Il principio di precauzione viene disciplinato all’articolo 191 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (UE). Tale dogma è volto a garantire un alto livello di protezione di alcuni settori, in forza della reazione in casi di rischio. Tra le materie di applicazione del principio si ricorda: la politica dei consumatori, la legislazione europea sugli alimenti, la salute umana, animale e vegetale e l’ambiente.
Tale principio è poi stato condiviso e assunto anche a livello internazionale, al fine di garantire un livello appropriato di protezione dell’ambiente e della salute nei negoziati internazionali. Infatti, tale principio è stato riconosciuto da varie convenzioni internazionali e figura in special modo nell’Accordo sulle misure sanitarie e fitosanitarie (SPS) concluso nel quadro dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC).
Quando ricorre l’ipotesi di applicabilità del principio di precauzione?
Secondo la Commissione europea, l’applicabilità del principio di precauzione ricorre tutte le volte in cui il fenomeno, un prodotto o un processo può avere effetti potenzialmente pericolosi, individuati tramite una valutazione scientifica e obiettiva, se questa valutazione non consente di determinare il rischio con sufficiente certezza.
Occorre pertanto, svolgere preliminarmente un’analisi del rischio e solo successivamente, stabilire come intraprendere la gestione del rischio.
La possibilità di ricorrere al principio di precauzione è ammissibili solo qualora vi siano tre condizioni, ossia:
- l’identificazione degli effetti potenzialmente negativi;
- la valutazione dei dati scientifici disponibili;
- l’ampiezza dell’incertezza scientifica.
Le autorità incaricate della gestione del rischio possono decidere di agire o di non agire, in funzione del livello di rischio. Se il rischio è alto, si possono adottare varie categorie di misure. Si può trattare di atti giuridici proporzionati, del finanziamento di programmi di ricerca, di misure d’informazione al pubblico, ecc.
Sul punto:”Vaccini obbligatori, ecco tutte le istruzioni”
In tema di vaccini, la pronuncia del Consiglio di Stato
La sentenza Cons. St., sez. III, 14 febbraio 2018, n. 962 , il Consiglio di Stato ha stabilito che:”Per l’ammissione a tutte le forme di collettività infantili, e quindi anche agli asili nido e alle scuole dell’infanzia, occorre vaccinarsi; trattandosi di requisito di ammissione, la vaccinazione è obbligatoria; è quindi legittimo il regolamento comunale che prevede quale requisito di accesso al servizio dei nidi di infanzia e delle scuole per l’infanzia comunali e convenzionali l’assolvimento degli obblighi vaccinali previsti dalla normativa vigente “.
La Sezione ha previsto che l’obbligo di vaccinazione sia obbligato sulla base: della l. 6 giugno 1939, n. 893 con riferimento al vaccino contro la difterite; della l. 5 marzo 1963, n. 292 per il vaccino contro il tetano, della l. 4 febbraio 1966, n. 51 per il vaccino contro la poliomielite e della l. 27 maggio 1991, n. 165 per il vaccino contro l’epatite virale B.
Si è poi precisato sulla base dell’art. 1, d.P.R. 26 gennaio 1999, n. 355, che la mancata vaccinazione “non comporta il rifiuto di ammissione dell’alunno alla scuola dell’obbligo o agli esami”.
La disposizione è stata introdotta a seguito di un bilanciamento tra opposti interessi, entrambi di rilevanza costituzionale: quello all’istruzione e quello alla salute. Tale bilanciamento che può essere operato unicamente dal legislatore, rientrando tale scelta della sua propria ed esclusiva discrezionalità, alla quale non può e non deve sostituirsi il giudice anteponendo un proprio personale convincimento che travalichi il chiaro contenuto della norma oggetto di applicazione.
Nella sua valutazione discrezionale, il legislatore ha tenuto conto non solo del differente regime normativo esistente tra la scuola dell’obbligo e l’educazione pre-scolare, che si svolge presso gli asili nido e le scuole dell’infanzia, ma ha valutato anche la condizione soggettiva differente esistente tra i bambini di età superiore ai sei anni, e quelli da zero a sei anni. Questi ultimi, infatti, risultano molto più deboli, e come tali necessitano di maggiori di misure di precauzione e prevenzione. I rischi di contagio sono di certo più elevati, motivo per cui tra i bambini che frequentano i servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia o che comunque frequentino luoghi in cui vi sia la presenza contemporanea di bambini di più famiglie. Ne deriva che la situazione sia giuridica che fattuale in cui versano i bambini che devono iscriversi alla scuola dell’obbligo, e quelli relativi alla fascia 0-6 anni, presenta tali differenze da non consentire l’estensione della normativa derogatoria prevista per i bambini più grandi a quelli di età ricompresa tra i 0-6 anni, se non a condizione di “disapplicare” l’art. 1, d.P.R. n. 355 del 1999 o, comunque, di applicare tale norma “in modo difforme” da quanto previsto dal legislatore.
Il diverso regime è poi prevista anche da un’ulteriore normativa sopravvenuto: in merito all’ammissione alle strutture educative, il d.l. n. 73 del 2017, convertito con modificazioni in l. n. 119 del 2017, opera al comma 3 dell’art. 3, una distinzione: nei servizi educativi per l’infanzia e nelle scuole dell’infanzia, la presentazione della documentazione costituisce requisito di accesso; in tutte le altre scuole, la mancata presentazione non impedisce né la frequenza, né gli esami.
La sezione ha poi ricordato che la Commissione speciale del Consiglio di Stato 26 settembre 2017, n. 2065 ha ritenuto “che la previsione della copertura vaccinale sia funzionale all’adempimento di un generale dovere di solidarietà che pervade e innerva tutti i rapporti sociali e giuridici. Risulta infatti evidente – sulla base delle acquisizioni della migliore scienza medica e delle raccomandazioni delle organizzazioni internazionali – che soltanto la più ampia vaccinazione dei bambini costituisca misura idonea e proporzionata a garantire la salute di altri bambini e che solo la vaccinazione permetta di proteggere, proprio grazie al raggiungimento dell’obiettivo dell’”immunità di gregge”, la salute delle fasce più deboli, ossia di coloro che, per particolari ragioni di ordine sanitario, non possano vaccinarsi. Porre ostacoli di qualunque genere alla vaccinazione (la cui “appropriatezza” sia riconosciuta dalla più accreditata scienza medico-legale e dalle autorità pubbliche, legislative o amministrative, a ciò deputate) può risolversi in un pregiudizio per il singolo individuo non vaccinato, ma soprattutto vulnera immediatamente l’interesse collettivo, giacché rischia di ledere, talora irreparabilmente, la salute di altri soggetti deboli”.
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