1) Normativa
Il Codice penale dedica ai reati commessi all’estero gli artt. 7, 8, 9 e 10 di cui al Titolo I (“Della legge penale”) del Libro I (“Dei reati in generale”). Li accomuna, oltre il fatto di reato extra moenia, la qualificazione da parte della legge penale italiana, attraverso la formula “è punito secondo la legge italiana” (o “secondo la legge medesima”)1. In tal senso, l’art. 11, comma 2, c.p., profilando la deroga al principio del ne bis in idem, ammette il rinnovamento del giudizio estero, intervenuto su casi regolati da tali articoli, da parte della giurisdizione italiana. L’art. 10 c.p.p. regola la competenza per i reati commessi all’estero.
Nel caso dell’art. 7 opera dapprima il principio della difesa, a presidio dei supremi interessi statutali. Infatti, vengono individuati delitti (corrispondenti ai numeri 1, 2, 3 e 4) sempre perseguibili e sottratti a preclusioni di rito. La disposizione segue poi il principio di universalità della legge penale (numero 5), applicando quest’ultima a reati i cui beni tutelati interessano tutti gli Stati. L’art. 8 ascrive la categoria del delitto politico a fattispecie ulteriori e residuali (“non comprese”, dice l’articolo) rispetto ai delitti contemplati al n. 1 dell’art. 7. Tale categoria è prevista nei più ampi termini di “reato politico” dall’art. 698, comma 1, c.p.p. ai fini dell’estradizione.
L’art. 9 opera “fuori dei casi indicati nei due articoli precedenti”. Il comma 3 prevede che il delitto sia commesso ai danni delle Comunità Europee, di uno Stato estero o di uno straniero. Lo Stato estero è soggetto passivo specifico del delitto, non titolare della relativa repressione, al pari del successivo art. 10, comma 2. Nel caso dell’art. 10 si persegue il delitto comune commesso all’estero dallo straniero ai danni dello Stato italiano e del cittadino, (comma 1). In tal caso, lo Stato è contestualmente soggetto passivo specifico e titolare della funzione repressiva.
Per inciso, gli artt. 17 e 18 c.p.m.p. disciplinano i reati militari commessi all’estero (vanno citati anche gli artt. 239 e 255 c.p.m.g.). L’art. 17 qualifica il fatto di reato “osservate le convenzioni e gli usi internazionali”, applicandosi la legge penale militare “alle persone che vi sono soggette”. L’art. 18 qualifica il fatto “secondo la legge medesima” con la formula del Codice penale. Il reato militare commesso all’estero è perseguito senza distinzioni tipologiche. Trattandosi di reato (e non di delitto), non è esclusa astrattamente la perseguibilità di contravvenzioni, per quanto i reati previsti dai codici militari corrispondano a delitti2 (art. 37, comma 3, c.p.m.p.).
L’extraterritorialità della legge penale militare3, stabilita dall’art. 18 c.p.m.p., è ispirata al criterio personale e territoriale. In base al primo, la legge segue, in senso figurato, il militare (anche in suolo straniero). Il criterio territoriale, riferito allo Stato estero, è invece un limite alla procedibilità, rimuovibile dalla richiesta del Ministro di cui all’art. 184. Quando l’art. 17 c.p.m.p. equipara il caso regolato al reato commesso nel territorio nazionale (a misura del previgente art. 28 Preleggi), il criterio personale non è ritenuto preminente5.
Si legga anche:” La sentenza di condanna emessa in Italia può essere eseguita all’estero”
2. Territorialità della legge penale
Proprio perché consentono la persecuzione di reati commessi all’estero, le disposizioni sovra citate costituiscono una deroga al principio di territorialità della legge penale. Parte della dottrina ritiene che l’entità delle deroghe al principio di territorialità sia tale che ricorra il criterio dell’universalità della legge penale6. Secondo il principio di territorialità, l’applicazione della legge penale è, di regola, circoscritta al territorio dello Stato ed alla sua osservanza sono tenuti cittadini, stranieri e apolidi che vi stanziano7. Si prospetta così il locus commissi delicti e la conseguente giurisdizione8.
Infatti, l’art. 3, comma 1, c.p. (“Obbligatorietà della legge penale”) stabilisce che “la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale”9. Al contempo, l’art. 6, comma 1, c.p. (“Reati commessi nel territorio dello Stato”) stabilisce che “Chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana”. Attingendo al termine “chiunque”, la legge non distingue tra cittadino e straniero.
La nozione di “territorio dello Stato” è, a sua volta, declinata all’art. 4, comma 2, c.p. (“Cittadino italiano. Territorio dello Stato”) per cui: “Agli effetti della legge penale, è territorio dello Stato il territorio della Repubblica ed ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato. Le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge territoriale straniera”.
La deroga al principio di territorialità da parte delle disposizioni in esame è specificata in senso generale dall’art. 3, comma 2, c.p. per cui “La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovino all’estero, ma limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale”, ove tra i “casi stabiliti dalla legge medesima (penale, NDR)” rientrano segnatamente gli artt. 7, 8, 9 e 10 c.p. in esame. Per quanto precede, infatti, la sanzione prevista da tali articoli consegue alla qualificazione del reato commesso all’estero “secondo la legge italiana” (o “secondo la legge medesima”). L’art. 3, comma 2, c.p. è disposizione di opportuno coordinamento, per quanto gli articoli in esame, quali norme derogatorie, siano precettivamente autonomi nel sistema.
Le suddette regole sono accorpate dall’art. 17 c.p.m.p. secondo cui “La legge penale militare si applica alle persone che vi sono soggette, anche per i reati commessi in territorio estero (…)” e dall’art. 18 c.p.m.p. secondo cui “per i reati commessi all’estero le persone soggette alla legge penale militare sono punite secondo la legge medesima (…)”.
La deroga al principio di territorialità, proprio perché importa la valenza extra moenia della norma incriminatrice e quindi l’implicito contatto con ordinamenti giuridici diversi, è temperata in determinati casi da specifici autovincoli che il legislatore si impone e che consistono sia in condizioni obiettive di punibilità del reato sia in condizioni di procedibilità dell’azione penale ossia, ut infra, in eventi esterni al reato, determinati da ragioni di opportunità anche metagiuridiche, il cui verificarsi subordina la perseguibilità del reato stesso.
Va precisato che l’estradizione (artt. 13 c.p. e 697 c.p.p.), inerendo alla disponibilità fisica dell’imputato circa una possibile sottoposizione a provvedimenti restrittivi o sanzioni penali, “non riguarda l’esercizio dell’azione penale e della giurisdizione, che sono sempre attuabili quando un imputato si trovi all’estero e siano osservate le forme processuali relative alla notificazione”10.
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3. Questioni concettuali
L’intitolato dell’art. 7 c.p. qualifica la fattispecie regolata come “Reati (…)”. Secondo il numero 5 dello stesso articolo è perseguito “ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana”11. L’art. 7 c.p. prevede, dunque, fattispecie corrispondenti a delitti (i numeri 1, 2, 3, 4, cit.) e, quando richiama la nozione di “reato” (n. 5, cit.), a delitti e contravvenzioni. Infatti, secondo l’art. 39 c.p. (da coordinarsi con il precedente art. 17 c.p.), “i reati si distinguono in delitti e contravvenzioni secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite (…)”.
I successivi artt. 8, 9 e 10 c.p. corrispondono a fattispecie particolari rispetto all’art. 7. Infatti, per un verso, esse consistono esclusivamente in “delitti”, diversamente dall’art. 7 c.p. (v. infra rapporti tra artt. 8 c.p. e 698 c.p.p.). Per altro verso, prevedono ciascuno una clausola di esclusione: l’art. 8 punisce il “delitto politico non compreso tra quelli indicati nel numero 1 dell’articolo precedente”; l’art. 9 punisce il delitto comune del cittadino all’estero “fuori dei casi indicati nei due articoli precedenti”; l’art. 10 punisce il delitto comune dello straniero all’estero “fuori dei casi indicati negli articoli 7 e 8”.
I soggetti attivi dei reati commessi all’estero si distinguono, per quanto precede, tra “cittadino” e “straniero”. Siffatta distinzione è prevista primariamente dal richiamato art. 3 c.p. Il codice fornisce una qualificazione12 soltanto della prima tipologia: “Agli effetti della legge penale sono considerati cittadini italiani, gli appartenenti per origine o per elezione ai luoghi soggetti alla sovranità dello Stato e gli apolidi residenti nel territorio dello Stato” (art. 4, comma 1, c.p.). La qualificazione di straniero deve, perciò, trarsi a contrariis, nel senso che riveste carattere residuale e ricorre in assenza dei presupposti qualificatori di cittadino, di cui al richiamato art. 4, comma 1, c.p.13.
Caratteristica strutturale dei reati in esame è, infine, la loro commissione in “territorio estero”. Il Codice fornisce soltanto la definizione di “territorio dello Stato” nei termini riprodotti dall’art. 4, comma 2, c.p. Anche in tal caso, perciò, la nozione di “territorio estero” deve trarsi, a contrariis, da quella di “territorio dello Stato”, talchè la prima ricorrerà in assenza dei presupposti tipizzati per la seconda.
Alcuni reati di che trattasi (cfr. artt. 8, 9 e 10 c.p.) soggiacciono, come riferito, sia a condizioni obiettive di punibilità (art. 44 c.p.) sia a condizioni di procedibilità (ved., in generale, artt. 120 ss. c.p., 260 c.p.m.p. e 336 ss. c.p.p.)14. Pertanto, dei reati commessi extra moenia non subordinati a siffatte condizioni (art. 7 c.p.) “la punibilità è incondizionata e la procedibilità è assoluta”15 in ragione del disvalore penale che li caratterizza e dell’allarme sociale che provocano. Valgano le imprescindibili esigenze di conservazione del sistema statuale che presiedono al n. 1 e, implicitamente, ai numeri 2, 3 e 4 dell’art. 7; quanto le finalità di superiore tutela dei richiami del numero 5 alle speciali disposizioni di legge (es. artt. 501, comma 4,, 537, 591, comma 2, 604, 642, comma 4 c.p., 1080 c. nav.) e alle convenzioni internazionali16 (ad es. in materia di genocidio).
