Nozione ed evoluzione storica del principio romanistico
Tutto il diritto civile si regola sul principio di eguaglianza fra i privati. Ciò è presente, a chiare lettere, dalla lettura dell’articolo 3 della Carta costituzionale, che tollera alcune eccezioni, come ad esempio nel caso del rapporto di lavoro, nelle controversie di famiglia, nei procedimenti di assistenza di un soggetto. In tali espressioni giuridiche, ciò che rileva è la tutela della parte più debole del rapporto che, per tale scopo, va sostenuta con particolari misure disposte dall’ordinamento giuridico. Ma uguaglianza è anche il rispetto delle regole che le parti stabiliscono per la conclusione di un accordo. Ciò è stigmatizzato nel principio di derivazione romanistica alterum non laedere. Per tale ragione, non si può immaginare un rapporto giuridico, senza la lealtà e la correttezza. E per fare ciò è utile osservare la regola della buona fede.
La buona fede è quel principio dell’ordinamento positivo, che indica il comportamento teso alla lealtà ed al legittimo affidamento delle parti in un rapporto giuridico. Questa è operante in molti rapporti del diritto civile, in quanto indica una comune regola di condotta, nella formazione di un atto legale, sia nel settore dei rapporti obbligatori che in quello dei diritti reali.
Questa dunque si presenta come un dovere di reciprocità in un rapporto per un determinato e specifico fine. Le norme in cui è evidenziato ciò, sono gli articoli 1175 e 1176 c.c., ma il riferimento alla stessa è presente anche in altre norme del codice civile (come ad esempio negli articoli 1366, 1375, 1994 c.c etc.). Difatti questa è una regola aurea nei rapporti obbligatori(1) e si riferisce a tutte quelle ipotesi in cui, per l’adempimento di un’obbligazione, è necessaria una leale cooperazione, assimilabile a quella del bonus pater familias. Il principio fa riferimento alla prudenza dell’uomo medio, nel quotidiano svolgersi della propria attività. Tale considerazione, presente nei rapporti giuridici, è sottesa al criterio dell’attenzione e della diligenza, posta in essere dalle parti per il raggiungimento delle finalità giuridiche.
Storicamente, il concetto di bona fides fu evidenziato dall’acuta riflessione dei giuristi romani, i quali applicavano il principio alle comuni fattispecie pratiche. Per i giuristi romani, questa era un parametro fondato sull’etica sociale della cittadinanza, per valutare il regolare comportamento delle parti, in un rapporto giuridico. La stessa trovava tutela nelle actiones bonae fidei che rappresentarono l’evoluzione più compiuta del diritto pretorio, nell’affermazione delle aspettative delle parti. In tali azioni, il potere del giudice era più ampio, in quanto era tenuto ad una maggiore discrezionalità nell’analisi del caso sottoposto alla propria cognizione. Un’applicazione di queste azioni si registrò soprattutto nell’ambito dei rapporti contrattuali, come ad esempio nel contratto di vendita (emptio-venditio), nel mandato (mandatum) ed in quello di locazione (locatio-conductio).
La bona fides trovava riscontro anche nei diritti reali, come ad esempio nel caso di usucapio di un bene acquisito dalla parte. Senza questa, l’atto era illecito e soggetto ad azione restitutoria. Un altro esempio è presente nel caso di acquisto dei frutti pertinenti ad un bene. Infatti, secondo gli studi di Pietro Bonfante,“acquistano i frutti in base al rapporto con la cosa il proprietario, l’enfiteuta ed il possessore in buona fede al momento stesso della separazione, l’usufruttuario soltanto con la percezione”(2).
Storicamente, il codice Pisanelli (1865) si rifà a tale impostazione, desunta dall’impostazione pratica del Diritto romano. Ed il vigente codice civile (1942) applica la buona fed in più norme del proprio progetto, per concretizzarne l’applicazione.
Secondo la più accreditata dottrina giuridica (3) il principio della buona fede è inquadrabile in due forme: quella soggettiva ed oggettiva. Tali ipotesi sono diverse e distinte e pertanto meritano di essere, autonomamente, analizzate (4).
