Sommario: 1) Introduzione; 2) Presupposti per la soggettività giuridica di imposta nella normativa nazionale; 3) La doppia imposizione: natura giuridica e rimedi legislativi; 4) Rapporto tra norma interna, convenzioni internazionali e diritto comunitario.
1) Introduzione.
Le imposte dirette costituiscono il nucleo centrale del sistema tributario nazionale.
Tale circostanza è ben nota al legislatore, il quale ha disciplinato la materia in modo dettagliato, individuando compiutamente tutti i presupposti per l’applicazione delle imposte dirette.
Tra i diversi presupposti d’imposta, particolare rilevo assume l’individuazione delle categorie di soggetti giuridici tenuti al versamento della stessa.
A tal proposito, il nostro ordinamento1, al pari di quanto avvenuto anche in numerosi altri Stati, ha adottato sia il principio del “world wide taxation”2 che quello di “territorialità” dei redditi: come osservato da autorevole dottrina, si tratta di regole all’apparenza di estrema semplicità concettuale, ma che implicano necessariamente dei collegamenti con altri aspetti interpretativi riguardanti tanto l’applicazione del diritto interno quanto del diritto comunitario e di quello internazionale3.
Tali principi presuppongono una distinzione tra soggetto fiscalmente residente e soggetto fiscalmente non residente in Italia, collegando alle due diverse ipotesi specifiche discipline di tassazione.
I redditi del soggetto residente, infatti, sono tutti assoggettati a tassazione in Italia, ed i redditi nazionali concorrono con i redditi prodotti all’estero alla formazione della base imponibile, secondo il principio di tassazione mondiale del reddito.
Diversamente, il soggetto non residente è obbligato a determinare e versare le imposte dirette, in ossequio al principio di “territorialità”, solo sui redditi prodotti nel territorio dello Stato.
Fondamento normativo di tale differente trattamento è rappresentato, relativamente ai redditi delle persone fisiche, dal combinato disposto di cui agli artt. 1, 2 e 3 T.U.I.R.: in particolare, proprio l’art. 3 T.U.I.R., nel determinare i criteri per la determinazione della base imponibile, statuisce che “l’imposta si applica sul reddito complessivo del soggetto, formato per i residenti da tutti i redditi posseduti e per i non residenti soltanto da quelli prodotti nel territorio dello Stato…”.
Medesima distinzione è stata prevista riguardo l’imposta sul reddito delle società: in tale circostanza, presupposto necessario per la tassazione dei redditi di società non residenti in Italia è rappresentato dalla presenza, nel nostro territorio, di una stabile organizzazione, come dettato dall’art. 162 T.U.I.R.
La ratio di tale scelta legislativa è da ricercarsi nella volontà di assoggettare alla normativa del Paese di residenza tutti i redditi prodotti dal soggetto persona fisica, in quanto costituenti comunque manifestazioni di ricchezza4 anche se conseguiti all’estero, e di qualificare quale soggetto passivo di imposta il soggetto non residente limitatamente ai redditi prodotti in Italia, in quanto nel nostro Stato si sarebbe verificato il fatto economico-giuridico originante l’obbligazione fiscale.
Tuttavia, appare evidente come dall’applicazione generale del principio di world wide taxation derivino anche numerose problematiche, soprattutto sotto il profilo della cd. doppia imposizione fiscale: un reddito prodotto all’estero da parte di un soggetto residente in Italia, infatti, potrebbe essere assoggettato a tassazione sia in Italia in virtù del criterio di tassazione mondiale sia nel Paese estero, in applicazione del principio di territorialità, in base al quale il reddito prodotto in uno Stato è sottoposto alla relativa normativa fiscale.
Per ragioni sistematiche si ritiene opportuno esaminare preliminarmente i presupposti di soggettività passiva d’imposta dettati dalla normativa nazionale, evidenziando successivamente le problematiche nascenti dalla doppia imposizione fiscale e le scelte operate in ambito legislativo per attenuare tale fenomeno, soffermandoci in ultimo sui rapporti intercorrenti tra la normativa nazionale, le convenzioni internazionali ed i principi di diritto comunitario.
2) Presupposti per la soggettività giuridica di imposta nella normativa nazionale.
a) Il soggetto residente.
Il legislatore ha, dunque, disegnato il regime tributario nazionale sulla base dei due diversi principi di tassazione mondiale e di territorialità, distinguendo i differenti regimi di imposizione sulla base dei criteri di residenza e di stabile organizzazione.