4. Condizioni obiettive di punibilità
L’art. 44 c.p. stabilisce che: “Quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l’evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto”.
Le condizioni obiettive di punibilità sono, dunque, elementi accidentali del reato alla cui ricorrenza la legge penale subordina la perseguibilità del reato stesso. Esse si differenziano dalle condizioni di procedibilità perché quest’ultime costituiscono antecedente logico dell’esercizio dell’azione penale e suo coefficiente esterno di operatività17.
In dottrina18 la categoria è distinta in condizioni obiettive di punibilità intrinseche ed estrinseche. Le prime “sono partecipi dell’offensività del fatto-reato in quanto comportano un ulteriore aggravamento, una progressione dell’offesa tipica”: vi rientra, ex multis, il pubblico scandalo nel delitto di incesto (art. 564 c.p.).
Le seconde “sono, invece, estranee all’offensività del reato ma si limitano a riflettere valutazioni di opportunità estranee alla sfera dell’offesa del bene protetto”: vi rientra, ex multis, la presenza del reo nel territorio dello Stato segnatamente per le fattispecie di cui agli artt. 9, comma 1, e 10, commi 1 e 2, n. 1, c.p. in esame. Peraltro, l’alienità dalla intrinseca condotta lesiva (quale essenza costitutiva del reato) ha indotto la dottrina a correlare l’applicabilità del richiamato art. 44 c.p. solo a quest’ultima tipologia19.
Infatti, “Nei casi invece in cui la condizione non è collegata al fatto di reato da alcun rapporto di derivazione, la condizione esprime un piano di interessi non solo esterno, ma qualitativamente diverso rispetto all’offesa contenuto del reato”20. Talchè “la presenza del reo nel territorio dello stato, prevista addirittura da norme diverse da quella incriminatrice e quindi senza alcun collegamento con il modello legale che descrive il fatto di reato, esprime il motivo di opportunità di porre dei limiti alla indiscriminata applicazione del principio di universalità della legge penale italiana”. Perciò “questa ratio è particolarmente evidente nei confronti dell’art. 10, 2° co, c.p. (delitto consumato all’estero dallo straniero in danno di uno stato estero o di un altro stato straniero), ove risulta l’esigenza, corrispondente ad un piano di valori che non presentano alcun collegamento con l’interesse tutelato dal reato, di subordinare la punibilità ad una situazione di fatto che valga a giustificare l’intervento della legge penale italiana”.
Altro orientamento21, per un verso, ha ravvisato nella presenza del reo nel territorio dello Stato senz’altro la condizione obiettiva di punibilità preordinata a risvegliare “il rapporto tra l’individuo e la sovranità”, dando “attualità concreta al rapporto tra colpevole e legge penale territoriale”. Per altro verso, però, ha valorizzato anche la funzione deterrente di tale condizione nel senso che “Se ciò non avvenisse, si trasformerebbe lo Stato in asilo di malfattori”.
Si è detto della distinzione tra condizioni di punibilità e procedibilità. Parte della dottrina ha inquadrato la presenza del reo nel territorio dello Stato tra le seconde22. In tal caso, se la condizione non si realizza, i riferimenti processuali dovrebbero corrispondere alle seguenti disposizioni: a) art. 129, 1 comma, c.p.p. (“Obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità”); b) 345 c.p.p. (“Difetto di una condizione di procedibilità. Riproponibilità dell’azione”; c) art. 411 c.p.p. (archiviazione “quando manca una condizione di procedibilità”); d) art. 425, comma 1, c.p.p. (sentenza di non luogo a procedere “quando l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita”); e) art. 529, comma 1, c.p.p. (sentenza di non doversi procedere “Se l’azione penale non doveva essere iniziata o non doveva essere proseguita” e “quando la prova dell’esistenza di una condizione di procedibilità è insufficiente o contraddittoria”).
Peraltro, dato che il Codice di rito si occupa della “Richiesta di procedimento” all’art 342 c.p.p., la presenza del reo nel territorio dello Stato si distingue dalle condizioni di procedibilità dapprima sotto il profilo temporale. Infatti, l’art. 128 c.p. (“Termine per la richiesta di procedimento”) stabilisce, al comma 1, che “Quando la punibilità di un reato dipende dalla richiesta dell’Autorità, la richiesta non può essere più proposta decorsi tre mesi dal giorno in cui l’Autorità ha avuto notizia del fatto che costituisce reato”. Si tratta di un termine segnatamente ascritto ai reati per i quali la punibilità non è subordinata alla presenza del reo nel territorio dello Stato. Diversamente, l’art. 128 c.p. stabilisce, al comma 2, che “Quando la punibilità di un reato commesso all’estero dipende dalla presenza del colpevole nel territorio dello Stato, la richiesta non può più essere proposta, decorsi tre anni dal giorno in cui il colpevole si trova nel territorio dello Stato”. In tal caso, il termine è ancorato al differente presupposto della presenza del reo nel territorio dello Stato. Si tratterà nel prosieguo della natura di tali termini.
La divergenza rileva anche sotto il profilo della decorrenza del termine di prescrizione del reato regolato dall’art. 158 c.p., comma 2, per cui “Quando la legge fa dipendere la punibilità di un reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata. Nondimeno, nei reati punibili a (…) richiesta, il termine della prescrizione decorre dal giorno del commesso reato”.
Optandosi, dunque, per l’inquadramento nell’art. 44 c.p. della presenza del reo nel territorio dello Stato, poiché tale articolo presuppone la commissione del reato da parte del “colpevole” (di “colpevole” parla l’art. 128, comma 2, c.p. e di “commesso reato” l’art. 158, comma 2, c.p.), i riferimenti processuali, se la condizione non si realizza, corrisponderebbero agli artt. 425, comma 1, c.p.p. (sentenza di non luogo a procedere a fronte di “persona non punibile per qualsiasi altra causa”) e 530, comma 1, c.p.p. (sentenza di assoluzione per fatto commesso “da persona non punibile per un’altra ragione”)23. Infatti, il termine “altra”, ivi contenuto, potrebbe inerire anche alla riferita estraneità della condizione dal proprium del reato.
Dovrebbe, diversamente, operare la formula “perché il fatto non costituisce reato” (artt. 425, comma 1, 530, comma 1, c.p.p.) nell’inverso caso delle condizioni di punibilità intrinseche, attesa la loro inerenza strutturale all’offensività del reato stesso24.
5. Condizioni di procedibilità
Nel delitto di cui all’art. 8 c.p. la condizione di procedibilità25 è data dalla richiesta di procedimento del Ministro della giustizia (comma 1); nel caso di delitto punibile a querela della persona offesa, dalla richiesta oltre la querela (comma 2).
Nel delitto di cui all’art. 9 c.p., al comma 2 la condizione di procedibilità è data dalla richiesta del Ministro ovvero dall’istanza o dalla querela della persona offesa; al comma 3 dalla richiesta (subordinata) del Ministro. Infatti, in quest’ultimo caso, essa soggiace alla condizione negativa della mancata concessione dell’estradizione o della mancata accettazione di questa da parte del Governo dello Stato del locus commissi delicti.
Nel delitto di cui all’art. 10 c.p. la condizione di procedibilità al comma 1 è data dalla richiesta del Ministro in alternativa all’istanza o alla querela della persona offesa; al comma 2 dalla richiesta del Ministro. Al comma 2, n. 3, essa soggiace alla condizione negativa della mancata concessione dell’estradizione o della mancata accettazione di questa da parte del Governo dello Stato del locus commissi delicti o dello Stato di appartenenza del reo. In tal caso, il meccanismo della perseguibilità è più articolato perché, trattandosi di straniero, è logicamente attenuato il collegamento tra questi e lo Stato italiano ed, invece, più accentuato quello con lo Stato della commissione o quello di appartenenza. E’ privilegiata, com’è logico, la persecuzione del delitto commesso dallo straniero ai danni dello Stato italiano e del cittadino: basta la pena della “reclusione non inferiore nel minimo a un anno” (comma 2).
La condizione di procedibilità ricorre, come riferito, anche nell’art. 11, comma 2, c.p. per cui: “nei casi degli articoli 7, 8, 9 e 10 il cittadino o lo straniero, che sia giudicato all’estero, è giudicato nuovamente nello Stato, qualora il Ministro della giustizia ne faccia richiesta”. Secondo l’art. 342 c.p.p. (“Richiesta di procedimento”) “La richiesta di procedimento è presentata al pubblico ministero con atto sottoscritto dall’autorità competente”. Giova richiamare anche la condizione di procedibilità prevista dall’art. 18 c.p.m.p.
Le predette disposizioni vanno coordinate col richiamato art. 128 c.p. nei termini che precedono. Occorre qui precisare che l’art. 128, comma 1, c.p. prevede un termine perentorio (trenta giorni dalla cognizione del fatto di reato) al cui inutile decorso consegue la preclusione dell’azione data dalla richiesta di procedimento (cfr. artt. 173, comma 1, c.p.p. e 14 c.p.). Nel silenzio del legislatore26, il termine deve intendersi di decadenza perché il tempo rileva sul piano della distanza, ascritta al celere esercizio della richiesta. L’art. 128, comma 2, c.p., operando la medesima preclusione allo scadere del triennio dalla presenza del reo nel territorio statale, profila invece (sempre nel silenzio del legislatore) un termine di prescrizione dell’azione, perché il tempo rileva ai fini della durata. Infatti, è il consolidamento dell’inerzia a determinare l’estinzione del potere di richiesta27. Sarebbe però problematico interpretare estensivamente28, per quanto lata, la formula “interrompono pure la prescrizione” dell’art. 160, comma 2, c.p. per applicarne i casi interruttivi al suddetto termine triennale. E tale difficoltà vale sebbene, seguendo il principio generale dell’art. 2934, comma 1, c.c., lo Stato risulti titolare del diritto di richiesta di procedimento29; e sebbene, interpretando più in generale come prescrizionale un termine, sia opportuno coordinarlo con le disposizioni afferenti (es. sospensione e interruzione).
