, unicamente i dati dell’”importo versato” e delle “ritenute operate“, né alcun valore probatorio potrebbe evidentemente connettersi alle istruzioni per la compilazione del modello 770 semplificato là dove si prescrive che «detto modello contiene i dati relativi alle certificazioni rilasciate ai soggetti cui sono stati corrisposti (…) i redditi di lavoro dipendente» (così: Sez. 3, n. 20778 del 2014), essendo chiara in tale dizione la volontà di riferirsi non già al fatto del rilascio, ma a quello della necessità di indicazione, in dichiarazione, delle medesime ritenute di cui alla certificazione unica, ove rilasciata.
Ed infatti, proprio per superare un tale impasse, l’indirizzo più risalente era ricorso sostanzialmente ad un ragionamento di carattere presuntivo, essendosi affermato che «non avrebbe senso dichiarare quello che non è stato corrisposto e perciò stesso certificato» (testualmente, Sez. 3, n. 20778 del 2014, omissis, cit.).
Sennonché si censurava (nella pronuncia in commento) tale argomentazione giuridica giacchè intendere questa affermazione così intesa, nel senso di finalizzare a postulare che, secondo l’id quod plerumque accidit, ciò che si dichiarerebbe nel mod. 770 sarebbe allo stesso tempo anche ciò che si certifica (il riferimento alla “corresponsione” deve ritenersi improprio perché ciò di cui si tratta non sono gli emolumenti ma le ritenute, che non si corrispondono ma si effettuano), ed equiparati dunque l’indicazione nel modello 770 alla attestazione nelle certificazioni, resta tuttavia, a detta della Corte, un tale assioma ancora una volta “scoperto” e non colmabile dal punto di vista logico, il dato del rilascio.
Si riteneva dunque condivisibile l’assunto sostenuto nella sentenza Sez. 3, n. 40256 del 2014, omissis, e segnatamente nella parte in cui si enuncia quanto segue: «se davvero la presentazione della dichiarazione di sostituto presupponesse, secondo il criterio dell’ id quod plerumque accidit, sempre e comunque la formazione e consegna dei certificati ai sostituiti, il legislatore ne avrebbe certamente tenuto conto ed avrebbe, con notevole semplificazione probatoria, punito unicamente il mancato versamento delle ritenute riportate nella dichiarazione modello 770. Se ciò non ha fatto, ed ha anzi modificato la precedente normativa (che richiedeva soltanto l’omesso versamento delle ritenute), è proprio perché il legislatore era ben consapevole delle differenze strutturali e della radicale autonomia dei due distinti documenti, sicché non era possibile desumere automaticamente dall’esistenza dell’uno la sussistenza dell’altro».
A fronte di ciò, venivano ritenute non favorevoli per la tesi opposta sia la questione della natura da attribuire al modello 770, se cioè avente valore di confessione stragiudiziale, come parrebbe adombrato da Sez. 3, n. 10104 del 2016, omissis, cit., ma escluso da Sez. 3, n. 11335 del 2015, omissis, cit., e da Sez. 3, n. 2393 del 2018, omissis, cit. (nel senso della dichiarazione fiscale quale «mera esternazione di scienza», Sez. U. Civ. n. 13378 del 07/06/2016, omissis contro Ministero delle Finanze, Rv. 640206) ritenendosi detta questione fondamentalmente irrilevante, e ciò proprio perché il modello non contiene alcun riferimento al rilascio delle certificazioni sì che da esso potrebbe dunque eventualmente dedursi la “confessione” di avere operato le ritenute ma non certo quella di avere rilasciato le relative certificazioni, sia il riferimento al modello DM 10 di versamento dei contributi previdenziali attestante le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e l’ammontare degli obblighi contributivi stimato impropriamente evocato ove si tenga conto della diversità di contenuto della prova necessaria (corresponsione degli emolumenti da un lato, appunto, e rilascio delle certificazioni dall’altro).
