L’attività amministrativa può essere distinta in amministrazione attiva, consultiva e di controllo. L’amministrazione attiva agisce per il perseguimento dei propri fini e include in sé le attività deliberative ed esecutive; l’amministrazione consultiva comprende le attività volte a fornire consigli, direttive e chiarimenti alle autorità che devono provvedere in concreto; l’amministrazione di controllo si occupa del controllo di legittimità o di merito sull’operato degli agenti dell’amministrazione attiva.
Un ulteriore distinzione è quella tra attività sostanziale e organizzativa: la prima è diretta alla cura degli interessi della P.A., la seconda si occupa della creazione di strutture che possano soddisfare i suddetti interessi.
Tuttavia l’attività della P.A. incontra dei limiti. Si parla, infatti, di attività discrezionale o vincolata: nel primo caso si è in presenza di una riserva di legge relativa che consente all’amministrazione un margine di apprezzamento nel perseguimento degli obiettivi stabiliti; nel secondo caso l’amministrazione è, appunto, vincolata a tracciare in modo dettagliato le modalità e i tempi per l’esercizio dei propri poteri privandosi in tal modo di autodeterminazione nelle scelte.
Oggi il ruolo dei principi generali dell’azione amministrativa è sempre più importante alla luce della sovrabbondanza delle leggi. Il numero sproporzionato delle leggi, infatti, rende il ruolo unificante e chiarificatore dei principi assolutamente indispensabile.
Occorre procedere all’individuazione dei principi, del loro ruolo e delle loro fonti.
I principi sono delle norme giuridiche complete e immediatamente precettive che, come tali, vincolano l’azione delle P.A. Esse si distinguono dalle ordinarie norme giuridiche per il loro contenuto a carattere generale che ha bisogno di un riconoscimento generale. Quindi si tratta di norme generali che hanno una portata applicativa indeterminata alla luce della valenza assoluta che i principi esprimono.
Le fonti dalle quali si ricavano i principi sono di cinque tipi.
Le fonti costituzionali: art.97 Cost. che è il principio di imparzialità e di buon andamento; l’art.3 che disciplina il principio di uguaglianza da cui discendono i principi di ragionevolezza e di proporzionalità; le leggi ordinarie: la L.241/90 art.1, co.1 enuncia i principi di economicità, efficienza, pubblicità e trasparenza; i principi dettati del codice civile: principi di diritto comune che riguardano anche le P.A. come la buona fede e la correttezza; le fonti comunitarie: i principi comunitari che distinguiamo da quelli sovranazionali perché sono nazionali anch’essi alla luce dell’integrazione tra i due ordinamenti; le fonti CEDU che enunciano il principio di legalità sostanziale e il principio del giusto processo; infine esistono i c.d. principi senza testo, senza fonte normativa di elaborazione giurisprudenziale, quali ad esempio i principi di tutela del legittimo affidamento, di ragionevolezza e di proporzionalità.
Esaminiamo, adesso, gli scopi dei principi. Essi hanno cinque ruoli: costruzione, interpretazione, integrazione, applicazione e tutela.
Dal punto di vista della costruzione è evidente che, per i principi che hanno una derivazione costituzionale, tali principi vincolano la legge con la conseguenza che il discostamento della legge da un principio di natura costituzionale produce un problema di legittimità costituzionale. Essi hanno valore in chiave di interpretazione perché, in caso di legge di interpretazione non univoca, occorre adoperare l’interpretazione più congeniale rispetto al principio di riferimento. In terzo luogo hanno una veste di integrazione perché per le norme in bianco, per le norme incomplete, per le norme non autosufficienti le zone grigie vanno colmate con i principi che hanno una vis expansiva naturale e che producono l’effetto di analogia iuris in base alle preleggi. Poi hanno funzione in sede di applicazione perché l’amministrazione nell’applicare la legge deve applicarla in coerenza con i principi medesimi. Infine hanno funzione di tutela.