La prima fa riferimento alle fattispecie in cui un soggetto, con la propria attività, ignori di ledere il diritto di un altro consociato. Ne sono un chiaro esempio il caso del possesso in buona fede, ai sensi dell’articolo 1147 c.c, oppure l’ipotesi che riguarda l’usucapione di un bene, ai sensi dell’articolo 1159 c.c, oppure la circostanza del possesso dei beni ereditari, ai sensi dell’articolo 535 c.c. In tali ipotesi normative il soggetto, per vedere applicata la buona fede, deve agire nella piena ed avvertita consapevolezza di non invadere un altrui diritto e di non recare un danno nella sfera altrui. Tale specificazione è di natura psicologica, in quanto si inserisce, nella interna manifestazione della volontà del soggetto.
La seconda ipotesi, invece, attiene al generico dovere di lealtà e correttezza dei rapporti giuridici ad esempio presenti nelle norme di cui agli articoli 1175, 1176, 1337, 1366 c.c . Processualmente, per provare la buona fede di un rapporto giuridico, è utile osservare che vale il principio dispositivo di cui all’articolo 2907 c.c e 115 c.p.c, per cui onus probandi incumbit ei qui dicit, non ei qui negat. Sul punto, Andrea Torrente afferma che “la buona fede si presume: chi allega la mala fede di un’altra persona deve provarla (5).
Nelle due fattispecie, il soggetto che, violando il richiamato principio, produce un danno all’altra parte, ai sensi dell’articolo 2740 c.c., è tenuto a risarcimento dello stesso.
Massima della Suprema Corte di Cassazione
Per quanto premesso, è utile osservare come il principio di cui si discute, emerge anche in tema di esecuzione dei rapporti obbligatori. In tale ipotesi, la prestazione è caratterizzata dall’atteggiamento positivo delle parti, nella dinamica applicazione di un accordo. Ciò è confermato dalla Suprema Corte di Cassazione che, con la pronuncia numero 3775 del 20 aprile 1994, ha ribadito che :“In tema di esecuzione del contratto, la buona fede si atteggia come impegno di cooperazione o un obbligo di solidarietà che impone a ciascun contraente di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali, o dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, siano idonei a preservare gli interessi della controparte senza rappresentare un apprezzabile sacrificio”. In tal caso, il principio è operante ai sensi dell’articolo 1375 c.c, in relazione all’esecuzione di un onere contrattuale. Ciò in quanto la buona fede è una regola generale che riguarda, con il proprio atteggiarsi, tutto il rapporto obbligatorio nel proprio ontologico sviluppo (dalle trattative precontrattuali fino all’esecuzione dello stesso).
Secondo la teoria generale qualora la parte si dimostri inadempiente, la citata norma va letta in coordinato con l’articolo 2932 c.c, il quale specifica la possibilità di dare esecuzione ad un accordo già concluso. Questa ha la funzione di ottenere una sentenza che produca gli stessi effetti del contratto non eseguito, fra le parti.
Osservazioni conclusive
Alla luce di quanto fin qui esposto è evidente osservare come il principio della buona fede illumina tutti i rapporti giuridici presenti nel codice civile. Ciò in quanto tale principio, sia nei diritti obbligatori che in quelli reali, rappresenta una clausola generale che indica alle parti l’atteggiamento da seguire in relazione all’interesse da raggiungere. Ciò dimostra come il diritto non sia solamente teso ad una esatta valutazione delle fattispecie, ma è soprattutto esternazione di quei principi, etici e sociali, già presenti nella Carta costituzionale, che consentono il regolare sviluppo della persona nei singoli rapporti fra consociati per il raggiungimento del bene comune.
1.MARIO BESSONE AA.VV. Istituzioni di diritto privato, Giappichelli, Torino, pg. 584.
2.PIETRO BONFANTE, Istituzioni di diritto romano, Giappichelli, Torino, 1951, pg. 271.
3. ANDREA TORRENTE, Manuale di diritto privato,Giuffre, Milano, pg. 341.
4. ALBERTO TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Cedam,Padova, 1957, pg. 489.
5. ANDREA TORRENTE, Manuale di diritto privato,Giuffre, Milano, pg. 341.
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