In particolare, ai sensi dell’art. 2, II c., T.U.I.R., relativo alle imposte dirette gravanti sulle persone fisiche, è considerato residente in Italia colui che, per la maggior parte del periodo di imposta, è iscritto nell’anagrafe della popolazione residente5, ovvero mantiene il domicilio6 o la residenza7, richiamando per tali concetti la nozione contenuta nell’art. 43, I e II c., c.c8.
La dottrina più attenta ha osservato come tali criteri siano tra di loro in rapporto di alternatività e non di concorrenza, essendo sufficiente la presenza di uno dei richiamati requisiti per attribuire lo status di residente ad un determinato contribuente9.
Inoltre, tale presupposto deve essere integrato dalla componente temporale, ossia le suddette condizioni devono verificarsi “…per la maggior parte del periodo di imposta…”, equivalente alla permanenza nel territorio dello Stato per almeno 183 giorni, ovvero 184 giorni se si tratta di anno bisestile, anche non consecutivi.
L’aspetto temporale assurge dunque ad elemento essenzialmente discriminante per l’individuazione della soggettività passiva di imposta.
Tuttavia, problematiche possono emergere qualora, nel corso dell’anno fiscale, il soggetto contribuente trasferisca la propria residenza in diverso Stato.
Tale fenomeno risulta particolarmente diffuso negli ultimi anni, ove si assiste ad un numero sempre maggiore di contribuenti che trasferiscono la propria residenza in Stati diversi, di solito nei cd. paradisi fiscali.
La giurisprudenza comunitaria10 e nazionale11 hanno sottolineato che, ai fini del trasferimento della residenza, è necessario che la persona non abbia più collegamenti personali e patrimoniali con il Paese di provenienza, ossia sposti effettivamente il centro permanente dei propri interessi: solo in tale circostanza, infatti, sarà possibile assoggettare al regime fiscale del nuovo Stato il reddito prodotto dal contribuente emigrato.
Tale profilo merita di essere approfondito, anche perché, pur ammettendo tre diversi criteri di collegamento, tra loro alternativi, la disposizione interna collega invariabilmente l’attribuzione della residenza fiscale ad una valutazione della situazione del soggetto riferibile all’intero anno d’imposta.
Pertanto, ai fini della normativa italiana non è possibile considerare un soggetto residente limitatamente ad una frazione dell’anno d’imposta.
In mancanza di una disciplina espressa della decorrenza dell’acquisto o della perdita della residenza in corso d’anno, si deve ritenere, pertanto, che il contribuente che si trasferisca all’estero dopo aver maturato i requisiti per l’applicazione del “worldwide principle” continuerà ad essere assoggettato a tassazione in Italia anche per tutti gli eventuali redditi prodotti dal momento del trasferimento al momento di chiusura del periodo d’imposta12.
A tal proposito, l’Amministrazione finanziaria ha evidenziato come tale lacuna normativa determini che gli eventuali problemi di doppia residenza – che si dovessero creare in corso d’anno – possano essere risolti solo su base convenzionale, ossia mediante un accordo internazionale sottoscritto tra i rappresentanti di due Stati in ossequio ad un Modello di Convenzione OCSE, il quale disciplini compiutamente tale ipotesi, potendo prevedere sia un’ipotesi di tassazione frazionata – limitatamente ai fini dell’art. 4, paragrafo 2, del Modello di Convenzione OCSE e dunque quale ulteriore ipotesi di “tie breaker rule” –, sia l’assoggettamento al regime fiscale di uno Stato individuato secondo criteri di collegamento specifici, sia riconoscendo il credito di imposta (art. 23 Modello di Convenzione OCSE ed art. 165 T.U.I.R.).
Il principio di frazionamento del periodo di imposta è stato recepito dal nostro legislatore, che l’ha contemplata in diverse convenzioni bilaterali: stante la peculiare natura giuridica propria delle convenzioni internazionali e della posizione che essere assumono nella gerarchia delle fonti del diritto, le medesime derogano alla normativa nazionale, e dunque possono introdurre il criterio di frazionamento del periodo di imposta, contrastando e sovrapponendosi così con l’ordinamento nazionale.
Tuttavia, si osserva che l’esistenza di norme convenzionali espresse disciplinanti i casi in cui sia possibile ricorrere al frazionamento del periodo di imposta per risolvere situazioni di doppia residenza esclude la possibilità di applicare detto principio in via analogica: l’estensione ad ipotesi disciplinate da Convenzioni bilaterali diverse da quelle in cui tale principio sia stato espressamente richiamato violerebbe il principio di sovranità dei singoli Stati ed il principio pattizio che sono alla base del sistema di convenzioni bilaterali prefigurato dal Modello OCSE13.
b) I non residenti.