Con riferimento al principio di legalità, esso non è previsto da alcuna norma legale. Tuttavia esso ha un chiaro aggancio in Costituzione alla luce di una serie di parametri che lo enunciano in modo non espresso. Infatti gli artt.13 e ss. Cost. prevedono riserva di legge in tema di tutela delle libertà individuali; ci riferiamo all’art.23 Cost. che disciplina che le prestazione personali e patrimoniali possono essere imposte solo nei casi previsti dalla legge; l’art.97 Cost. che fissa il principio dell’organizzazione degli uffici in conformità alla legge; gli artt.24, 103 e 113 Cost. che, nel prevedere che tutti gli atti amministrativi debbano essere sindacati da un giudice, implicano l’esistenza di un parametro giuridico di sindacato e quindi di un vincolo legale che l’azione amministrativa deve rispettare e che il giudice deve conseguentemente verificare; l’art.101 Cost., quando stabilisce che i giudici sono soggetti solo alla legge, fa sì che il giudice, in sede di verifica delle norme amministrative, debba controllare che queste norme abbiano fondamento legale, il quale solo giustifica la compressione di interessi dei singoli da parte di atti della P.A.
Alla luce dei principi citati non sorge alcun tipo di dubbio sulla operatività del principio di legalità nella Costituzione e ciò è del tutto confermato dal disposto dell’art.1 della L.241/90 che prevede che l’attività amministrativa deve perseguire i fini stabiliti dalla legge. In tal modo si delinea la legittimità dell’azione amministrativa.
Il principio di legalità viene interpretato secondo tre accezioni: la legalità debolissima, quella debole e quella forte. Per legalità debolissima si intende il principio di non violazione della legge in base al quale l’amministrazione può fare tutto ciò che non è vietato, purché non trasgredisca la legge. La seconda accezione, quella debole, per cui non è sufficiente rispettare la legge ma occorre l’investitura legale e quindi in questo caso il potere amministrativo deve avere fondamento nella legge. Infine il terzo tipo di accezione, la legalità forte, secondo la quale non basta non violare la legge, non basta che ci sia una legge che sancisce il potere, ma è necessario che la legge disciplini il potere stabilendone i contenuti, le regole, il procedimento e l’esercizio. Il nostro sistema ha adottato una visione ampia del principio di legalità che non è solo debolissima e cioè non violare la legge, non è solo debole per cui è necessaria la sussistenza di una legge che investa l’amministrazione del potere, ma è un’accezione forte del principio di legalità secondo la quale la legge non solo deve attribuire il potere ma anche regolarlo stabilendo modalità, esercizio e contenuti dello stesso. Ne deriva che il provvedimento amministrativo non è mai un atto libero, mai caratterizzato da autonomia, ma è sempre un provvedimento significativamente vincolato sia nello scopo che nel contenuto.
Occorre prendere in esame a questo punto i profili di novità del principio di legalità.
La prima novità consiste in una lettura nuova del concetto di legge. L’amministrazione, dunque, non si deve assicurare soltanto il rispetto della norma di diritto ma deve uniformarsi ai principi e ai valori fondamentali che limitano e vincolano l’azione della P.A. Secondo questa lettura il principio di legalità si nutre del principio di proporzionalità e del principio di ragionevolezza. Non è sufficiente, pertanto, rispettare la legge ma bisogna usare, tra le varie opzioni che la legge propone, quella che sacrifica e comprime meno la tutela dell’interessato.
La seconda novità consiste nella legalità CEDU. La CEDU adotta un principio di legalità completamente diverso da quello del nostro ordinamento: la legalità fortissima. Non basta, quindi, non violare la legge, non basta l’investitura legale, non basta il rispetto dei limiti che la legge impone sul piano procedurale e sostanziale ma è necessario che questi limiti siano posti da leggi chiare, precise e prevedibili. Per la CEDU non è sufficiente la sola esistenza della legge ma la legge deve possedere una qualità tale da essere un limite, un argine rispetto agli abusi ed alle prevaricazioni del potere amministrativo. Se la norma non è chiara nel fissare i diritti del cittadino e nel limitare i poteri della P.A. e non ha un esito prevedibile nelle sue applicazioni concrete la legalità è solo formale e non sostanziale.