La dottrina ha attribuito alla richiesta di procedimento effetto di valutazione comparativa degli implicazioni da essa sottese, preordinata al perseguimento dell’interesse pubblico istituzionale. Più precisamente, si tratta di giudizio di merito amministrativo ossia di opportunità e adeguatezza sostanziale. Perciò è “indotto il legislatore a prevedere mediante la richiesta del procedimento un’ulteriore valutazione discrezionale, demandata al Ministro di Grazia e Giustizia”30. In tal senso “le condizioni di procedibilità sono anch’esse espressamente previste dal legislatore, ma i motivi concreti che vi sottostanno non sono né possono essere astrattamente predeterminati, anzi la loro valutazione è demandata a soggetti ed organi estranei all’autorità giudiziaria. I motivi di opportunità e di convenienza sono infatti talmente vari e possono discendere da tali e tanti ordini di valutazione (basti pensare alle considerazioni di carattere individuale che sottostanno alla presentazione della querela da parte del privato ovvero alle scelte di carattere politico-istituzionale che intervengono nella autorizzazione a procedere del Ministro della Giustizia) da rendere impossibile, sul terreno della tecnica legislativa, la loro previsione in astratto ed il conseguente inserimento nel modello legale della fattispecie (…)”.
Sulla natura giuridica, secondo la giurisprudenza “La richiesta di procedimento di cui a(ll’) artt. 9, terzo comma, c.p. (…) – al pari del rifiuto di dar corso ad una rogatoria dall’estero o per l’estero e del decreto di estradizione – seppure connotata da una larga discrezionalità, riveste natura giuridica di atto amministrativo, sottoposto all’obbligo della motivazione e della gerarchia delle fonti normative e perciò suscettibile di sindacato da parte del giudice amministrativo per i tipici vizi di legittimità propri del procedimento amministrativo. Tale provvedimento, infatti, non può essere definito come atto politico in quanto non inerisce all’esercizio della direzione suprema degli affari dello Stato né concerne la formulazione in via generale e al massimo livello dell’indirizzo politico e programmatico del Governo, conseguendo invece ad una scelta vincolata al perseguimento dei fini determinati di politica criminale e connotata altresì dal requisito dell’irretrattabilità”31. Induce a riflettere sull’inquadramento come atto amministrativo, l’art. 129 c.p. (“Irrevocabilità ed estensione della richiesta”) per cui “la richiesta dell’Autorità è irrevocabile”. Infatti, consustanziale agli atti amministrativi è proprio la prerogativa del loro ritiro attraverso i poteri di autotutela, da sempre immanenti al sistema giuridico32 ed ora positivizzati agli artt. 21 quinquies ss., L. 7 agosto 1990, n. 241.
Se, dunque, la richiesta di procedimento, non è atto politico (art. 31 R.D. 26 giugno 1924, n. 1054; ora, art. 7, comma 1, 2 periodo, D. Lgs. 2 giugno 2010, n. 104) ma se ne ammette la natura amministrativa, va inquadrato tuttavia tra gli atti di alta amministrazione in quanto rappresentativo del raccordo tra la funzione di governo, espressiva dello Stato-comunità e la funzione amministrativa, espressiva dello Stato-apparato33. Secondo la giurisprudenza, con riguardo agli atti di alta amministrazione, “essi mantengono la caratteristica tipica degli atti amministrativi e cioè la finalità di cura di interessi pubblici nel caso concreto (cfr. in particolare Cons. Stato, IV, 21 settembre 2015, n. 4375). Questo carattere rende quindi gli atti di alta amministrazione giustiziabili, sia pure entro i ristretti limiti entro cui atti a forte tasso di discrezionalità si prestino ad essere sindacati nell’ambito della generale giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo prevista dall’art. 7, comma 1, cod. proc. amm. (a quest’ultimo riguardo si veda: Cons. Stato, III, 8 settembre 2014 n. 4536; IV, 26 settembre 2013, n. 4768)”34.
Nonostante l’ampia discrezionalità che li caratterizza, gli atti di alta amministrazione non sono “a motivo libero”, ossia esclusi dal sindacato giurisdizionale sull’esercizio di detto potere discrezionale, al pari degli atti politici. Trattandosi di motivazione ridotta o attenuata, tale sindacato è, però, solo limitato al riscontro dell’esistenza dei presupposti e alla congruità della motivazione nonché all’esistenza del nesso logico di consequenzialità fra presupposti e conclusioni35. La giurisprudenza, segnatamente in esito al potere di richiesta del Ministro della Giustizia36, in generale, lo ha qualificato come fonte legittimante un atto di alta amministrazione.
Per quanto la richiesta di procedimento sia atto amministrativo, l’intrinseca discrezionalità che lo caratterizza sembra escludere che, di fronte all’eventuale inerzia in ordine alla medesima richiesta, possa azionarsi l’istituto del silenzio-inadempimento (art. 31 D. Lgs. 104/2010). Infatti, in tal caso, per un verso, non sussiste “obbligo dell’amministrazione di provvedere“ (art. 31, comma 1)37, nel senso che sotto il profilo dell’ “an” il Codice lascia libera l’autorità ministeriale di agire in un senso o nell’altro. Per altro verso, il comma 3 dell’art. 31 prevede che “il giudice può pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità (…)”.
6. Delitto politico
Il delitto politico di cui all’art. 8 c.p. è fattispecie autonoma. Lo dimostra l’art. 698 c.p.p. quando distingue, in materia di estradizione, il reato politico dai reati di lesione dei cosiddetti diritti umani. In tal senso, sebbene l’art. 26, comma 2, Cost. preveda espressamente come unico divieto di estradizione quello “per motivi politici”, la giurisprudenza costituzionale ha precluso l’estradizione in paesi ove operi la pena capitale, richiamando il diverso art. 27, comma 4, Cost. che formalmente non tratta di estradizione38. Il richiamo dell’art. 698 c.p.p. al reato, comprensivo delle contravvenzioni (art. 39 c.p.), fa ritenere la loro rilevanza ai soli fini dell’estradizione. Infatti, per il combinato disposto dei citati artt. 3, comma 2, e 8 c.p. e per il principio di tassatività e determinatezza (artt. 25, comma 2, Cost., 1 c.p. e 14 Preleggi), risulta punibile soltanto il delitto politico commesso all’estero, non la contravvenzione.
La previsione del delitto politico è oggettiva, la sua nozione è tecnico-giuridica39, direttamente immessa nell’ordinamento “secondo la legge penale” (comma 1) e “agli effetti della legge penale” (comma 3). Infatti, nel qualificarlo, l’art. 8 c.p. compie una duplice operazione sistematica. Per un verso, trae la nozione per differenziazione, ossia persegue i delitti politici diversi dai delitti contro la personalità dello Stato (Titolo I, Libro II, c.p.). Per altro verso, instaura sul risultato della differenziazione la definizione di delitto politico (“agli effetti della legge penale è delitto politico ogni delitto che offende un interesse politico dello Stato ovvero un diritto politico del cittadino”) (comma 3, primo periodo) e la corrispondente equiparazione (“E’ altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici”) (comma 3, secondo periodo). I suddetti “effetti” sono quelli che la legge penale riconduce complessivamente al reato (es. artt. 13, 99, 102 c.p.).
Per quanto riferita al delitto commesso extra moenia, la nozione ha valenza sistematica. Infatti, la dottrina considera oggettivo il delitto politico di cui all’art. 8, comma 3, primo periodo, c.p. e lo distingue in: 1) delitto politico diretto, lesivo di un interesse politico dello Stato, ove interesse significa prerogativa funzionalizzata, diritto sostanziale della persona giuridica pubblica per eccellenza; 2) delitto politico indiretto, lesivo di un diritto politico del cittadino, quale situazione giuridica soggettiva implicante un potere su un bene della vita accordato dalla legge40. La dottrina qualifica come delitto soggettivamente politico l’effetto dell’equiparazione (“è altresì considerato”) di cui al comma 3, secondo periodo.
Alla commissione del delitto politico diretto corrisponde una lesione dell’identità nazionale in senso organico (territorio, popolazione) e delle supreme prerogative statali (sovranità, indipendenza, forma di governo, incolumità e ordine pubblico interni, quiete ai confini), con esclusione dell’apparato amministrativo e giudiziario. Trattasi dello Stato italiano41 poichè, quando il Codice ha inteso riferirsi allo “Stato estero”, lo ha detto espressamente (v. artt. 9, comma 3 e 10, comma 2), contrapponendo la diversa dicitura di “Stato”, relativa a contrariis a quello nazionale42. In tal senso, il “diritto politico del cittadino” (art. 8, comma 3, primo periodo, c.p.) è conseguenziale, seppure in termini disgiuntivi (“ovvero”), all’ “interesse politico dello Stato” (italiano).
Alla commissione del delitto politico indiretto corrisponde la lesione di diritti pubblici funzionali43 quali l’elettorato attivo e passivo (artt. 48, 51, 56 e 58 Cost.), il diritto all’assunzione di cariche pubbliche (ius ad officium) e quello ad esercitarle e conservarle (ius in officio) (art. 51 Cost.), la partecipazione a referendum (artt. 75, 123, 132, 137 Cost.), la richiesta di petizioni (art. 50 Cost.).