L’applicazione delle diverse disposizioni sulla tassazione dei redditi dei soggetti non residenti presuppone che siano fissati criteri precisi per individuare quali redditi debbano essere qualificati come “prodotti nel territorio dello Stato”.
A tal proposito, l’art. 23 T.U.I.R. individua le categorie di reddito assoggettabili a tassazione, secondo criteri diversi: i redditi fondiari, infatti, concorrono qualora il bene sia ubicato in Italia; i redditi da lavoro dipendente ed autonomo sono assoggettati se la prestazione è resa nel territorio nazionale, mentre i compensi per le prestazioni coordinate e continuative e le borse di studio sono tassate solo nel caso in cui l’erogatore sia lo Stato italiano ovvero altro soggetto residente nel territorio italiano.
Conseguentemente, appare evidente come il legislatore abbia voluto, attraverso l’utilizzo di criteri di collegamento differenti, cercato di ricondurre al regime fiscale nazionale un numero considerevole di redditi, fornendo alla nozione di “reddito prodotto” accezioni varie a seconda della categoria di reddito.
c) La stabile organizzazione.
L’introduzione della nozione di “stabile organizzazione” quale presupposto per l’assoggettamento dei redditi delle società non residenti è avvenuta recentemente nel nostro ordinamento – e specificatamente con L. 7 aprile 2003, n. 8014 – ed è stata determinata dall’esigenza di garantire la competitività del sistema produttivo nazionale adottando un modello fiscale più omogeneo e vicino a quelli dei Paesi dell’Unione Europea15, cercando allo stesso tempo di introdurre un criterio di localizzazione dei redditi prodotti dalle imprese non residenti e di risolvere i problemi connessi alla doppia imposizione16.
Il novellato art. 162, I c., T.U.I.R. definisce il concetto di stabile organizzazione come “…una sede di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto in parte la sua attività sul territorio dello Stato”17.
Conseguentemente, se è possibile configurare in capo ad una società una stabile organizzazione, allora sarà concesso tassare i redditi di impresa prodotti da un soggetto non residente18.
Così operando, il legislatore ha dunque individuato nella stabile organizzazione il criterio di collegamento al territorio dello Stato dei redditi in esso prodotti attraverso una struttura fiscalmente rilevante e stabile nel tempo, introducendo un essenziale criterio discretivo per la tassazione dei redditi dei soggetti non residenti.
Come evidenziato da autorevole dottrina, la nozione in esame riproduce sostanzialmente19 quella già delineata dall’art. 5 del Modello di convenzione OCSE contro le doppie imposizioni.
Il legislatore nazionale, infatti, ha previsto delle ipotesi positive20, in presenza delle quali si configura prime facie una stabile organizzazione e che costituiscono delle vere e proprie presunzioni assolute, individuando successivamente delle fattispecie per la quali non è possibile un diretto riferimento alla nozione in esame21.
3) La doppia imposizione fiscale: natura giuridica e rimedi legislativi.
Tratteggiate le peculiari caratteristiche dei criteri adottati dal legislatore nazionale per determinare le categorie di soggetti da assoggettare a tassazione, si devono adesso esaminare le problematiche nascenti dal recepimento del doppio criterio della tassazione mondiale e della territorialità, con particolare riferimento al fenomeno della cd. doppia imposizione fiscale22.
La dottrina23, infatti, ha osservato come un sistema combinato di imposizione su base mondiale e su base territoriale finisce per creare problemi di sovrapposizione di più sistemi impositivi in relazione alla stessa espressione di ricchezza.
La doppia imposizione fiscale24 sarebbe la conseguenza della sovrapposizione delle pretese impositive di diversi Stati: il medesimo reddito potrebbe essere, dunque, assoggettato a tassazione sia nello Stato in cui questo è prodotto sia nel Paese di residenza del contribuente.
La ratio di tale distorsione sarebbe da ricercarsi nella circostanza che la materia delle imposte dirette, in ambito comunitario, rientra nella competenza dei singoli Stati membri, i quali sono liberi di architettare i rispettivi sistemi di imposizione, definendo base imponibile ed aliquote, pur nel rispetto dei principi del diritto comunitario.
Dall’esercizio parallelo delle rispettive competenze fiscali degli Stati possono derivare dunque conseguenze pregiudizievoli per i contribuenti: tuttavia, tali effetti non possono essere considerati restrizioni vietate dal Trattato UE, se gli Stati membri esercitano tale competenza in modo non discriminatorio25.