Il terzo profilo di novità riguarda i poteri impliciti. Con riferimento a tali poteri si fa riferimento all’ipotesi in cui la competenza ad adottare un provvedimento e più in generale un provvedimento amministrativo non è fissato alla legge ma si ricava dalla sua necessità ai fini del perseguimento dello scopo che la legge attribuisce alla P.A.
Il nostro ordinamento, con l’eccezione delle Autorità Indipendenti, non prevede questo tipo di sistematica fissazione delle competenze ma è un sistema che trova fondamento della normativa tedesca, americana ed europea. La disciplina tedesca fa riferimento a competenze adespote e cioè la mancata previsione del provvedimento stesso. Il sistema americano fa riferimento ai potere impliciti non previsti da alcuna norma.
Il problema dei potere impliciti, se essi siano ammessi o meno nel nostro ordinamento, è un problema che pone una difficile operazione di equilibrio e di conciliazione tra le istanze di garanzia e quelle di efficienza. Le istanze di garanzia del cittadino nei confronti del potere pubblico pretenderebbero che nessun cittadino possa essere colpito da un potere autoritativo che non sia previsto da norma espressa. Le istanze di efficienza, invece, interverrebbero quando l’azione amministrativa non prevedibile in astratto si riterrebbe possibile in via urgente e necessaria per prevedere gli interessi e perseguire gli scopi. Ne sono esempio le ordinanze di necessità e urgenza.
Nel nostro sistema la tensione tra garanzia e urgenza é stata risolta, per quanto riguarda le Autorità Indipendenti, da una serie di pronunce della giurisprudenza dal 2007 al 2012 stabilendo che, non essendo possibile da parte della legge prevedere in astratto tutti i provvedimenti che sono necessari affinché l’Autorità gestisca e vigili sul settore di riferimento, si deve ritenere implicito nella normativa che attribuisce gli obiettivi di regolazione e di vigilanza sul settore che l’Autorità debba adottare quei provvedimenti senza i quali la vigilanza non sarebbe possibile.
Un caso giurisprudenziale affrontato dalla V Sezione del Consiglio di Stato con sentenza n.1354/2013 è stato quello in cui veniva impugnato un provvedimento con cui una Commissione elettorale aveva escluso da una competizione per le elezioni europee una lista che chiedeva la ricostituzione del partito fascista. Si poneva il problema di individuazione dei poteri delle commissioni elettorali perché gli artt.3 e ss. del T.U. del 1960 non prevedevano, tra i casi in cui una lista può essere esclusa da una competizione elettorale, il caso della violazione dell’art.12 delle disposizioni di attuazione transitorie ma prevedeva altre ipotesi. Ne deriva, quindi, che l’assenza di norme che attribuiscano il potere di esclusione per violazione di norme della Costituzione consente ad un partito, che non dovrebbe proprio costituirsi, di partecipare efficacemente alla competizione elettorale? È stato ritenuto dal Consiglio di Stato, dando una lettura ampia della norma costituzionale, che questa norma ha un requisito originario per la partecipazione alla vita politica e il requisito è quello di non violare la norma che vieta la ricostituzione del partito fascista. Essendo un requisito originario per la partecipazione alla vita politica, questo requisito deve ritenersi implicitamente richiamato dalle norme in tema di potere delle commissioni elettorali che non devono essere in contrasto con l’obiettivo primario perseguito della norma e cioè di impedire associazioni contrarie alla Costituzione.
La giurisprudenza ha trovato un punto di equilibrio tra istanze di garanzia, che dovrebbero impedire qualsiasi potere implicito e quelle di efficienza che dovrebbe ammettere il potere implicito necessario. La regola è il divieto per contrasto con il principio di legalità sostanziale, l’eccezione è l’ammissione ma quando il potere implicito non solo sia tale ma sia necessario, sia indispensabile oltre che utile per perseguire quel fine sicché la norma che attribuisce il limite non può non implicare quel mezzo senza il quale il fine sarebbe meramente formale.
In giurisprudenza sono stati individuati cinque criteri volti a dare concretezza al concetto astratto di necessarietà e di indispensabilità del potere implicito affinché lo stesso sia ammissibile in base ad una norma che fissi competenze per obiettivi.
