Nel corso dei decenni, dalla firma del Trattato di Roma fino alla recente entrata in vigore del Trattato di Lisbona, è intervenuto, sia sui testi dei trattati dell’Unione sia all’interno della elaborazione della Corte di Giustizia, un cospicuo dévelloppement in tema di rapporto fra ordinamento comunitario e ordinamento statuale dei Paesi Membri.
Per quel che concerne, in particolare, l’Italia, l’adesione al Trattato istitutivo della CEE si collocava nell’alveo dell’art. 10, comma 1°, Cost., posto che da esso promanavano “norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”, e segnatamente disposizioni pattizie plurilaterali, rese esecutive in Italia con apposita legge di ratifica ex art. 80 della Carta costituzionale.
Onde è che, su questa base, laddove in origine fosse accaduto che una norma primaria di diritto interno manifestasse una sua contrarietà a disposizioni del Trattato istitutivo o di un regolamento comunitario, le norme CEE potevano essere fatte prevalere su quelle domestiche attraverso lo strumento ermeneutico applicato a queste ultime. Ciò significava chel’interprete (cioè il giudice interno), onde dirimere i dissidi fra disposizioni comunitarie e norme di legge italiane, applicava, onde fare prevalere le prime, il brocardi lex posterior derogat priori ovvero, laddove la norma interna era successiva a quella comunitaria, lex specialis derogat generali – in tale ultimo caso tendendo a pensare proprio il diritto comunitario come legge speciale nelle materie di rispettiva competenza. Inoltre, a fronte di più possibili soluzioni interpretative di una norma interna in dissidio con norme comunitarie, l’interprete – in particolare il giudice nazionale – evitava il contrasto medesimo mediante l’adozione di quella via ermeneutica, che risultava essere in compliance con le norme CEE
Questi sono i primi – più semplici – strumenti, a mezzo dei quali, in sede processuale “domestica”, i giudici italiani potevano risolvere i contrasti fra norme comunitarie e disposizioni interne.
Fin qui la prevalenza dell’ordinamento comunitario rispetto a quello nazionale era piuttosto limitata, così come risultava da almeno due profili: a) anzitutto tale prevalenza lasciava aperto il problema del possibile contrasto tra norme interne e direttive comunitarie, non (ancora) attuate in Italia a mezzo di apposita legge; b) nella su indicata prospettiva, le norme del Trattato CEE finivano con l’essere trattate al pari di qualsivoglia altra convenzione internazionale (bilaterale o multilaterale che fosse), conclusa dall’Italia con Paesi terzi, laddove invece appariva piuttosto evidente che il Trattato di Roma (con la sua posteriore evoluzione) avesse un quid pluris rispetto ad altri impegni pattizi di diritto internazionale pubblico. Ma vi è di più. Rimanendo all’interno di quella primigenia soluzione dei contrasti fra norme, non sempre era possibile sciogliere i nodi in via interpretativa applicando gli strumenti di cui sopra (per i quali soccorreva in parte anche l’art. 15 delle Preleggi): sicché, in mancanza del rimedio ermeneutico, altra soluzione non restava, per sciogliere il contrasto, se non quella del giudizio incidentale dinnanzi alla Consulta, con la derivata dichiarazione d’incostituzionalità della norma interna per violazione della Carta Fondamentale sub art. 10 (cui adde oggi l’art. 117).
Fu così che si andò formando, nella giurisprudenza comunitaria e di riflesso in quella italiana, l’idea per cui i trattati europei non sono meramente collocabili sul piano di ogni altra convenzione internazionale stipulata dall’Italia. Piuttosto, a far tempo dalla metà degli anni Ottanta, si cominciò con il dire che il diritto comunitario compenetra il diritto interno del nostro Paese il quale, con la stipula del Trattato istitutivo (e successive integrazioni e modifiche), ha operato un trasferimento di sovranità alle istituzioni comunitarie per tutto ciò che concerne le materie di loro competenza. Questo assunto, poi, è posto in collegamento con quello della diretta applicabilità, in Italia, delle regole comunitarie, laddove queste, secondo il diritto europeo, non abbisognano di apposito intervento da parte del legislatore nazionale (trattati fondativi, regolamenti, sentenze della Corte del Lussemburgo).
Questa è la primauté del diritto europeo su quello domestico, in virtù della quale non è (più) necessario instaurare incidentalmente un giudizio costituzionale, onde fare prevalere la norma europea su quella italiana difforme, posto che, proprio per effetto di tale primazia, la norma domestica in dissidio è semplicemente disapplicata – cioè resa inefficace (o “sterilizzata) – dal giudice nazionale.