Tale fenomeno è ben noto al legislatore nazionale e comunitario, i quali hanno avviato numerosi progetti ed iniziative26 volti ad eliminare o quanto meno attenuare le conseguenze pregiudizievoli per i contribuenti: tali operazioni sono rese tuttavia di difficile attuazione stante la notevole importanza ricoperta nell’ordinamento fiscale dalle imposte dirette, con la conseguenza che gli Stati subordinano i loro interventi in materia all’interesse proprio economico27.
In particolare, l’art. 293 Trattato CE dispone l’obbligo per gli Stati membri di eliminare situazioni scaturenti doppia imposizione fiscale attraverso lo strumento delle convenzioni bilaterali.
Le convenzioni internazionali contro la doppia imposizione, strumento di politica internazionale tributaria necessario ad evitare il fenomeno per cui lo stesso presupposto sia soggetto due volte a tassazione in due diversi Stati, sono infatti deputate a regolare i rapporti tributari tra i soggetti che operano nei Paesi firmatari della convenzione e che sono collegati quindi agli stessi, con lo scopo di evitare la tassazione del reddito sia nel paese in cui questo è stato prodotto sia nel paese di residenza del soggetto che lo ha prodotto.
Al pari delle altre convenzioni internazionali, anche quelle contro la doppia imposizione hanno valore superiore alla legge nazionale e prevalgono su questa, così che il giudice tributario sarà tenuto a disapplicare la normativa interna per applicare quanto previsto dalla convenzione.
Tali accordi internazionali sono redatti sulla base di apposito modello di convenzione elaborato in ambito Ocse: a tal proposito si segnala che è stato elaborato recentemente nel 2010 il nuovo modello di Convenzione OCSE .
Esse possono riguardare le imposte sul reddito e, talvolta, alcuni elementi del patrimonio: oltre a disciplinare la cooperazione tra le Amministrazioni fiscali degli Stati contraenti, le convenzioni mirano a evitare la doppia imposizione ed a prevenire l’evasione e l’elusione fiscale eliminando le doppie esenzioni.
Le Convenzioni per evitare la doppia imposizione entrano a far parte dell’ordinamento giuridico al termine di una procedura suddivisa per fasi.
La prima fase si concretizza nello studio di fattibilità che permette di valutare le ragioni di opportunità politica ed economica che sono alla base della firma di un accordo bilaterale con un determinato Stato.
Questa fase prevede una serie di contatti diplomatici e, in quanto tale, rientra nelle competenze del ministero per gli Affari Esteri: effettuato lo studio sull’opportunità politico-diplomatica, si transita alla fase tecnico-giuridica in cui l’Amministrazione finanziaria si relaziona con i colleghi dell’altro Stato e valuta la fattibilità tecnica del trattato.
Durante i primi contatti avviene lo scambio delle bozze di accordo (cd. draft) con cui entrambe le Amministrazioni finanziarie evidenziano le proprie preferenze per il trattamento tributario da riservare alle varie categorie di reddito ed, eventualmente, di patrimonio.
Il draft, una volta ricevuto, è sottoposto all’esame degli esperti dell’Amministrazione finanziaria.
Se non esistono pretese vistosamente incompatibili con l’ordinamento giuridico interno e comunitario, si fissa un primo incontro ufficiale con la delegazione estera per iniziare la negoziazione del trattato: in particolare, le delegazioni italiane sono composte da esperti del Dipartimento per le politiche fiscali, dell’Agenzia delle Entrate e da un rappresentante diplomatico.
Uno dei due draft è assunto come base di partenza su cui lavorare.
Gli articoli sono esaminati, modificati ed approvati uno per volta fino alla stesura del trattato finale che viene siglato dai Capi delegazione (cd. parafatura). Il testo parafato è successivamente sottoposto, nel nostro Stato, alla firma del ministro dell’Economia e delle Finanze e poi alla ratifica del Parlamento. L’emanazione della legge di ratifica non perfeziona l’iter procedurale.
La Convenzione, infatti, non entra in vigore fino a quando non si concretizza lo scambio degli strumenti di ratifica con l’altro Paese, che consiste nello scambio, per le vie diplomatiche ufficiali, degli estremi delle rispettive leggi di ratifica.
Di conseguenza se uno Stato ratifica la Convenzione prima dell’altro occorre attendere l’approvazione da parte di questo ultimo per procedere con lo scambio di note, al fine di consentire che l’accordo entri in vigore.
Le Convenzioni bilaterali, dunque, costituiscono lo strumento utilizzato per attenuare le problematiche nascenti dalla doppia imposizione: i metodi per evitare tale pregiudizio consistono sostanzialmente nello stabilire a priori che un determinato reddito è tassabile solo in uno dei due Stati, ovvero che è tassabile in entrambi i Paesi, con l’obbligo, per uno dei due Stati, di ammettere in deduzione dall’imposta dovuta in base alla normativa interna, l’imposta pagata nell’altro Stato28.