In primo luogo il potere implicito deve essere integrativo di un potere esplicito. Non esiste, infatti, un potere implicito fine a se stesso. Il potere implicito deve essere un potere di completamento con cui l’amministrazione, in aggiunta ad un provvedimento esplicitamente previsto dalla legge, deve adottare quei provvedimenti che sono indispensabili per dare un significato ed effettività all’attività amministrativa.
In secondo luogo si ritengono ammessi i provvedimenti che sono espansione naturale dei poteri enumerati in modo espresso. Per interpretazione estensiva si intende che il potere è un potere che chiarisce l’ampiezza del potere espresso.
In terzo luogo si fa riferimento a poteri che non sono naturalmente inclusi nel potere principale ma sono poteri distinti, anche se concatenati o consequenziali. La giurisprudenza tende a sottolineare che quando si tratta di poteri connessi e collegati che incidono sulla libertà individuale essi sono inammissibili.
In quarto luogo l’ipotesi in cui l’amministrazione non adotti provvedimenti limitativi della libertà individuale ma svolga funzioni che tutelano l’interesse non dei singoli ma della collettività richiede una connessione meno rigorosa tra potere implicito ed esplicito.
Infine, quinta osservazione, la compensazione procedurale: in tutti i casi in cui si prevede la competenza implicita è necessario compensare la debolezza dell’investitura legale sul piano sia formale che sostanziale con la forza dell’investitura sul piano della legalità procedurale, consentendo in tal modo all’amministrazione di partecipare al procedimento.
Con riferimento alle leggi-provvedimento occorre prima esaminare il rapporto intercorrente tra attività amministrativa e attività politica in quanto le leggi-provvedimento sono una delle forme limitative del potere politico.
La linea di confine tra l’attività amministrativa e quella politica è data dalla sussistenza o meno di un vincolo in capo all’amministrazione nel perseguimento dell’interesse pubblico. La P.A., infatti, non è mai libera nei fini in quanto su di essa grava il vincolo di perseguire un interesse pubblico stabilito dalla legge e dai principi dell’ordinamento. L’atto politico, invece, non è vincolato al perseguimento di alcun fine proprio perché con l’attività politica si definisce quale sia il fine da perseguire. Ne deriva, quindi, l’insindacabilità dell’atto politico in quanto, essendo un atto libero, il giudice non avrebbe spazio alcuno per esercitare il proprio sindacato.
Gli atti politici costituiscono un numerus clausus in quanto essi sono inammissibili al di fuori delle previsioni costituzionali.
Secondo la giurisprudenza tali atti devono assolutamente essere caratterizzati da tre elementi: l’elemento soggettivo, l’atto deve provenire da un organo che si occupi dell’indirizzo della cosa pubblica; l’elemento oggettivo, l’atto deve avere ad oggetto la costituzione e la tutela del potere pubblico; infine il potere politico deve essere svincolato nella scelta degli obiettivi e dei fini.
Per quanto attiene alla nozione di insindacabilità degli atti politici, essa non è assoluta. Quattro sono i limiti dell’insindacabilità.
In primo luogo gli atti politici sono sempre suscettibili di sindacato costituzionale mediante ricorsi principali, questioni di legittimità incidentale e conflitti di attribuzione davanti al giudice.
In secondo luogo, un altro limite alla insindacabilità è dato dai principi comunitari. Il principio di primazia del diritto comunitario vincola sia l’attività amministrativa che quella legislativa all’osservanza dei principi di diritto comunitario e ciò comporta che l’atto politico non sia più libero nel perseguimento dei fini.
In terzo luogo, ulteriore limite consiste nelle leggi-provvedimento con cui Stato o Regioni danno veste politica ai propri provvedimenti dando, in tal modo, forma di legge ad un atto amministrativo.
Infine, ultima limitazione all’insindacabilità consiste nel sistema di controlli e di sanzioni a carattere politico a mezzo dei quali si può non confermare un’attività ritenuta censurabile oppure si può esprimere un voto di sfiducia.