Peraltro, con un ulteriore passo in avanti della giurisprudenza, nell’alveo del diritto comunitario direttamente applicabile – accanto a trattati e ai regolamenti e ai princìpi della Corte – furono fatte rientrare dalla Consulta (sulle orme della Corte del Lussemburgo) anche le direttive c.d. self executing, cioè a dire quelle che, essendo già di per sé chiare e precise e dettagliate, potevano reputarsi efficacemente “aderenti” al caso concreto, nelle more di attuazione del legislatore nazionale.
Ciò detto in termini generali, si possono ora vedere taluni strumenti processuali, i quali risultano essere adoperabili per fare valere la primazia del diritto europeo e delle posizioni soggettive da esso promananti, dinnanzi alle corti italiane.
Al riguardo va precisato anzitutto che la diretta applicabilità delle direttive self-executing – della quale si è detto – è reputata essere applicabile soltanto nel senso c.d. verticale e non già orizzontale. In altre parole, quella diretta applicazione può essere fatta valere, dinnanzi al giudice nazionale, soltanto a carico dello Stato Membro inadempiente e della sua pubblica amministrazione, ma non invece dei cittadini privati. Ciò in quanto, sul piano ermeneutico, si ritiene non potersi ragionevolmente applicare per le direttive, che non hanno in Italia pubblicità legale pari a quella di una legge nazionale, la presunzione di conoscenza – sì che il rischio della ignorantia legis che non excusat, con riferimento alle direttive direttamente applicabili, è posto solamente a carico dei soggetti pubblici.
Bisogna poi aggiungere che sia la Corte europea, sia la giurisprudenza del nostro Paese, riconoscono al soggetto privato il diritto di agire nei confronti dello Stato inadempiente agli obblighi comunitari, per il risarcimento di quel danno che deriva dal mancato o tardivo recepimento di una o più direttive europee. Non vi è chi non veda che, quand’anche la direttiva inattuata non abbia i crismi per essere direttamente applicabile, la primazia del diritto europeo fa sì che, se pure non in forma specifica (ma per equivalente), esista una responsabilità dello Stato verso i consociati in relazione all’ appartenenza di quello all’Unione. Si delinea, in tal guisa, una responsabilità extra-contrattuale del Paese Membro verso i suoi consociati, per i danni a questi cagionati a mezzo dell’inadempimento agli obblighi pattizi assunti verso gli altri Paesi Membri. In altre parole, siamo di fronte a una delle possibili “incarnazioni” dell’odierno concetto di risarcibilità del danno, cagionato non soltanto da una violazione di diritti assoluti, ma anche di quelli relativi – così come, anziché di diritti, d’interessi legittimi. In una diversa prospettiva, si può sostentere che siamo in presenza di una posizione giuridica tutelata, in capo all’individuo, a che il diritto comunitario, con la sua primazia, sia adempiuto dal proprio Stato di appartenenza.
In analoga prospettiva (quella, cioè, degli strumenti processuali per fare valere le posizioni soggettive di derivazione comunitaria), si può pensare ai casi di contrasto fra il diritto comunitario e un provvedimento amministrativo.
Una prima situazione, più facilmente risolubile in termini di tutela effettiva, è quella del provvedimento che intacca un interesse legittimo del privato, e lo fa in applicazione di una norma primaria interna, la quale risulta essere in contrasto con una o più disposizioni comunitarie direttamente applicabili (trattato, regolamento, sentenze della Corte di Giustizia, direttiva self-executing). In tale ipotesi – di c.d. “antipatia” fra norma interna e norma comunitaria -, al giudice amministrativo può essere domandato l’annullamento del provvedimento poiché quest’ultimo risulta essere in violazione di legge. La stessa cosa accade se il provvedimento è in contrasto con una norma primaria interna, la quale è debitamente attuativa di una norma comunitaria: la quale, in altre parole, è in situazione di “simpatia” con l’ordinamento europeo.