Tuttavia, il fenomeno della doppia imposizione fiscale può essere oggetto anche di specifica disposizione normativa di diritto interno: il nostro ordinamento, infatti, all’art. 165 T.U.I.R. dispone che le imposte pagate su redditi prodotti all’estero sono ammesse in detrazione dall’imposta netta, prevedendo così un credito di imposta per i redditi prodotti e tassati all’estero.
La doppia imposizione fiscale troverebbe così disciplina tanto negli accordi bilaterali tra diversi Stati sia nella normativa interna: le norme pattizie, tuttavia, intervengono in maniera spesso diversa da quanto fanno i singoli Stati nelle proprie legislazioni nazionali, determinando l’insorgenza di problematiche relative al raccordo ed interpretazione spesso non irrilevanti29.
4) Rapporti diritto interno, diritto comunitario e convenzioni bilaterali.
I) Rapporti tra diritto interno e disposizioni pattizie.
La presenza di diverse disposizioni normative e la prospettazione di differenti soluzioni volte ad attenuare il pregiudizio arrecato dalla doppia imposizione impongono, conseguentemente, un’attenta analisi dei rapporti tra la normativa nazionale e quella contenuta nelle convenzioni bilaterali.
A tal proposito, la dottrina ha evidenziato come le convenzioni internazionali costituiscono veri e propri trattati internazionali e come tali sono soggette all’applicazione delle Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati30, rientrando
tra le norme di diritto tributario internazionale, ed assumendo rilevanza anche nel nostro ordinamento a seguito della ratifica per il tramite di una legge ordinaria votata ed approvata dal Parlamento nazionale.
Riguardo i rapporti tra la normativa pattizia e quella interna, pertanto, deve riconoscersi natura sovraordinata alla disposizione pattizia, la quale prevarrà sulla norma interna, ricomprendo nella gerarchia delle fonti una posizione gerarchicamente preordinata.
Del resto, lo stesso testo costituzionale prevede, all’art. 10, che lo Stato si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, mentre all’art. 117 è stabilito che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni è comunque subordinata al rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario ed internazionale.
Parte della dottrina, invece, pur condividendo la tesi della prevalenza della normativa pattizia su quella interna31, ritiene che tale assunto debba essere giustificato sulla base dell’antico broccardo lex specialis derogat lex generalis: secondo l’esaminata elaborazione dottrinale, infatti, la disposizione convenzionale sarebbe posta su un piano paritetico rispetto a quella nazionale e prevarrebbe su quest’ultima in quanto norma speciale32.
Il principio della applicazione della normativa pattizia in luogo di quella nazionale, tuttavia, è stato solo parzialmente recepito nel nostro ordinamento, ove si assiste ad un scarso coordinamento tra norme: infatti, ai sensi dell’art. 75 D.P.R. 600/73, è statuito che nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia, mentre l’art. 169 T.U.I.R. (richiamato dall’art. 162 T.U.I.R.) dispone che la normativa italiana prevale su quella pattizia qualora preveda una soluzione più favorevole al contribuente.
Così operando il legislatore nazionale ha attribuito efficacia superiore alla normativa nazionale rispetto a quella convenzionale, e dunque l’applicazione della prima, non solo qualora si riscontri una lacuna nelle disposizioni pattizie, ma anche nell’ipotesi in cui tale lacuna non sussista, ma sia prevista una disciplina più favorevole.
Sulla base, pertanto, del rinvio contenuto nell’art. 169 T.U.I.R., è data facoltà all’operatore economico invocare l’applicazione della normativa italiana tutte quelle volte in cui le convenzioni bilaterali forniscano soluzioni meno favorevoli: la disciplina più favorevole, ovviamente, dovrà essere accertata tenuto conto non della singola disposizione, ma del quadro normativo completo, con conseguente applicazione del regime fiscale più conveniente.
II) Rapporti tra diritto interno e diritto comunitario.
Analizzati i rapporti tra normativa pattizia ed ordinamento nazionale, si deve adesso esaminare le problematiche nascenti dal contrasto che potrebbe sorgere tra le disposizioni comunitarie e quelle nazionali.
A tal proposito si ricorda che i rapporti tra diritto comunitario e disposizione nazionale sono regolati sulla base del criterio della prevalenza del primo sulla seconda, con disapplicazione della norma interna in favore di quella comunitaria, in quanto la norma comunitaria è diretta derivazione non di un singolo trattato internazionale – come le convenzioni bilaterali –, ma di derivazione diretta del trattato istitutivo della CE, all’interno del quale gli Stati contraenti si impegnano ad osservare le specifiche e reciproche obbligazioni.