Mentre i delitti contro la personalità dello Stato sono tipizzati (artt. 241 c.p. ss.) e costituiscono così il delitto politico formale, l’art. 8 c.p. prevede, di conseguenza, il delitto politico sostanziale perché è fattispecie aperta, parametro logico-giuridico astratto, correlato alla commissione extra moenia. Infatti, il comma 3, primo periodo, si raccorda con le disposizioni di parte speciale (“ogni delitto”) il cui bene tutelato inerisca a un interesse politico dello Stato o a un diritto politico del cittadino44: l’individuazione è rimessa all’interprete. Nel primo caso, ove provochino la lesione di organiche prerogative statuali, potrebbero rientrare astrattamente i delitti contro l’ordine e l’incolumità pubblici (Titoli V e VI c.p.) e i delitti contro l’economia pubblica (artt. 499 ss. c.p.)45. Nel secondo caso, i reati di turbativa elettorale (artt. 94 ss. D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361), per certi versi comuni al primo.
Se, dunque, il bene giuridico del delitto politico oggettivo è in radice qualificato in termini soltanto funzionali, o di diritto pubblico; diversamente, il comma 3, secondo periodo, origina il delitto soggettivamente politico da un “delitto comune” (cfr. intitolato artt. 9 e 10 c.p.), ritraibile dall’interprete sempre dalle disposizioni di parte speciale, il cui bene tutelato può generalmente variare. In dottrina, la tipologia dei reati comuni è contrapposta a quella dei reati propri, imputabili soltanto a specifiche categorie di soggetti46.
Per questa ragione la punibilità del delitto soggettivamente politico è inscindibilmente condizionata alla sussistenza del movente politico, anche parziale. L’assenza di tale requisito retrocede il fatto a delitto comune (cfr., per altro verso e più in generale, artt. 117 c.p. e 1081 c.nav.), punibile se commesso all’estero alle condizioni di cui ai richiamati artt. 9 e 10 c.p. Il movente politico ricorre non nel caso di uno scopo puramente sociale47 ma quando riguarda l’esistenza, la costituzione e il funzionamento dello Stato. Il significato del termine “politico” si ricava, in senso esaustivo, dalla nozione di delitto oggettivamente politico.
In definitiva, il delitto politico corrisponde ad una fattispecie complessa la cui perseguibilità non può superare i limiti ontologici sovra descritti (cfr. art. 698 c.p.p., cit.), ostandovi il divieto di analogia in ambito penale (artt. 25, comma 2, Cost., 1, c.p. e 14 Preleggi, cit.), relativo, non alle cause di giustificazione, ma alle norme incriminatrici. Il divieto vale tanto più per l’art. 8, formula, per quanto oggettiva, lata e connotata da tratti metagiuridici. Del resto, la politicità del delitto è, in ogni caso, risaltata dalla previsione della richiesta di autorizzazione del Ministro, secondo le considerazioni che precedono.
Ai fini della perseguibilità, sembra allora necessario l’ancoraggio agli specifici principi costituzionali d’ambito. Può, perciò, valorizzarsi soltanto come politico il delitto che, oltre ai contesti statuali suddetti (es. artt. 55 ss. Cost.), inerisca alle disposizioni del Titolo IV (“Rapporti politici”), Parte I, artt. 48 Cost. ss. Più in generale, il ricorso ai principi costituzionali risulta strumento giurispudenziale consolidato a fronte di formule giuridiche in apparenza indefinite48.
Innestandosi il delitto politico nei reati di parte speciale, il movente politico può atteggiarsi a quid pluris rispetto all’elemento soggettivo previsto per essi dal Codice (art. 43, comma 1, c.p.). Infatti, soltanto il delitto politico indiretto coincide sostanzialmente col bene tutelato dai reati ad esso riconducibili: si pensi a quelli elettorali che puniscono in senso immediato l’offesa ad un “diritto politico del cittadino”49. Al contrario, nel delitto politico diretto, la riconducibilità all’offesa dell’ “interesse politico dello Stato” non è agevole (cfr. nota 45) perchè la politicità è, di regola, soltanto collaterale o intermedia: si pensi ai reati inerenti l’economia pubblica. Nel delitto soggettivamente politico il disallineamento è addirittura strutturale, talchè la legge lo punisce in quanto determinato, ulteriormente, da moventi politici, anche parziali.
Il quid pluris partecipa, allora, dell’antigiuridicità penale, gravitando nell’orbita del dolo specifico50: si commette il reato base al fine preordinato di ledere (animus nocendi) un bene giuridico ulteriore e integrativo, quello politico51. Il movente compenetra così il delitto politico nella sua integralità, cadendo in automatico ed eccezionalmente nel fuoco del dolo. In altri termini, vi è coscienza e volontà dell’antigiuridicità quando il movente (parte di questa) sia dalle prime teleologicamente compreso ed assorbito quale fine ultimo dell’azione52. In conclusione, esso rappresenta un risvolto essenziale dell’elemento soggettivo preteso dalla norma incriminatrice dell’art. 8.
Emergono così le implicazioni di compatibilità con le circostanze di cui agli art. 61, n. 1 e 62, n. 2, c.p. In linea teorica, se il movente è elemento costitutivo del reato, esso non può, per il principio di non contraddizione, rilevare anche come circostanza ove si assumano con esso coincidenti, sul piano del contenuto, segnatamente i motivi previsti dai suddetti articoli: infatti, gli art. 61, 62 cit. e 84, comma 1, c.p. differenziano “elementi costitutivi” da “circostanze”53. Peraltro, i motivi rilevano anche ai fini del grado di capacità a delinquere (art. 133, comma 2, n. 1, c.p.).
Nel delineato contesto, il motivo politico non si presta ad essere prima facie abietto e futile, dato il fine intellettivo e ideologico che, di regola, lo caratterizza: perciò, l’aggravante dell’art. 61, n. 1, non si concilia col motivo ideologico o politico, “riconducibile ad una delle più frequenti ragioni generatrici di contrasto violento fra le persone”54; si veda, peraltro, il richiamato art.1092, comma 1, n. 1, c. nav. Parimenti, i motivi di particolare valore morale e sociale (art. 62, n. 1) sono ritenuti compatibili col motivo politico “purchè non contrastanti con l’ordinamento statale”55. In tal senso “non può considerarsi di particolare valore morale e sociale il motivo politico quando sia radicato nel desiderio di affermare la propria opinione o fazione contro le altre opinioni o fazioni”56.
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Note
1 V. F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Milano, 2020, 991 e 992; T. PADOVANI, Diritto penale, Parte generale, Milano, 2012, 57 ss.; Cfr. Cass. pen. sez. V, sent. n. 13525/2016, secondo cui “al di là delle contrapposizioni dottrinali, è controversa anche presso la giurisprudenza la questione se, per punire secondo la legge italiana il reato commesso all’estero, sia necessario che si tratti di fatto previsto come reato anche nello stato in cui fu commesso (cosiddetta doppia incriminabilità). Ed, infatti, in alcune decisioni si afferma che tale principio opera esclusivamente ai fini dell’estradizione, mentre, in tema di reati commessi all’estero e di rinnovamento del giudizio (artt. 7 e segg., 11 c.p.), la qualificazione delle fattispecie penali deve avvenire esclusivamente alla stregua della legge penale italiana, a nulla rilevando che l’ordinamento dello Stato nel cui territorio il fatto è stato commesso non preveda una persecuzione penale dello stesso fatto (Sez. 2, n. 2860 del 6 dicembre 1991 – dep. 16 marzo 1992, Buquicchio, Rv. 189895); in altre si è ritenuto che, in tema di reati commessi all’estero, al di fuori dei casi tassativamente indicati all’articolo 7 c.p., è condizione indispensabile per il perseguimento dei reati commessi all’estero dallo straniero che questi risultino punibili come illeciti penali, oltre che dalla legge penale italiana, anche dall’ordinamento del luogo dove sono stati consumati, ancorché con nomen iuris e pene diversi (Sez. 1, n. 38401 del 17 settembre 2002, Minin, Rv. 222924)”.
2 Cfr. R. VENDITTI, Il diritto penale militare nel sistema penale italiano, Milano, 1992, 99 ss.
3 D. BRUNELLI/G. MAZZI, Diritto penale militare, Milano, 2007, 33 ss.
4 Cfr. Trib. supr. mil. 13 ottobre 1947, in Giust. pen. 1949, III, col. 490, per cui “La procedibilità per i reati commessi in territorio estero da militare comandato in missione isolata è subordinata alla richiesta del procedimento di cui all’art. 260 (del c.p.m.p.)”; Trib. supr. mil., 6 giugno 1952, in Giust. pen., 1953, II, col. 154, mass. n. 2, per cui “La diserzione commessa da bordo di una nave militare durante la sosta in acque territoriali di uno Stato estero si considera commessa nel territorio dello Stato, tale essendo considerata la nave militare. Non essendo il reato commesso in territorio estero, la punibilità del disertore non è subordinata alla richiesta di procedimento del Ministro della Difesa” (Trib. supr. mil., 6 giugno 1952, in Giust. pen., 1953, II, col. 154, mass. n. 2).
5 R. VENDITTI, Il diritto penale militare cit., 79 ss. per cui l’equiparazione dell’art. 17 c.p.m.p. “non può evidentemente trovare esclusiva spiegazione nel criterio personale (poichè in tal caso l’equiparazione dovrebbe verificarsi in senso opposto e cioè nel senso di un’applicazione dell’art. 18)”. Essa non può “altrimenti spiegarsi che con una fictio iuris (valida naturalmente ai soli effetti della legge penale militare) nel senso che il corpo militare stanziante all’estero (…) debba intendersi fittiziamente come parte mobile del territorio nazionale, alla stessa guisa della nave o dell’aeromobile militare”. Cfr. S. RIONDATO, Diritto penale militare, Padova, 1998, 16.