Con riguardo alle leggi-provvedimento occorre precisare che con tale espressione si fa riferimento ad atti formalmente legislativi ma sostanzialmente amministrativi. Talvolta essi si sostituiscono del tutto ad una determinazione amministrativa non adottata ovvero intervengono ad approvare un atto amministrativo già posto in essere. L’atto legislativo presenta, come sue caratteristiche, l’elemento della generalità e astrattezza contrariamente agli atti amministrativi che si caratterizzano, invece, sia per la mancanza di innovatività dell’ordinamento giuridico sia per il fatto di regolamentare casi concreti e specifici. La legge-provvedimento è, dunque, un atto ibrido in quanto riveste la forma di legge ma di fatto regola, al pari dei provvedimenti amministrativi, situazioni caratterizzate dall’elemento della concretezza e specificità.
Numerose sono le problematiche interpretative sorte in relazione a questa figura ibrida: l’ammissibilità costituzionale delle leggi-provvedimento, gli strumenti di tutela creati dalla giurisprudenza, la questione di legittimità costituzionale di tali leggi in pendenza di ricorso avverso l’atto amministrativo e i rapporti delle leggi in esame con la disciplina comunitaria.
Con riferimento all’ammissibilità costituzionale, la Corte, chiamata ad esprimersi sul punto, ha più volte ribadito l’ammissibilità delle leggi-provvedimento sulla scorta delle seguenti considerazioni. Innanzitutto, è stata rilevata la mancanza nell’ordinamento di un principio di “riserva amministrativa”. E infatti la Costituzione sancisce il principio di riserva di legge in forza del quale si prevede che la disciplina di determinate materie particolarmente delicate sia regolata solo dalla legge primaria, ma non dà fondamento ad alcuna norma in forza della quale viene attribuita, in via esclusiva, all’autorità amministrativa la regolamentazione delle vicende che interessano i privati cittadini e la Pubblica Amministrazione.
Ne consegue che al legislatore non è riconosciuta alcuna limitazione riferita al contenuto e alla tipologia delle fattispecie suscettibili di essere regolate con legge. L’unico limite che si presenta per il legislatore sarà quello di cui agli artt.71 e ss. Cost. e che attiene esclusivamente al procedimento di formazione delle leggi. Inoltre il Giudice Costituzionale ha precisato che la Costituzione, nel definire la legge, non fa riferimento né ad un suo contesto strutturale né a quello materiale bensì attribuisce rilevanza ai suoi caratteri formali ed, in particolare, al suo procedimento di formazione.
È stato, altresì, chiarito che la qualificazione di un determinato atto quale legislativo comporta il conseguente assoggettamento alla relativa disciplina. In tal modo esso viene sottratto agli strumenti di tutela previsti per gli atti amministrativi. Ne deriva, quindi, che la legge-provvedimento, seppur sostanzialmente approvativa di atti amministrativi, in quanto emanata dall’organo legislativo, è da ritenersi a tutti gli effetti un atto legislativo. La Corte Costituzionale ha affermato che, nel caso in cui la legge intervenga ad approvare un atto amministrativo che risulti lesivo di interessi di un privato cittadino, quest’ultimo pur non potendo avvalersi del ricorso giurisdizionale come strumento di tutela, in quanto esperibile soltanto nei confronti di un provvedimento amministrativo, potrà ricorrere al controllo di costituzionalità della legge che recepisce il provvedimento investendo della questione la Corte Costituzionale per tramite del giudice rimettente.
Sul punto, numerose sono state le critiche avanzate da parte della dottrina la quale ha evidenziato una violazione dell’art.24 Cost., in quanto verrebbe leso il diritto di difesa del privato cittadino atteso che l’ordinamento italiano non contempla alcuna modalità di ricorso diretto alla Corte Costituzionale.
Infatti le parti possono solamente limitarsi ad eccepire l’illegittimità costituzionale della legge mentre al giudice rimettente spetta l’obbligo di pronunciarsi nel merito facendo uso della propria discrezionalità valutativa. Parte della dottrina ha ritenuto che il trasferimento della tutela dal giudice comune al giudice costituzionale comporti anche una violazione dell’art.113 co.2 Cost. il quale prevede che “la tutela giurisdizionale non sia esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”.