Conseguentemente, le norme interne in vigore in contrasto con la legislazione comunitaria devono essere disapplicate, mentre deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale di quelle non ancora in vigore: la prevalenza del diritto comunitario deve intendersi come assoluta, cioè tale da impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali nella misura in cui fossero incompatibili con le norme comunitarie33.
Il criterio di prevalenza è stato recepito anche dal nostro legislatore, il quale ha statuito, con il ricordato art. 117 Cost., che la potestà legislativa nazionale e regionale è subordinata al rispetto dei principi – e del diritto – comunitario.
Tali principi sono stati ribaditi anche in ambito tributario, essendosi più volte la Corte di Giustizia CE pronunciata sull’asserita violazione dei principi comunitari da parte della normativa interna di uno Stato membro.
Con specifico riferimento alla materia delle imposte dirette e le problematiche nascenti dalla doppia imposizione fiscale, si evidenzia come la giurisprudenza comunitaria, pur riconoscendo l’imposizione diretta quale materia di esclusiva competenza degli Stati membri, ha progressivamente attratto nell’ambito del diritto comunitario tale materia, osservando come sia necessario comunque esercitare tale competenza nel rispetto del diritto comunitario, con particolare riferimento al divieto di discriminazione ed il rispetto delle libertà fondamentali.
Il divieto di discriminazione è un principio fondamentale di diritto tributario, codificato all’art. 12 Trattato CE, che comporta l’incompatibilità con il trattato di ogni discriminazione fiscale tra residenti e non residenti, sia che si tratti di persone fisiche sia che si tratti di società.
L’applicazione dell’esaminato divieto comporta, nell’interpretazione della Corte di Giustizia, per gli ordinamenti nazionali l’obbligo di adottare regimi di tassazione lineari senza aggravi per i soggetti non residenti, prevedendo anche soluzioni per le ipotesi di doppia imposizione fiscale non discriminatorie e tali da ostacolare la libera circolazione di capitali all’interno dell’Unione34.
Relativamente al fenomeno della doppia imposizione fiscale, la Corte di Giustizia ha più volte ricordato come, pur non sussistendo alcuna disposizione normativa che vieta tale pregiudizio, spetti comunque agli Stati membri, ai sensi dell’art. 293 Trattato CE, stipulare convenzioni bilaterali per attenuare tale effetto pregiudizievole all’interno della Comunità.
III) Rapporti diritto comunitario – convenzione bilaterale
In ultimo, si vogliono adesso analizzare i complessi rapporti che si possono instaurare tra la normativa comunitaria e quella pattizia.
Tale problematica assume particolare rilievo stante l’assenza di specifiche disposizioni comunitarie in materia di imposte dirette, dovendosi così esaminare unicamente le ipotesi in cui le norme pattizie violino i principi e le libertà comunitarie.
A tal proposito, la Corte di Giustizia ha sostenuto come gli obblighi imposti da un accordo internazionale non possono avere l’effetto di compromettere i principi comunitari costituzionali del Trattato CE35.
In ambito fiscale, la giurisprudenza comunitaria ha affermato come, stante i limiti di cui all’art. 234 Trattato CE, non sussista alcuna competenza della Corte a decidere controversie in cui sia imputata ad uno Stato la violazione di disposizioni contenute in convenzioni bilaterali, stipulate al fine di attenuare gli effetti negativi derivanti dalla coesistenza di sistemi fiscali nazionali36, non potendo neppure esaminare il rapporto tra le disposizioni di diritto interno degli Stati membri e quelle di natura convenzionale dirette ad evitare le doppie imposizioni37.
L’art. 234 Trattato CE, infatti, impedisce l’interpretazione delle convenzioni internazionali – quali le convenzioni bilaterali per la disciplina della doppia imposizione fiscale – in quanto siffatta interpretazione ricade inderogabilmente nella competenza del giudice nazionale38.
Tale assunto tuttavia subisce una deroga, poiché la Corte di Giustizia ha comunque l’obbligo di vigilare il rispetto dei principi comunitari.
Pertanto, il Giudice comunitario ha ritenuto di potersi pronunciare a proposito della circostanza che un principio comunitario non osti ad una convenzione bilaterale in forza della quale era previsto un regime discriminatorio nella tassazione dei dividendi tra soggetto residente e soggetto non residente39.
Parte della dottrina ha tuttavia evidenziato come, nel nostro ordinamento, la convenzione bilaterale debba essere recepita ed approvata mediante legge ordinaria nazionale.