6 M. GALLO, Appunti di lezioni raccolti dagli studenti, Torino, 1967, 77; G. MARINI, Lineamenti del sistema penale, Torino, 1988, 169 ss.
7 V. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 2003, 120; MANTOVANI, op. cit., 976 ss.; PADOVANI, Diritto penale cit., 53 ss.
8 Cfr. Cass. pen., Sez. III, sent. 18 luglio 2017, n. 35165. Ved. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale cit., 138 ss. Più specificamente, M.RONCO/E.M. AMBROSETTI/E.MERETTI, La legge penale. Fonti, tempo, spazio, persone, Bologna, 2016.
9 In tal senso il previgente art. 28 delle Preleggi per cui “Le leggi penali e quelle di polizia e sicurezza pubblica obbligano tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato”. Secondo A. DE MARSICO, Diritto penale, Parte generale, Napoli, 1969, 53, in ordine agli artt. 3 e 6 c.p., “E’ importante rendersi conto dello spirito di questa duplice norma di cui ciascuna rispetto all’altra potrebbe apparire superflua (fu notato da taluno anche nei lavori preparatori) mentre esse stanno tra loro in un rapporto di utilissima integrazione. L’una proclama l’obbligatorietà dell’osservanza della legge penale (efficacia preventiva della legge stessa); l’altra, l’applicabilità della legge penale dopo il reato. Condizione per l’applicabilità dell’una è che il soggetto si trovi nel territorio dello Stato; condizione per l’applicabilità dell’altra, è che il reato sia commesso nel territorio dello Stato”. Cfr., in generale, Cass. pen. sent. n. 19762/2020.
10 Cass. pen., sez. I, sent. n. 153510/1981.
11 Cfr., più in generale, E.M. AMBROSETTI, Codice e leggi speciali. Prospettare una riforma dopo la riserva di codice, in Rivista dis/Crimen, Articoli, 5 novembre 2018.
12 Cfr. A. DE MARSICO, Diritto penale, cit., 51, per cui il codice, del termine “cittadino”, “non dà una definizione, che fissi l’intrinseco soggetto e lo descriva, ma si limita a formulare una equiparazione” perché “E’ conforme alle ragioni di tutela giuridica dello Stato e ai fini sociali di essa, che la legge penale sia applicabile non solo a chi è ma anche a chi è soltanto “considerato” cittadino”.
13 Cfr. MANTOVANI, Diritto penale cit., 977, per cui “Stranieri sono tutti coloro che non sono considerati cittadini italiani”.
14 Cfr. F. GIUNTA, Il potenziamento della querela-selezione e la sua gestione giudiziale in presenza di condotte riparatorie, in disCrimen 11/11/2018, secondo cui “la deroga alla procedibiltà ex officio mirava a evitare che, stante la modesta gravità dell’offesa, una tutela incondizionata risultasse in concreto, se non superflua, almeno sgradita al soggetto passivo, che avrebbe potuto preferire la spontanea composizione del conflitto”; G. NEPPI MODONA, Condizioni obiettive di punibilità (Voce), in Enciclopedia Giuridica Treccani, VIII, 1988, 1 ss. Per un raffronto con la condizione legale (condicio iuris), v. A. FALZEA, La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Milano, 1941; F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1992, 876.
15 ANTOLISEI, Manuale di diritto penale cit., 105.
16 Cfr. Cass. pen., sez. I, sent. n. 19762/2020 predicativa della “natura ‘non autonomamente regolativa’ del testo dell’articolo 7 co. 1 n. 5 cod. pen., norma di chiusura che contiene esclusivamente un rinvio a ‘speciali disposizioni di legge‘ o a ‘convenzioni internazionali‘ nel cui ambito sia prevista in modo espresso la deroga al generale principio di sovranità territoriale. Dunque diventa dirimente l’analisi del contenuto della singola disposizione attributiva del potere, al fine di identificare il particolare statuto regolativo della giurisdizione per il fatto commesso integralmente all’estero. In tale dimensione la disposizione codicistica attesta semplicemente la possibilità (del resto scontata, a parità di forza legislativa) della esistenza di casi aggiuntivi, previsti con legge o con convenzione vincolante, attributivi di giurisdizione italiana per fatti commessi all’estero”.
17 V. MANTOVANI, Diritto penale cit., 860 per cui l’assenza della condizione di procedibilità del reato preclude al giudice la cognizione di questo, talchè si richiamano quali elementi di differenziazione rispetto alle condizioni obiettive di punibilità gli artt. 185 e 158, comma 2, c.p., e “la sentenza di proscioglimento, che, in difetto della condizione di punibilità è “nel merito” e preclude un secondo giudizio (art. 649 c.p.p.) e, in difetto di condizione di procedibilità, è “meramente processuale” e non impedisce un nuovo giudizio, allorchè sopravvenga detta condizione”. Secondo DE MARSICO, Diritto penale cit., 220, le condizioni obiettive di punibilità “sono diverse così dagli elementi costitutivi del reato, perché presuppongono un fatto che li integri tutti, come dalle condizioni di procedibilità (art. 17 C. pr. pen.) che presuppongono un fatto già punibile come reato e per il quale soltanto l’azione penale resti sospesa”. Più in generale, F. GIUNTA, Interessi privati e deflazione della querela, Milano, 1993, 57 ss.
18 L. DELPINO/N. BARTONE, Diritto penale, Parte generale, Napoli, 1993, 470. Cfr. B. PETROCELLI, Reato e punibilità, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1960, 669 ss. che avversa la differenza (fondante le condizioni obiettive di punibilità) tra l’interesse dello Stato alla concreta punizione e l’interesse offeso dal reato (differenza fondante le condizioni obiettive di punibilità) perché ritiene le condizioni elementi costitutivi ed intrinseci del reato concorrenti alla individuazione dell’interesse tutelato, sul presupposto di biunivocità reciproca tra reato e punibilità.
19 MANTOVANI, Diritto penale cit., 862 ss. per cui, diversamente dalle condizioni di punibilità, “Debbono considerarsi elementi costitutivi gli accadimenti che attengono all’offesa del bene protetto e accertano in sè l’offensività del fatto e, quindi, la ragione stessa dell’incriminazione”. Cfr. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale cit., 217 e 757 ss.
20 NEPPI MODONA, Condizioni obiettive di punibilità cit., 8. Cfr. DE MARSICO, Diritto penale cit., 219 ss. per cui le condizioni di punibilità “sono fatti eventuali dal cui verificarsi dipende la punibilità di un fatto come reato, l’assurgere di un “fatto di reato” a “reato”. Non si può parlare di reato quiescente o sospeso o condizionato: il reato se esiste non ha bisogno di altri elementi: se ne ha bisogno, non è ancora reato. Ma appunto perché gli elementi di cui discutiamo devono da una parte essere “condizioni”, dall’altra “obiettive”, di punibilità, allora soltanto esse ricorrono quando, in conformità al concetto generale di condizione, siano estranee ed indipendenti dalla serie causale messa in moto dall’agente, e quando (il che è del resto implicito in ciò) non si ricolleghino alla intenzione dell’agente. Se mancasse il primo requisito, non sarebbero “condizioni”, cioè fatti esterni all’azione; se mancasse il secondo, non sarebbero “obiettive””.
21 DE MARSICO, Diritto penale cit., 56.
22 Ex multis, F. CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale, Milano, 1956, 150. In tal senso Cass. pen., Sez. I, sent. 13 giugno 1990, n. 6698 per cui “La presenza del cittadino nel territorio dello Stato, nel caso di delitto del cittadino comune commesso dal medesimo cittadino all’estero, è condizione di procedibilità e non di punibilità. La carenza dei dati obiettivi, siano essi sostanziali o processuali (tra questi ultimi, appunto, le condizioni di procedibilità) atti a legittimare l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, si traduce in infondatezza dell’azione la quale trova la sua naturale ed esclusiva sanzione non nella nullità formale degli atti del procedimento già compiuti, ma nel rigetto, da parte del giudice della pretesa punitiva che, mediante l’azione, il pubblico ministero ha inteso far valere, con l’unica differenza che, ove difettino i requisiti sostanziali, il rigetto sarà definitivo, mentre ove difettino quelli processuali l’azione penale potrà essere eventualmente riproposta. La sussistenza o meno della condizione di procedibilità richiesta dalla legge penale quale quella della presenza del cittadino nel territorio dello Stato in caso di delitto comune commesso all’estero, va valutata non in riferimento al momento in cui viene iniziata l’azione penale, ma con riferimento al momento della definizione del giudizio di merito, di primo e anche di secondo grado. E’ pertanto necessario e sufficiente che i presupposti sui quali la condizione si fonda sussistano in quel momento, a nulla rilevando la loro originaria carenza, una volta che quest’ultima non sia stata rilevata all’atto della definizione giurisdizionale di alcune delle fasi processuali, tanto da consentire la prosecuzione del procedimento”. In senso conforme Cass. pen. sez. I, sent. n. 188033/1991 e sez. I, sent. n. 139148/1978. Nel senso della condizione di punibilità Cass. pen. sez. I, sent. n. 149495/1981. Secondo NEPPI MODONA, Condizioni obiettive di punibilità cit., 9, la presenza del reo nel territorio dello Stato è condizione obiettiva di punibilità perché “Il dato sistematico non permette (…) di superare alcuni precisi caratteri strutturali dell’istituto. In primo luogo la presenza del reo è un fatto giuridico, compiutamente tipicizzato, tale che, una volta accertato, non è suscettibile di alcuna valutazione discrezionale, ma fa scattare l’obbligo di esercitare l’azione penale. I motivi di opportunità e di convenienza sono cioè stati valutati una volta per tutte dallo stesso legislatore attraverso l’inserimento della condizione nel modello legale risultante dall’innestarsi degli articoli 9 e 10 sulle singole disposizioni incriminatrici di parte speciale, sì da non lasciare alcuno spazio ad ulteriori piani di interessi facenti capo a soggetti esterni agli organi giudiziari”.