Di talchè se ne faceva derivare la condivisibilità della conclusione secondo cui le indicazioni contenute nel modello 770 non sono da sole idonee a provare il fatto del rilascio delle certificazioni, essendo indizio che, se può essere sufficiente in sede cautelare reale a fronte del differente standard dimostrativo richiesto (Sez. 3, n. 46390 del 2017, omissis, cit., e Sez. 3, n. 48591 del 2016, omissis, cit.), non lo è però in giudizio a fronte del canone, ad esso riferito, dell’accertamento al di là di ogni ragionevole dubbio cristallizzato dall’art. 533 cod. proc. pen.; e ciò, va sottolineato, a prescindere, come già affermato in talune delle pronunce sopra richiamate, dalla attribuibilità, alla circostanza del rilascio delle certificazioni, della veste di presupposto del reato ovvero di elemento costitutivo dello stesso anche perché, venendo ad esaminare quest’ultimo profilo giuridico, si osservava come la formale distinzione tra “presupposti del reato” ed “elementi costitutivi” dello stesso fosse impropriamente posta dal momento che era stata correttamente puntualizzato in dottrina come i presupposti del reato, tra i quali vengono annoverati, tra gli altri, il soggetto attivo e passivo, la condotta e l’oggetto materiale, altro non siano, logicamente, che quegli stessi requisiti necessari per la qualificazione del fatto come illecito penale ovvero, in altri termini, gli stessi elementi costitutivi, sì che nessuno spazio di reale differenziazione tra i due concetti potrebbe evidentemente sussistere. Pertanto dovrebbe allora più correttamente parlarsi di “presupposti della condotta“, da intendersi, atteso anche il significato lessicale della locuzione (“ciò che si pone come precedente ad altro e come sua condizione“), come circostanze, di fatto o di diritto, preesistenti alla realizzazione di essa (in relazione al criterio di anteriorità cronologica necessariamente discendente dal già indicato significato letterale del sostantivo) e necessarie per attribuire un “significato criminoso” alla condotta stessa; ma anche in tal caso, rileva la Cassazione, e proprio perché anche tali circostanze sarebbero comunque necessarie ai fini dell’integrazione del reato, sarebbe assai difficile individuare una reale differenza rispetto agli elementi costitutivi del reato, se non in termini di elemento psicologico posto che, essendosi tali circostanze già realizzate, le stesse potrebbero essere unicamente conosciute, ma non volute dal soggetto agente.
Del resto, proseguivano i giudici di legittimità ordinaria nell’avvalorare questa tesi giuridica, il sintomo della difficoltà di attribuire un significato autonomo alla nozione di presupposto rispetto a quella di elemento costitutivo del reato appare nella specie plasticamente dato dalla incertezza in cui, con riferimento alla questione di specie qui trattata, appaiono essere incorse le pronunce già richiamate allorquando si è trattato di inquadrare il rilascio delle certificazioni nell’una o nell’altra delle due categorie, e tale incertezza appare nella specie accentuata dal fatto che il rilascio delle certificazioni è circostanza ordinariamente consistente in una condotta posta in essere dallo stesso soggetto agente che incorra nell’omissione del versamento salvo che, successivamente al rilascio e prima della scadenza del termine annuale prevista per la presentazione della dichiarazione, abbia a mutare la persona fisica del sostituto di imposta sicché, in tal caso, anche l’eventuale margine di utile significato rinvenibile nel concetto di presupposto della condotta (conosciuto ma non voluto secondo appunto la dottrina sopra richiamata) verrebbe, nella specie, quasi sempre a dissolversi.
Di conseguenza, alla luce di questo passaggio argomentativo, si rimarcava come ove, come pare necessario, si dovesse privilegiare il significato letterale del termine, chiaramente volto ad evidenziare la anteriorità cronologica del fatto, il rilascio delle certificazioni, fisiologicamente anteriore alla scadenza del termine per il versamento (anche nella struttura della norma, che significativamente appare impiegare il participio passato “rilasciate“), e stimata più correttamente inquadrabile nella categoria del presupposto della condotta senza che, però, ciò possa portare ad escludere la necessità che di tale circostanza, necessaria per integrare l’illecito penale anche soprattutto per differenziare quest’ultimo, come ricordato in premessa, dall’illecito amministrativo, debba essere data prova.