In tale caso, la convenzione entrerebbe nel nostro ordinamento e sarebbe soggetta, quale legge nazionale, al rispetto dei principi e della normativa comunitaria al pari delle altre fonti normative nazionali.
Conseguentemente, dovrebbe riconoscersi alla Corte di Giustizia la possibilità di valutare la compatibilità della disciplina prevista nella Convenzione internazionale e recepita nella legge ordinaria con il diritto comunitario, al pari di quanto avviene con qualsiasi altra disposizione di legge nazionale, potendosi disporre la disapplicazione nel caso di contrasto con il diritto comunitario40.
1 L’ordinamento giuridico italiano deve essere necessariamente armonizzato con i principi comunitari contenuti nel Trattato: in particolare con le quattro libertà, le quali postulano il divieto di discriminazione e la libera concorrenza.
Tuttavia, come osservato da autorevole dottrina e da giurisprudenza consolidata, l’imposizione diretta rimane materia di esclusiva competenza degli Stati e, di conseguenza, il Trattato CE riserva a tale settore uno spazio alquanto limitato, lasciando ai singoli Stati la possibilità di disciplinare tale materia singolarmente, regolando la tassazione dei flussi transfrontalieri attraverso accordi bilaterali: tuttavia, gli Stati sono comunque tenuti ad esercitare tale competenza nel rispetto del diritto comunitario. Sul punto, Corte di Giustizia CE, 13 dicembre 2005, C-446/03.
Unica eccezione sarebbe rappresentata dall’art. 293 Trattato CE, con la quale espressamente si demanda ad apposite convenzioni tra gli Stati membri l’eliminazione della doppia imposizione. In dottrina, P. Valente e G. Rolle, Libertà di stabilimento e controllate estere nell’interpretazione della Corte di Giustizia, in Società, 2000, 4, pag. 497. Si veda, altresì, Corte di Giustizia CE, 14 febbraio 1995, C-273/93.
2 Il principio del reddito mondiale si basa sul criterio della residenza e postula l’assoggettamento dei residenti a tassazione di tipo personale dei redditi ovunque prodotti, ricostruendone le condizioni economiche complessive. Diversamente, nei confronti dei non residenti è applicato il principio della fonte, in virtù del quale sono attratti ad imposizione in Italia solo i redditi ivi prodotti. Sul punto, Ministero delle Finanze, circolare, 2 dicembre 1997, n. 304.
3 A. Ferraria, L’applicazione del principio del “world wide taxation” in Italia tra diritto interno ed internazionale, in Azienditalia, 9, 2009, pag. 340.
4 M. Villani, L’istituto della stabile organizzazione nell’ordinamento tributario italiano, in Atti Convegno Avvocati Tributaristi, 2004.
5 L’iscrizione all’anagrafe costituisce elemento oggettivo, che scaturisce da un atto amministrativo adottato ai sensi della L. 1228/54 e successivo regolamento attuativo D.P.R. 223/93: i cittadini italiani che stabiliscono la propria residenza all’estero devono cancellarsi dall’anagrafe della popolazione residente ed iscriversi alla speciale anagrafe degli italiani residenti all’estero (cd. AIRE). A tal proposito si evidenzia come si ritenga fiscalmente residente in Italia, attraverso una presunzione assoluta, il soggetto iscritto all’anagrafe della popolazione residente, mentre la mera iscrizione nell’AIRE non rappresenta elemento determinante per la perdita della residenza fiscale. Sul punto, Cass. Civ., 17 luglio 1967, n. 1812; Cass. Civ., 20 settembre 1979, n. 4829; Cass. Civ., 24 marzo 1983, n. 2070; Cass. Civ., 5 febbraio 1985, n. 791. Per approfondimenti, AA.VV., Il trattamento fiscale e previdenziale dei rapporti di lavoro autonomo instaurati con soggetti non residenti, in Fisco, 31, 2008, pag. 5260.
6 Secondo la nozione civilistica, il domicilio di una persona è il luogo in cui essa ha stabilito “la sede principale dei suoi affari ed interessi“.
Alla luce di tale disposto, la giurisprudenza prevalente sostiene che il domicilio è un rapporto giuridico con il centro dei propri affari e prescinde dalla presenza effettiva in un luogo.
Esso consiste dunque principalmente in una situazione giuridica che, prescindendo dalla presenza fisica del soggetto, è caratterizzata dall’elemento soggettivo, cioè dalla volontà di stabilire e conservare in quel luogo la sede principale dei propri affari ed interessi.