23 V. Cass. pen., sez. I, sent. n. 119138/1971 per cui, con riguardo all’art. 9, c.p., “La locuzione legislativa di cui al primo comma “è punito sempre che si trovi nel territorio dello Stato”, comporta la necessità che il giudicabile si trovi presentemente nel territorio dello Stato allorchè viene esercitata nei suoi confronti l’azione penale che sfocerà nel giudizio di merito, il quale potrà svolgersi anche in sua contumacia per non essere egli in tal momento più presente nel territorio dello Stato”. Con riguardo all’art. 10 c.p. “La presenza dello straniero nel territorio dello Stato, richiesta dall’art. 10 c.p. ai fini della perseguibilità in Italia del delitto comune commesso all’estero dal medesimo straniero in danno dello Stato o di un cittadino italiano, è normativamente strutturata come condizione di procedibilità ed è quindi da considerare soggetta a tutte le regole proprie di siffatta condizione”. Più in generale, l’art. 385 c.p.p. (“Divieto di arresto o di fermo in determinate circostanze”) stabilisce che “l’arresto o il fermo non è consentito (…) in presenza di una causa di non punibilità”
24 In proposito, Cass. pen. Sez. Un., 28 maggio 2008, n. 40049 per cui: “La formula “perché il fatto non costituisce reato” ha sostituito, nel nuovo codice, quella più grossolana, contenuta nell’art. 479 c.p.p. 1930, del proscioglimento per essere l’imputato “non punibile perché il fatto non costituisce reato o per altra ragione”. In tal modo la formula in esame è stata resa autonoma da quella della “non punibilità per altra ragione”, riferibile alle cause di non punibilità in senso stretto. La formula “perché il fatto non costituisce reato”, quindi, viene ora normalmente utilizzata nelle ipotesi in cui, pur essendo presenti gli elementi oggettivi del reato, manchi invece l’elemento soggettivo della colpa o del dolo, ovvero sussista una scriminante, o causa di giustificazione, comune o speciale (cfr. Sez. 5, 20 marzo 2007, n. 27283, Olimpio; Sez. 6, 1 marzo 2001, n. 15955, Fiori, m. 218875, in riferimento alla scriminante di cui all’art. 598 c.p.)./ Nella vigenza dell’art. 479 del precedente codice di rito, peraltro, la formula era utilizzata anche nel caso di ricorrenza di una causa di non punibilità o non imputabilità (Sez. 3, 30 giugno 1982, n. 10276, Boscolo, m. 155896; Sez. 2, 7 luglio 1981, n. 11125, Trupiano, m. 151327; Sez. 6, 27 giugno 1978, n. 2242, La Valle, m. 140539).
Secondo l’opinione prevalente in dottrina, tale formula, dunque, sostanzialmente rileva l’insussistenza di uno degli elementi essenziali della fattispecie penale, ulteriori e diversi rispetto a quelli concernenti la sua struttura materiale. Esula dall’oggetto del presente giudizio prendere posizione su alcune questioni su cui non vi è uniformità di opinioni in dottrina, ed in particolare stabilire se la formula “perché il fatto non costituisce reato” possa essere utilizzata anche in altre ipotesi, come quando il giudice accerti l’assenza di determinati presupposti della condotta, o la mancata integrazione di un presupposto dell’evento o la carenza di una qualità soggettiva in capo all’agente, ovvero se in tali casi la formula assolutoria da adottare sia quella “perché il fatto non sussiste”. V. Cass. pen., sez. III, 1 luglio 2013, n. 28351 per cui ai, fini dell’applicazione della esatta formula di assoluzione, il giudice deve innanzi tutto stabilire se il “fatto” sussiste nei suoi elementi obiettivi (condotta, evento, rapporto di causalità) e, solo in caso di accertamento affermativo, può scendere all’esame degli altri elementi (imputabilità, dolo, colpa, condizioni obiettive di punibilità, etc.) da cui è condizionata la sussistenza del reato. Ved., da ultimo, Cass. pen., sez. III, 11 dicembre 1962 in Giustizia Penale, vol. 68, 1963, (Parte Seconda, Diritto Penale), 913 per cui “La pubblicità degli atti, richiesta dall’art. 527 c.p., è un elemento estrinseco dell’azione del colpevole e deve quindi considerarsi come condizione obbiettiva di punibilità; qualora il giudice ritenga insussistente codesta condizione, l’imputato dev’essere assolto con la formula “perché il fatto non costituisce reato” e non già con la formula “perché il fatto non sussiste””; in senso conforme, sez. III, 17 ottobre 1959 in Giustizia Penale 1960. II, 324, m. 332; sez. III, 11 luglio 1959, ibidem, II, 45, m. 23. In senso contrario, sez. III, 6 giugno 1959, in Giustizia Penale 1959, II, 1042.
25 NEPPI MODONA, Condizioni obiettive di punibilità cit., 9; DE MARSICO, Diritto penale cit., 305 e 306, per cui la richiesta di procedimento costituisce condizione obiettiva di punibilità.
26 Cfr. in generale F. GAZZONI, Manuale di diritto privato cit., 115 secondo cui: “Non è sempre agevole stabilire se un certo termine è previsto dalla legge a pena di decadenza ovvero se si tratti di ipotesi di prescrizione. Dottrina e giurisprudenza hanno elaborato vari criteri interpretativi, tra cui quello della maggiore brevità del termine di decadenza (ad es. artt. 1168, 1170) ovvero l’altro basato sulla circostanza che la prescrizione riguarda sempre e solo l’esercizio di diritti mentre la decadenza può riguardare anche atti conservativi strumentali all’esercizio del diritto stesso (ad es. artt. 1457, 1517, comma 3)”. In tal senso, Cass. civ. sent. 25 luglio 1984, n. 4367, r.v. 436269; 20 agosto 2009, n. 18555 r.v. 610323.
27 Cfr. A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1985, 126 ss.; F. GALGANO, Diritto privato, 1983, Padova, 857 ss. c.c. per cui “La ragione per la quale determinati diritti sono sottoposti a decadenza anziché a prescrizione è solo nella valutazione legislativa di limitare, in certi versi, ad un tempo assai breve l’incertezza delle situazioni giuridiche (…)”.
28 Cfr. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale cit., 96 in materia di interpretazione estensiva e DE MARSICO, Diritto penale cit., 37 per cui l’interpretazione estensiva si distingue da quella analogica in quanto “Con la prima si porta nell’impero di una norma un rapporto omogeneo a quello che vi appare regolato, e quindi necessariamente comprensovi: con la seconda, si adatterebbe la norma a disciplinare rapporti che non vi sono compresi ma analoghi. Con la prima si chiarisce (interpreta) il contenuto reale della norma, con la seconda lo si dilata, colmando una lacuna; cioè, in realtà, si crea una norma per situazioni nuove”; talchè “Il diritto penale consente la prima; non può consentire la seconda che manomette il reputato principio di cui all’art. 1 del Codice”. Ved. ancora ANTOLISEI, Manuale di diritto penale cit., 102 che, in difformità a Vassalli (G. VASSALLI, Limiti del divieto di analogia in materia penale, Milano, 1942), non esclude la disamina da caso a caso circa il ricorso all’analogia per l’ambito delle cause di estinzione del reato e della pena, in ragione della loro non ascrivibilità alle norme eccezionali di cui all’art. 14 Preleggi, poiché tali cause “non costituiscono sempre deroghe alle direttive generali dell’ordinamento giuridico”. Cfr. Cass. pen., sez. IV, sent. n. 148872/1980 per cui “L’elencazione degli atti aventi efficacia interruttiva del decorso del termine di prescrizione, secondo quanto indicato dall’art. 160 c.p., è tassativa e non suscettibile di applicazione analogica, stante l’espresso divieto del ricorso all’analogia in diritto penale”.
29 GALGANO, Diritto privato cit., 861 per cui “La decadenza ha natura eccezionale, diversamente dalla prescrizione, cui è di regola sottoposto “ogni diritto” (art. 2934 comma 1°)”; più in generale, in subiecta materia, A. DE MARSICO, Lezioni di diritto processuale penale, Napoli, 1955, 17 ss. e 22 ss.
30 NEPPI MODONA, Condizioni obiettive di punibilità cit., 9 per cui “nell’ipotesi prevista dall’art. 10, comma 2, c.p. (…) il legislatore ha addirittura avvertito l’esigenza di ricorrere al duplice meccanismo della condizione di punibilità e di procedibilità per dare spazio a profili di interesse esterni al reato” creando “la consapevolezza che quando il delitto viene commesso non solo all’estero, ma in danno di uno stato estero o di uno straniero, possono intervenire ulteriori piani di interesse, che indicono una valutazione in concreto (…).
31 Cass. pen., Sez. I, sent. n. 19678 del 28 aprile 2003.
32 Ex multis, A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, 192 ss. e 610 ss.; G. CORAGGIO, Autotutela (voce), in Enc. Giur. Treccani, IV, 1988); G. FERRARI, Gli organi ausiliari, Milano, 1956, 153 ss., 384.
33 Ex multis, A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo cit., 19.
34 Cons. St., sent. n. 3871/2017.
35 cfr. TAR Calabria, sez. Reggio-Calabria, sent. n. 681/2004.