Espresso ciò, si denotava altresì come la fondatezza degli approdi raggiunti dalla giurisprudenza di segno più rigoroso apparisse poi non contraddetta dagli sviluppi normativi già segnalati con riguardo in particolare alle modifiche operate, sul corpus dell’art. 10-bis cit., dall’art. 7 del d. Igs. n. 158 del 2015 atteso che la revisione della norma è consistita nella integrazione della rubrica dell’articolo (passata da «omesso versamento di ritenute certificate» a «omesso versamento di ritenute dovute o certificate») e nella apposizione, accanto al periodo «risultanti dalla certificazione rilasciata», del periodo «dovute sulla base della stessa dichiarazione»; perciò, operando in tal guisa, anziché ricostruire la fattispecie nel senso di un ritorno all’impianto come disciplinato dal d.l. n. 429 del 1982, ove l’obbligo di versamento penalmente presidiato riguardava semplicemente le ritenute «effettivamente operate», si era scelto non solo di mantenere la necessità di una “fonte” di attestazione delle stesse, ma altresì di duplicare la stessa mediante il ricorso anche al contenuto della dichiarazione.
Tale necessità di chiarimento del significato della norma, a sua volta, non poteva che essere rapportata, logicamente, ad opinione della Cassazione, all’incertezza determinata dal dibattito giurisprudenziale avutosi appunto con riguardo alle modalità probatorie del fatto del rilascio della certificazione unica essendo la disposizione stata ricostruita quanto al momento “attestativo” delle ritenute, non più confinato solo a quanto risultante dalla certificazione ma esteso anche a quanto dovuto sulla base del contenuto della dichiarazione modello 770 (che riporta l’indicazione delle ritenute operate): in tal modo si era reso dunque non più indispensabile provare il previo rilascio della certificazione unica potendo guardarsi, per l’individuazione delle ritenute il cui omesso versamento deve essere sanzionato, anche al solo modello 770.
Se questo era il significato della modifica, la Corte riteneva allora come non potesse sussistere il dubbio sulla portata innovativa della norma che, prendendo atto del prevalente orientamento della Cassazione, aveva obiettivamente inciso sullo stesso oggetto materiale della condotta la cui omissione è sanzionata, la cui individuazione, dapprima limitata a quelle sole ritenute che risultavano dalla certificazione, è oggi estesa alle ritenute emergenti dalla dichiarazione modello 770
Né in senso contrario, come la stessa ordinanza di rimessione pareva invece prospettare, avrebbe potuto valorizzarsi la volontà di mero “chiarimento” che avrebbe animato il legislatore nell’effettuare la interpolazione in oggetto: se il chiarimento si è tradotto, come pare indubitabile, nella individuazione di un oggetto dell’omesso versamento alternativo a quello in origine contenuto nella norma e in precedenza in alcun modo ricavabile dal testo (il riferimento alla dichiarazione compare solo nella nuova versione), appare, a detta delle Sezioni unite, non corretto discorrere di norma di interpretazione autentica; e ciò, tanto più ove si consideri quanto correttamente evidenziato in particolare dalla sentenza Gagliardi in ordine alle differenze e alle diverse finalità di certificazione unica da una parte e dichiarazione del sostituto d’imposta dall’altra; in particolare va ribadito che la certificazione delle ritenute è regolata, per quanto qui interessa, dall’art. 4, comma 6 – ter, del d.P.R. n. 322 del 1998 ed ha la funzione di attestare l’importo delle somme corrisposte dal sostituto di imposta e delle ritenute da lui operate, dovendo essere consegnata entro il 31 marzo di ogni anno.
La dichiarazione mod. 770 è invece disciplinata dall’art. 4, comma 1, e segg. del d.P.R. n. 322 del 1998, ed è destinata ad informare l’Agenzia delle entrate delle somme corrisposte ai sostituiti, delle ritenute operate sulle stesse e del loro versamento all’erario e deve essere inoltrata nella data fissata volta per volta dal legislatore.
Infine, mentre le certificazioni devono essere emesse soltanto quando il datore ha provveduto a versare le ritenute, la dichiarazione va invece obbligatoriamente presentata entro il termine stabilito per legge (salva, in caso contrario, l’applicazione di sanzioni amministrative).
Si osservava del resto come nella stessa relazione illustrativa al decreto legislativo si precisasse anche, subito dopo il passaggio già ricordato, che la integrazione della rubrica del novellato art. 10-bis era stata imposta dalle «modifiche introdotte e, in particolare dell’estensione del comportamento omissivo non più alle sole ritenute “certificate” ma anche a quelle “dovute” sulla base della dichiarazione annuale del sostituto d’imposta», una tale precisazione finendo quanto meno per neutralizzare la possibile portata del riferimento all’esigenza di “chiarimento” nel senso della natura meramente interpretativa del nuovo testo.