Tali critiche, tuttavia, non hanno però trovato riscontro, atteso che la prevalente giurisprudenza ha ritenuto che la tutela riconosciuta ai cittadini avverso le leggi-provvedimento non comporta alcuna lesione dei sopra menzionati principi costituzionali. In particolare l’art.24 Cost. non risulta in alcun modo intaccato in quanto, a fronte dell’atto legislativo rappresentato dalla legge-provvedimento, i diritti di difesa del cittadino non subiscono nessuna lesione ma semplicemente si trasferiscono dalla giurisdizione amministrativa a quella costituzionale. In ogni caso, resta fermo che ogni atto di ulteriore esecuzione della legge-provvedimento deve essere impugnato davanti al giudice amministrativo, posto che solo davanti a questo giudice possa proseguire il giudizio dopo l’esito dell’incidente di costituzionalità.
Inoltre, è sempre e solo il giudice amministrativo l’unico che dovrà provvedere, in caso di pronuncia caducatoria della legge-provvedimento, all’annullamento degli atti applicativi innanzi a lui impugnati.
Circa il parametro invocato dalla Consulta al fine di verificare la compatibilità della legge-provvedimento con il dettato costituzionale, è stato chiarito che questo è rappresentato dal principio di ragionevolezza. Quest’ultimo impone, inevitabilmente, che la materia disciplinata dalla legge-provvedimento sia coerente rispetto all’interesse pubblico perseguito in concreto. In tal modo, il legislatore non potrà aggirare i principi di buon andamento e imparzialità che costituiscono diretta proiezione del principio di ragionevolezza. Pertanto, il Giudice delle Leggi dovrà dichiarare incostituzionale la legge-provvedimento ove quest’ultima rappresenti uno strumento per aggirare le garanzie procedimentali e motivazionali che caratterizzano il provvedimento amministrativo, cosi garantendo al privato cittadino una forma di protezione e una occasione di difesa della stessa portata di quella offerta dal sindacato giurisdizionale.
Il problema della tutela del cittadino nell’ambito della particolare categoria delle leggi- provvedimento si è posto, tra l’altro, anche con riferimento all’ipotesi del recepimento di una legge-provvedimento in pendenza del ricorso avverso l’atto amministravo connesso. È chiaro che in siffatta situazione si scontrano tra loro due diversi valori costituzionali: da un lato quello che garantisce la tutela giurisdizionale avverso ogni atto amministrativo, dall’altro quello che preserva l’autonomia della funzione legislativa. Sul punto sembrerebbero essere due le soluzioni in dottrina: secondo un primo orientamento la sola pendenza del ricorso avverso un provvedimento amministrativo impedirebbe l’approvazione della legge-provvedimento; di contro, un altro orientamento ha ritenuto che soltanto la formazione del giudicato nel giudizio esperito contro il provvedimento possa impedire l’approvazione di una legge-provvedimento con esso configgente.
La seconda soluzione dottrinale appare condivisa anche in giurisprudenza. Si ritiene, infatti, che, soltanto ritenendo il giudicato come limite invalicabile da parte dell’iniziativa legislativa contrastante con la decisione della sentenza, si possa raggiungere un adeguato bilanciamento tra l’interesse a garantire le funzioni dell’organo parlamentare e le esigenze di tutela giurisdizionale consentite dalla Costituzione avverso provvedimento della P.A.
Interessante è, infine, notare come le problematiche connesse alla legge-provvedimento abbiano interessato anche l’ambito del diritto europeo, dove, recentemente, si è posto il problema della loro compatibilità in particolare con il principio che impone la tutela dell’affidamento.
La soluzione della giurisprudenza comunitaria ritiene che, poiché la legge-provvedimento impedisce l’accesso alla giustizia ordinaria e non consente al sistema giurisdizionale interno un sindacato diretto dell’atto legislativo, deve essere comunque garantito un controllo del giudice sul rispetto della normativa comunitaria con eventuale disapplicazione della normativa interna incompatibile.
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