36 In tal senso, Corte cost., sent. 223/1996; Corte cass., SU civili, 14 dicembre 2016, n. 25628. In particolare, Cons. Stato, sez. IV, 18 marzo 2013, n. 1576 per cui “il provvedimento per mezzo del quale il Ministro della Giustizia concede l’estradizione è un provvedimento di alta amministrazione, come tale caratterizzato da ampia discrezionalità, ma non esente dal sindacato giurisdizionale sulle valutazioni compiute dall’autorità politico-amministrativa in ordine alla concessione in concreto dell’estradizione, per la quale l’autorità giudiziaria ha già valutato la sussistenza dei relativi presupposti. Il Ministro della Giustizia, preso atto delle determinazioni dell’autorità giudiziaria in ordine alle condizioni legittimanti l’estradizione, è, dunque, tenuto a valutare, nell’esercizio del suo potere latamente discrezionale, quali siano in concreto le condizioni dell’estradando, anche in considerazione del reato per il quale l’estradizione viene richiesta, le condizioni soggettive dell’interessato (in particolare, il suo stato di salute), la quantità e qualità della pena che, in caso di condanna, verrebbe concretamente erogata, a fronte di quanto già scontato in Italia dall’interessato. La valutazione del Ministro della Giustizia, pertanto, lungi dall’ancorarsi a mere considerazioni di opportunità politica, deve conseguire a parametri oggettivi, da verificare nel caso sul quale occorre provvedere”.
37 Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 10 marzo 1978, 10; sez. VI, 27 marzo 1984, n. 180; sez. IV, 6 ottobre 1985, n, 652. Potrà gravarsi innanzi al giudice amministrativo l’eventuale atto ministeriale di diniego di richiesta, espressivo dell’autonomia discrezionale ma non di un obbligo di legge di pronunciarsi. Tale avviso negativo non esclude il contrarius actus ossia un successivo atto di richiesta positiva di procedimento (Cass. pen., sent. n. 179009/1988).
38 Corte cost., sent. n. 54/1979. Più in generale, R. BARBERINI, La rilevanza del fenomeno migratorio, in Questione giustizia, osservatorio internazionale, 30 ottobre 2015.
39 L’ANTOLISEI, in Manuale di diritto penale, edizione 1975, 6, ricorda alla nota 12 che “FRANCESCO CARRARA si rifiutò di fare una costruzione giuridica dei delitti politici appunto in vista della loro estrema relatività” e conseguentemente afferma : “E che dire poi dei delitti politici? Non è dubbio che il legislatore in questo terreno si ispira al principio salus rei publicae suprema lex, e, perciò, è indotto a comprendervi anche fatti che non possono considerarsi immorali, come, tanto per fare un esempio, lo spionaggio compiuto dallo straniero nell’interesse della sua patria. Fra i delitti in parola poi ve ne sono parecchi che dipendono in modo esclusivo dal particolare indirizzo politico e sociale del gruppo o dei gruppi che reggono lo Stato e quindi sono riprovevoli solo da un determinato punto di vista. In altro ambiente, oppure quando muta il regime politico, i trasgressori di queste leggi, lungi dall’essere ritenuti delinquenti, sono assai spesso considerati eroi. Fare esempi è veramente superfluo: se ne colgono a piene mani nella storia, anche recente”. Cfr. R. PANNAIN, Il delitto politico, 1933, in Rivista italiana di diritto penale, 732, per cui “ “Delitto politico” è per l’art. 8 soltanto quello che tale risulta dalla particolare oggettività giuridica, dalla natura “politica” de gl’interessi e diritti tutelati”. Donde è certo “1) Che il codice ha ripudiato la nozione subiettiva dei reati politici, voluta da la scuola positiva, e, per la definizione di essi ha adottato esclusivamente il criterio obiettivo; mentre ai “motivi politici” nei reati comuni ha riservato un posto secondario, soltanto ai fini del trattamento del delitto ad essi ispirato. 2) Che dei “motivi” nei reati politici veri e propri non deve tenersi conto appunto perchè per essi si ha riguardo esclusivamente alla natura dell’interesse giuridico leso ed “è indifferente il motivo che abbia determinate il colpevole ad agire; anche se il motivo sia di lucro o di vendetta, il delitto dovrà egualmente considerarsi agli effetti della legge penale, come delitto politico” (Rel. Guard., parte I, pag. 39)”. Secondo VASSALLI, Delitto politico, in Quaderni della Giustizia, 1982, anno 2, fasc. 17, 1, 3, “Non è dato rilevare fino a che punto il legislatore del 1930 si sia avveduto dell’enorme contraddizione in cui cadeva con il sancire l’applicabilità della definizione di cui all’art. 8 “agli effetti della legge penale” in generale, anzichè ai più limitati effetti della perseguibilità di reati commessi all’estero” perchè, per quanto il codice penale in conformità al predetto principio escludesse il divieto di estradizione per delitti politici, tale divieto era contenuto tuttavia in molte convenzioni bilaterali dell’eopoca.
40 ANTOLISEI, Manuale di diritto penale cit., 127 ss.; MANTOVANI, Diritto penale cit., 985 ss. Più in generale PANNAIN, Il delitto politico cit., 715; G. VASSALLI, Delitto politico cit., 1 ss.
41 Cfr. Cass. pen. sent. n. 19762/2020 che nega la configurabilità del delitto politico verso uno stato estero; così la giurisprudenza di merito (Sent. 21 dicembre 1973, pubbl. in Temi romana, 1974, pg. 624 sgg.) per cui si dichiara l’improcedibilità dell’azione penale per difetto di giurisdizione del giudice italiano, stabilendo che “la più rigorosa affermazione della giurisdizione italiana rispetto ai delitti politici è giustificata dal preminente interesse dello Stato italiano alla tutela del proprio ordinamento politico”, affermando che un’equivalente tutela degli stati stranieri non ricorre “come è indirettamente comprovato dal divieto dell’estradizione dello straniero per reati politici”.
42 Per effetto dell’art. 2, comma 5, D. L. 374/2001, conv. in L. 438/2001, la precisazione “italiano” inserita all’art. 7, n. 1, c.p. è intervenuta nonostante la perfetta coincidenza della previgente formulazione con l’intitolato del Titolo I (“Dei delitti contro la personalità dello Stato”), Libro II del Codice, donde pareva confidarsi sul fatto che in claris non fit interpretatio.
43 V. C. LAVAGNA, Istituzioni di diritto pubblico, Torino, 1985, 387; SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo cit., 130.
44 V. Cass. Pen, sez. I, 26 aprile 1948, Riv. it. dir. pen., 48, 338 per cui rileva solo la natura del bene giuridico offeso: un interesse politico dello Stato o un diritto politico del cittadino; Cass. Pen., sez. I, 6 dicembre 1950, Gius. pen. 51, II, 384 per cui l’offesa alla religione dello Stato di cui all’art. 403 c.p. non offende un interesse politico dello Stato. In relazione alla differenza tra strage comune (art. 422 c.p.) e strage politica (art. 285 c.p.) ved. Cass. pen., sez. I, sent. 172975/85). Cfr. art. 1092, comma 1, n. 1, c. nav. secondo cui il “fine politico” costituisce circostanza aggravante.
45 V. VASSALLI, Delitto politico cit., 2, per cui “La dottrina fece fatica per individuare alcuni delitti oggettivamente politici, la cui punibilità dovesse ritenersi – anziché incondizionata, a mente dell’art. 7 n. 1 – subordinata alla condizione della richiesta del ministro della giustizia; e la rinvenne in alcune leggi speciali dell’epoca (come l’art. 12 del R.D.L. 22 aprile 1943, n. 245, contenente la previsione del “tradimento economico”, ritenuto da taluno un vero e proprio delitto contro la personalità dello Stato) o, più plausibilmente, in ipotetiche leggi future”. La disposizione citata punisce, per un verso, chiunque sottrae merci non vincolate (art. 7) o procaccia merci vincolate (art. 8) di rilevante entità allo scopo di cagionare la deficienza o l’aumento del prezzo sul mercato (comma 1), con attenuazione della pena se il fatto non ha prodotto grave turbamento sul mercato (comma 2); per altro verso, punisce il produttore che, per il fine suddetto, occulta rilevanti entità di merci proprie (comma 3). Sulle difficoltà di individuazione ved. Cass. pen., sez. I, sent. 27 giugno 2003/12 settembre 2003, n. 35488. L’autorevolissima opinione del MANTOVANI, Diritto penale cit., 988 che nel reato politico diretto ricomprenderebbe i reati del codice penale militare (verosimilmente, quelli contro la fedeltà e la difesa militare, artt. 77 ss. c.p.m.p. e quelli di spionaggio militare e rivelazione di segreti militari, artt. 86 ss. c.p.m.p.) va rapportata ai profili di giurisdizione. Infatti, anche ricorrendo la giurisdizione del giudice ordinario a fronte di connessione tra reati comuni e militari (art. 13, comma 2, secondo periodo, c.p.p.), dovrà valutarsi la vis attractiva dei richiamati artt. 17 e 18 c.p.m.p., speciali e quindi autonomi rispetto alla disciplina dell’art. 8 c.p. Cfr. VENDITTI, Il diritto penale militare cit., 33, per cui “i rapporti tra la legge penale militare e la legge penale comune vengono regolati dall’art. 16 c.p. (il quale stabilisce che “le disposizioni di questo codice si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali in quanto non sia da queste stabilito altrimenti”) e dall’art. 15 (il quale stabilisce la prevalenza della norma speciale ogni qualvolta si ponga tra più norme un rapporto di specialità”), creandosi in tal modo “una gerarchia di norme ordinarie: le norme penali comuni stabiliscono dei principi che sono applicabili anche alla materia regolata dalla legge penale militare; e le norme penali militari, da parte loro, configurano istituti che, pur avendo spesso carattere speciale, funzionano di solito secondo regole penalistiche generali; resta salva, però, la possibilità di derogare a tali regole, là dove la specialità degli istituti esiga una disciplina peculiare ed autonoma”.
46 V. MANTOVANI, Diritto penale cit., 118, 404, 585; ANTOLISEI, Diritto penale cit., 174; DELPINO/BARTONE, Diritto penale cit., 96.