Soccorreva, del resto, sul punto, quanto affermato dalla Corte Costituzionale con riferimento al fatto che l’essenza di una norma interpretativa deve essere quella di imporre per legge una scelta nell’interpretazione di una norma che “rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore” (Corte cost. n. 525 del 2000). Sempre il giudice delle leggi ha poi chiarito che «va riconosciuto il carattere interpretativo ad una legge, la quale, fermo restando il testo della norma interpretata, ne chiarisca il significato normativo e privilegi una delle tante interpretazioni possibili, di guisa che il contenuto precettivo sia espresso dalla coesistenza di due norme, quella precedente e quella successiva, che ne esplica il significato e che rimangono entrambe in vigore» (Corte cost. n. 455 del 1992) e, in altra decisione, sempre il giudice delle leggi ha spiegato essere necessario che «la scelta ermeneutica imposta dalla legge interpretativa rientri fra una delle possibili varianti di senso del testo interpretato, cioè stabilisca un significato che ragionevolmente poteva essere ascritto alla legge anteriore» (Corte cost. n. 480 del 1992).
Ora, come appena evidenziato sopra, le Sezioni unite rilevavano a questo proposito che la diversità strutturale e funzionale dei due documenti impedisce che, nel testo anteriore della norma, potesse rinvenirsi il significato oggetto del “chiarimento” attuato con la nuova formulazione così come non poteva al contempo trascurarsi che uno dei limiti all’adozione di norme interpretative fosse da ravvisarsi proprio nella materia penale (Corte cost. n. 525 del 2000, n. 311 del 1995 e n. 397 del 1994).
Alla luce di quanto sin qui esposto, le Sezioni Unite ne facevano derivare il dato della portata innovativa della modifica legislativa, allo stesso tempo (stimata) di indiretta “conferma” dell’indirizzo maggioritario della Corte, che esclude qualunque possibilità di sua applicazione retroattiva in ossequio agli artt. 2 cod. pen. e 25 Cost., con la conseguenza che il contrasto devoluto al loro scrutinio giurisdizionale, riguardante un’omissione realizzata nell’anno 2011, dovesse essere sciolto unicamente sulla base del dato previgente.
Allo stesso tempo, e per le stesse ragioni, si considerava irrilevante, nella specie, ogni possibile questione di legittimità costituzionale o di violazione del divieto di bis in idem, pur prospettate da attenta dottrina a seguito dell’analisi del nuovo testo, e ciò perché le argomentazioni addotte per sostenere queste censure di illegittimità costituzionale prescindevano dai non trascurabili aspetti critici che la novazione legislativa appare avere comportato, primo fra tutti il fatto che le ritenute risultanti dalla certificazione potrebbero anche, nella variegata realtà dei casi, non coincidere con quelle riportate in dichiarazione (il legislatore parrebbe invece muovere dal presupposto in senso contrario), sì che l’interprete, a fronte della equipollenza, oggi posta dalla norma, dell’una e dell’altra documentazione, resterebbe libero di propendere per la prima ovvero per la seconda pur in presenza della possibile differenza di importi tanto più rilevante attesa la previsione della soglia di punibilità contemplata dalla disposizione in esame.
Si perveniva in conclusione a formulare il seguente principio di diritto: «con riferimento all’art. 10-bis nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dal d. Igs. n. 158 del 2015, la dichiarazione modello 770 proveniente dal sostituto di imposta non può essere ritenuta di per sé sola sufficiente ad integrare la prova della avvenuta consegna al sostituito della certificazione fiscale».
Conclusioni
L’arresto giurisprudenziale in questione è il frutto di un lungo e articolato ragionamento giuridico in cui si addiviene a comporre il contrasto avvalendosi di diverse e plurime argomentazioni.
Il giudizio, dunque, non può che essere positivo.
Resta da dire che, sul piano pratico, per la configurabilità del delitto di cui all’art. 10 bis del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (Omesso versamento di ritenute dovute o certificate), nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dal d.Igs. n. 158 del 2015, la dichiarazione modello 770 proveniente dal sostituto di imposta non potrà essere ritenuta di per sé sola sufficiente ad integrare la prova della avvenuta consegna al sostituito della certificazione fiscale, ma sarà necessaria altra documentazione atta a dimostrare ciò.
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