Più delicato è il caso del provvedimento amministrativo, il quale viene a trovarsi in “simpatia” con la norma primaria interna, quando però è quest’ultima a essere in “antipatia” con il diritto europeo direttamente applicabile. La maggiore problematicità di questa situazione consiste nel fatto che non si tratta di domandare al G.A. l’annullamento del provvedimento amministrativo, ma si tratta piuttosto di fare valere l’interesse a che l’atto stesso non produca i suoi effetti nonostante la conformità con la norma primaria interna – posto che, evidentemente, è quest’ultima a essere violativa, in ipotesi, del diritto europeo dotato di primazia. A fronte di una siffatta peculiarità, si può obiettare che l’istituto della disapplicazione, in quanto tale, possiede anzitutto un oggetto provvedimentale piuttosto che normativo, e dipoi è vòlto a “sterilizzare” un provvedimento dinnanzi al G.O., non potendosi in quella sede domandarne né disporne l’annullamento (art. 4, L.A.C., id est r.d. n. 2248/1865, All. E): ebbene tutto ciò – si osserva – non ha nulla a che fare con il caso in questione. Nondimeno, proprio argomentando sulla scorta della necessaria primauté del diritto europeo su quello domestico, la giurisprudenza ammette che il privato interessato, il quale si veda violato dalla P.A. nel soddisfacimento di un interesse meritevole di tutela, possa impugnare il provvedimento lesivo (chiedendo anche, se del caso, il risarcimento dei danni), per avere la P.A. deliberato e/o agito in violazione del diritto comunitario. Qui l’annullamento è disposto, dal giudice amministrativo, per effetto della disapplicazione della norma (primaria) interna anti-europea.
Può altresì capitare che la pubblica amministrazione, anziché subire la diretta applicabilità del diritto europeo, si avvalga, nello svolgimento delle proprie funzioni, della primazia in parola, disapplicando eventuali norme interne in conflitto con l’ordinamento sovranazionale. Si pensi alla nostra Autorità Garante della Concorrenza, la quale applica, per esempio, il regolamento comunitario settoriale, disapplicando eventuali norme domestiche a esso contrarie. In un tale caso -il quale depone nel senso di una maggiore effettività del Garante – ciò che non può farsi (come si è visto) “verticalmente” con le direttive self-executing, è invece possibile con un regolamento della Comunità, così come per le altre norme europee direttamente applicabilei per loro natura istituzionale.
E ancora, in tema di aiuti di Stato (artt. 87 ss., Tratt. CE ante Lisbona, oggi artt. 107 ss. TFUE), può accadere che la Commissione europea reputi che una sovvenzione sia contraria al divieto comunitario e, per conseguenza, ordini allo Stato Membro di ripetere il relativo esborso dai beneficiari. A tal proposito, la Corte del Lussemburgo ha stabilito che il Paese Membro è obbligato al recupero dell’indebito quand’anche si tratti, allo scopo, di oltrepassare la norma interna sugli effetti della cosa giudicata. In questo caso è la Pubblica Amministrazione a (dovere) procedere a una disapplicazione dell’art. 2909 c.c. a scapito dei privati e non viceversa, posto che questi hanno incassato gli aiuti avallati da un giudicato interno eppure contrari al diritto europeo. Peraltro una siffatta disapplicazione, nel caso di successivo contenzioso tra P.A. e privato beneficiario (il quale per esempio si opponga al recupero statuale), dovrà essere operata anche dal giudice investito della controversia – così emergendo, dinnanzi a esso, una posizione giuridica tutelata in capo all’autorità pubblica, che è interessata al recupero dell’aiuto erogato. Bisogna, al riguardo, notare che l’arresto della Corte di Giustizia sulla ripetizione degli aiuti di Stato nella direzione appena ricordata, se osservato superficialmente può sembrare in contrasto con altre pronunce dei Giudici del Lussemburgo, le quali salutano con favore le norme interne dei Paesi Membri in tema di cosa giudicata, in virtù del loro contributo alla certezza del diritto all’interno della Unione; e tuttavia, ove osservata oltre la superficie, quella stessa giurisprudenza della Corte sugli aiuti manifesta che, nel caso concreto di causa, non era stata impugnata nei termini dinnanzi alla Corte stessa – divenendo così definitiva ai fini del diritto comunitario – la decisione con cui la Commissione aveva ordinato la ripetizione delle erogazioni sulla base della loro contrarietà al divieto europeo. Sì che, alla luce di tale sopravvenuta definitività del decisum dalla Commissione, il superamento del giudicato interno, operato da tale organo e avallato dai Giudici del Lussemburgo, risulta essere meno eclatante oltre che non-contraddittorio rispetto ad altre pronunce della Corte europea.