47 Cfr. PANNAIN, Il delitto politico cit., secondo cui: “Nè può indurre in equivoco la seconda disposizione dell’ultima parte di detto articolo, giacchè i verbi “è” e “si considera” rendono bene il concetto del legislatore: il delitto comune determinato da motivi politici non “è” delitto politico ma è ad esso equiparato nel trattamento. Al trattamento fatto per i “delitti politici” veri e propri la legge sottopone anche quelli comuni determinati però da motivi politici”. In conclusione, “Delitto politico è soltanto quello tale oggettivamente considerato; senonchè anche i delitti comuni sono trattati come delitti politici, quando siano determinati da motivi di questa specie; e con ciò non si è accolto un postulato della scuola positiva, ma si è formulata una eccezione determinata da ragioni politiche”. E’ indicativa, in proposito, la soppressione della congiunzione e dell’aggettivo “sociale” che, in sede di lavori preparatori, erano stati aggiunti all’espressione “motivi politici”, talchè “Tale soppressione conferma l’inesistenza di interessi politici al di fuori dello Stato” (T.S.M. di Roma, sentenza del 25 ottobre 1960). Cfr. Cass. Pen, sez. I, sent. n. 16808 dell’8 aprile 2004 per cui un “reato comune è soggettivamente politico ai sensi dell’art. 8, comma 3, c.p. allorchè sia qualificato da un movente di natura politica, nel senso che l’agente si sia determinate in tutto o in parte a delinquere al fine di incidere sull’esistenza, costituzione e funzionamento dello Stato ovvero favorire o contrastare idee o tendenze politiche proprie dello Stato, o anche offendere un diritto politico del cittadino, si che non è sufficiente ad escludere la natura politica del delitto la circostanza che esso sia stato commesso per motivi in parte o prevalentemente politici”. In tal senso, il motivo politico non si esaurisce in un pretesto politico (Cass. Pen., sez. I, 11 marzo 1961, C. pen. Mass. 60, 321), non bastando che il movente politico risulti dal mero asserto dell’imputato, in assenza di documentazione dimostrativa di elementi che accompagnino l’azione criminosa e la determinino (Cass. Pen. 6 settembre 1957, in Giust. pen. 1958, II, 1).
48 Cfr. Cass. civ., sent. nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 dell’11 novembre 2008. Cfr. S. PANAGIA, Il delitto politico nel sistema penale italiano, Padova, 1980. Cfr. V. MASARONE, Argomento a favore di un’interpretazione costituzionalmente orientata del delitto politico: il divieto di estradizione per reati politici e la “depoliticizzazione” del terrorismo, in Diritto penale contemporaneo, 2013. Secondo VASSALLI, Delitto politico cit., 7, è opportuno superare addirittura il dato formale in quanto, “fino a che l’art. 8 esiste”, risulterebbe “eccessivo limitarne l’applicazione secondo criteri particolarmente restrittivi. Una norma, quando si è staccata dalla sua prima matrice, comincia a vivere di vita sua propria, e soprattutto trae alimento e respiro dal sistema giuridico sopravveninete. Se si continuano ad interpretare le disposizioni della Costituzione sul delitto politico alla stregua della definizione dell’art. 8, non si vede perchè la concezione di un delitto politico non necessariamente legato ad interessi dello Stato italiano, quale è imposta dalla Costituzione in materia di estradizione, non debba essere accolta, almeno in parte, anche ai fini dell’art. 8”.
49 Cass. pen., sez. I, 2 gennaio 1951, Riv. it. dir. pen. 51, 156, per cui è oggettivamente politico il reato di falsificazione di atti destinati ad operazioni elettorali, essendo il diritto elettorale un diritto politico.
50 Cfr. Cass. pen., sez. I, sent. 196106/1993 per cui costituisce regola generale che “il movente è la causa psichica della condotta umana e costituisce lo stimolo che ha indotto l’individuo ad agire; esso va distinto dal dolo, che è l’elemento costitutivo del reato e rigurda la sfera della rappresentazione e volizione dell’evento” (per distinzione tra dolo e movente, Cass. pen., sez. V, sent. 38736/17; sez. I, 466/1993). Sennonchè, “quando la legge fa dipendere l’esistenza di un determinato reato dal movente che ha spinto l’azione (cioè dal fine avuto di mira dall’agente), il movente assurge a elemento costitutivo, che, peraltro, non modifica la nozione del dolo, se non nel senso che questo, perchè il reato sussista, deve formarsi rispetto al fine preso in considerazione dalla norma (dolo specifico)” (DELPINO/BARTONE, Diritto penale cit., 219). Per ANTOLISEI, Diritto penale cit., 445 “il movente si distingue, per tal modo, dallo scopo (o fine), il quale, consistendo nella rappresentazione di un risultato, ha sempre carattere conoscitivo. Esso, però, quando è consapevole coincide con lo scopo ultimo dell’azione umana, il quale è in ogni caso costituito da un bisogno da soddisfare”. V. in particolare F. GIUNTA, I beni della persona penalmente tutelati: vecchie e nuove sfacettature”, in Criminalia (annuario di scienze penalistiche) in disCrimen dal 25 ottobre 2018, 9, per cui a fondamento dell’art. 583-bis c.p. “non è tanto il disvalore dell’azione che rileva, ma i moventi sottesi al fatto”. Cfr. P. FRANCESCHETTI, Dolo, in AltalexPedia, 11/4/2016, per cui il dolo è “invece specifico, quando, per integrare il reato, il legislatore prevede oltre alla volontà dell’evento, un fine ulteriore, anche se poi il fine per avventura non si realizza. In pratica il soggetto agisce per un fine che, si suol dire, sta al di là del fatto, o al di fuori di esso, e che rientra nei moventi”. V. PANNAIN, Delitto politico cit., secondo cui “Se, infatti, si ricorda che durante i lavori parlamentari più volte si è espresso il concetto de l’esclusiva rilevanza de l’elemento psicologico “dolo”, ad eccezione dei casi, in cui la legge rilevanza, sempre secondaria, attribuisce ai motivi (es. art. 61, n. 1, 62, n. 1) (ed è vero che il disposto de l’art. 8 potrebbe rientrare tra le eccezioni alla regola, ma assai più grave di quella delle aggravanti e delle attenuanti comuni); se si ricorda che il prof. Arturo Rocco durante i lavori preparatori dichiarò il “motivo” sinonimo di “fine” ed “intenzione”, verrà spontanea la domanda che cosa debba intendersi per motivo e perchè mai di esso parli l’art. 8 medesimo. Da tali premesse, l’autore arriva, però, a sostenere l’incompatibilità del movente politico col fine, non valorizzando la correlazione dell’art. 8 con le disposizioni di parte speciale, talchè: “Se, invero, i “motivi” di cui tratta l’art. 8 dovessero intendersi come “fini” o “scopi”, assurdo sarebbe il disposto del predetto articolo, in proposito; giacchè essi servirebbero a denotare il dolo generico, o, magari, il dolo specifico, che nei reati comuni, altro non è che l’intenzione diretta al particolare evento comune del determinato reato. E sarebbe contraddittorio chiamare, ad es., motivo politico il “fine di trarre profitto” del furto. E d’altra parte il “fine” del furto è soltanto quello di profitto: onde la impossibilità di un motivo-fine politico, in detto reato”. Perciò: “deve quindi concludersi che i “motivi” nell’art. 8 stanno a designare quegli impulsi, che determinano l’agente al reato, all’infuori de l’appetizione del particolare risultato, ch’è, invece, il fine e lo scopo”.
51 V. G. MARINO, “Il filo di Arianna”. Dolo specifico e pericolo nel diritto penale della sicurezza, in Diritto penale contemporaneo, n. 6/2018, per cui il dolo specifico implicito è “ravvisabile in tutte quelle fattispecie nelle quali l’elemento intenzionale sia comunque connotato da specialità, ovvero quando il fine, pur non esplicitato, sia ricavabile dalla lettura della norma, dal suo confronto con altra fattispecie o sulla base di un’interpretazione sistematica”. Cfr. Cass. pen. 17 maggio 2004, n. 23181 per cui “vanno definiti di oggettiva gravità delitti quali l’omicidio volontario, il sequestro di persona e le lesioni personali volontarie commessi in territorio estero a danno di connazionali all’estero, non in circostanze occasionali, ma in esecuzione di un piano criminoso diretto all’eliminazione fisica degli avversari politici senza il rispetto di alcuna garanzia processuale e al solo scopo di contrastare idee e tendenze politiche di soggetti iscritti a sindacati, partiti politici o associazioni universitarie, in quanto tali delitti offendono un interesse politico dello Stato italiano”. Per un’interpretazione più restrittiva, Cass. pen. 26 aprile 1948, Sordello, GP. 48, II, 794, per cui “nel delitto politico si prescinde dal motivo che spinge il colpevole ad agire e si ha riguardo solo alla natura giuridica del bene leso, interesse politico dello Stato e diritto politico del cittadino”. Con riferimento al delitto soggettivamente politico “Il movente del delitto deve essere finalizzato in ogni caso ad offendere, sia pure attraverso la commissione di un delitto comune, un interesse politico dello Stato o un diritto politico del cittadino” (Cass. pen. Sez. I, sent. n. 152177/1982.
52 Cfr. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale cit., 200 per cui il reato, espressivo dell’antigiuridicità, “esige sempre il concorso del fattore psichico”; più in generale, R. DELL’ANDRO, Antigiuridicità (Voce), in Enciclopedia del diritto, 1958, II, pgg. 542 ss.; PADOVANI, Diritto penale cit., 145 ss.
53 Cfr. T. PADOVANI, Circostanze del reato (voce), in Dig. pen., 1988, V. II, 195.
54 Cass. pen., sent. n. 52747/2017.
55 DELPINO/BARTONE, Diritto penale cit., 295;
56 MANTOVANI, Diritto penale cit. 451.
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