Fin qui si è visto come, in varie circostanze processuali, il diritto comunitario compenetri il diritto interno nelle materie di competenza di quello, imponendosi direttamente – in primauté – a mezzo dell’interpretazione e/o della disapplicazione delle disposizioni nazionali con esso incompatibili. Vi sono poi anche situazioni peculiari, nelle quali gli strumenti processuali a disposizione sono diversi e meno diretti.
Si consideri ad esempio la posizione della presidenza del consiglio dei ministri italiana la quale, ai sensi dell’art. 134 Cost., instauri un giudizio principale dinnanzi alla Consulta e in contraddittorio con una regione, assumendo che quest’ultima, con propria legge asseritamente legittima, ha introdotto un tributo locale il quale invece, secondo la prospettazione dello Stato, è contrario al diritto europeo vuoi sotto l’aspetto del divieto degli aiuti vuoi sotto l’aspetto della non-discriminazione. Ebbene in un tale caso – effettivamente verificatosi per taluni tributi sardi, posti a carico dei soggetti non fiscalmente domiciliati nell’isola -, la Corte Costituzionale ha posto la questione in termini non già di disapplicazione delle norme tributarie regionali, bensì in termini di costituzionalità o meno delle stesse, posto che, del raffronto tra esse e l’art. 117 Cost., si verteva in un giudizio principale dello Stato in contraddittorio con la Regione autonoma, e non già in un giudizio incidentale instaurato a seguito della rimessione degli atti da parte di altro giudice. In questo caso il Giudice delle Leggi non applica direttamente il diritto europeo, ponendosi piuttosto (con una innovazione salutata con plauso dai Giudici del Lussemburgo) nella prospettiva di un doveroso un filtro di costituzionalità, per applicare il quale – poi – l’interpretazione del diritto europeo spetta alla Corte di Giustizia, entro l’apposito giudizio pregiudiziale e incidentale rispetto a quello costituzionale, instaurato e instaurando ai sensi dell’art. 234 Tratt. CE (oggi 267 TFUE).
Né deve pensarsi che primauté del diritto europeo significhi anche, in eventuali casi-limite, stravolgimento di punti nevralgici e portanti dell’ordinamento interno della Repubblica. Infatti, secondo un orientamento giurisprudenziale promosso dalle nostre corti e condiviso in dottrina, si delinea la c.d. “teoria dei controlimiti” rispetto al “limite” incombente della normativa comunitaria. Ciò significa che la primauté europea trova un suo limite invalicabile, ogni qual volta si tratta di mettere in discussione norme interne, la cui ratio s’ispira a principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e/o a diritti inalienabili che da esso promanano in capo alla persona umana (la salute, per esempio).
Infine, la primazia del diritto comunitario – come si è detto – può riguardare (anziché norme pattizie o regolamenti o direttive dettagliate) principi enunciati dall’alta Corte di Giustizia. Anche per essi vale la regola della diretta applicabilità, con eventuale prevalenza su norme di diritto interno disapplicabili. Così, nel caso di una sentenza definitiva della nostra Suprema Corte, la quale è ritenuta essere in contrasto con il diritto comunitario, la relativa azione civile contro la Presidenza del Consiglio per il risarcimento dei danni, esperita ai sensi della legge n. 117 del 1988, non può prescindere da taluni criteri-base fissati in proposito dai Giudici del Lussemburgo. In particolare, a fronte della eccezione statuale giusta la quale non sussisterebbe responsabilità alcuna – non essendo i giudici di Cassazione incorsi in una colpa grave ed essendosi piuttosto limitati a fornire una certa interpretazione delle norme (ex art. 2, legge n. 117 cit.) -, l’attore, il quale lamenta una violazione del diritto UE da parte del Supremo Collegio, potrebbe fondatamente obiettare che, secondo il dictum dei Giudici del Lussemburgo, una responsabilità dello Stato Membro, per violazione del diritto europeo da parte di un giudice nazionale di ultima istanza, non può essere revocata in dubbio neanche sulla scorta di un’asserita culpa levis, ogni qual volta la inosservanza delle norme europee (direttamente applicabili) sia grave ed evidente. In questo caso si fa valere fondatamente, in un giudizio italiano, una posizione giuridica che è di derivazione comunitaria, e lo è in punto d’interpretazione correttiva di norme interne, dettate in tema di responsabilità statale per i danni cagionati nell’esercizio di talune funzioni giudiziarie, svolte dai magistrati con falsa applicazione del diritto europeo.
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