Tale locuzione deve intendersi in senso ampio, comprensivo non solo dei rapporti di natura economica e patrimoniale, ma anche di quelli morali, sociali e familiari: la determinazione del domicilio deve essere dunque desunta alla stregua di tutti gli elementi di fatto che, direttamente o indirettamente, denunziano la presenza in un determinato luogo di tale complesso di rapporti ed il carattere principale che esso ha nella vita della persona. Cfr., Cass. Civ., 29 dicembre 1960, n. 3322; Cass. Civ., 21 marzo 1968, n. 884; Cass. Civ., 5 maggio 1980, n. 2936.
Tale insegnamento è stato recepito dall’Amministrazione finanziaria, la quale ha ribadito come, nel caso di un soggetto iscritto all’AIRE ed esercente attività di lavoro autonomo all’estero, la residenza fiscale in Italia si concretizza qualora la famiglia dell’interessato abbia mantenuto la dimora in Italia durante l’attività lavorativa all’estero o, comunque, nel caso in cui emergano atti o fatti tali da indurre a ritenere che il soggetto interessato ha quivi mantenuto il centro dei suoi affari ed interessi. Sul punto, Ministero delle Finanze, risoluzione, 14 ottobre 1988, n. 8/1329.
7 Ai sensi dell’art. 43, II c., c.c., la residenza è “il luogo in cui la persona ha la dimora abituale“. Tale relazione giuridicamente rilevante sarebbe costituita sia dal fatto oggettivo della stabile permanenza in quel luogo sia dall’elemento soggettivo della volontà di rimanervi, la quale, estrinsecandosi in fatti univoci evidenzianti tale intenzione, è normalmente compenetrata nel primo elemento. La dottrina e la giurisprudenza sono concordi nell’affermare che ai fini dell’abitualità della dimora non sia necessaria la continuità o la definitività. Pertanto l’abitualità della dimora sussisterebbe anche qualora il soggetto lavori o svolga altre attività al di fuori del comune di residenza (del territorio dello Stato), purchè conservi in esso l’abitazione, vi ritorni quando possibile e mostri l’intenzione di mantenervi il centro delle proprie relazioni familiari e sociali. Sul punto, si veda Cass. Civ., 29 aprile 1975, n. 2561; Cass. Civ., SS.UU., 28 ottobre 1985, n. 5292; Cass. Civ., 5 febbraio 1985, n. 791; Cass. Civ., 14 marzo 1986, n. 1738.
8 Tuttavia, tale disciplina trova sua deroga nell’art. 2, II-bis c., T.U.I.R., il quale introduce un’ipotesi di presunzione relativa con riferimento alla residenza del contribuente che si trasferisce presso uno Stato cd. black list.
In questo caso, infatti, con chiaro intento antielusivo, la norma ha posto in capo al soggetto contribuente che si è trasferito in un paradiso fiscale dimostrare la veridicità ed effettività di tale trasferimento, non essendo sufficiente opporre alle pretese erariali la mera iscrizione all’AIRE.
Così operando, il legislatore, lungi dal creare un ulteriore status di residenza fiscale, si è limitato a ripartire l’onere probatorio fra le parti, al fine di evitare che risultanze di ordine meramente formale prevalessero su aspetti di ordine sostanziale. Sul punto, Ministero delle Finanze, circolare, 24 giugno 1999, n. 140.
9 Agenzia delle Entrate, risoluzione, 3 dicembre 2008, n. 471/E.
10 Corte di Giustizia CE, 12 luglio 2001, C-262/99.
11 Cass. Civ., Sez. V, 14 aprile 2008, n. 9856. Sul punto si veda anche, Agenzia delle Entrate, risoluzione, 13 giugno 2008, n. 242/E.
12 Sul punto, Agenzia delle Entrate, risoluzione, 3 dicembre 2008, n. 471/E.
13 Sul punto, Agenzia delle Entrate, risoluzione, 3 dicembre 2008, n. 471/E.
14 Si evidenzia, comunque, che l’amministrazione finanziaria aveva già accolto espressamente la nozione di “permanent establishment” prevista dall’art. 5 Modello di Convenzione OCSE. Sul punto, Ministero delle Finanze, circolare, 30 aprile 1977, n. 7/1496.
15 M. Villani, L’istituto della stabile organizzazione nell’ordinamento tributario italiano, in Atti Convegno Avvocati Tributaristi, 2004.
16 Sul punto, I. Scafati – S. Tripodo, Codificato il concetto di stabile organizzazione, in Guida normativa, Dossier mensile, 2003, pag. 161 ss.
17 Due sono gli elementi che caratterizzano la stabile organizzazione: l’esistenza di una installazione fissa in senso tecnico (locali, materiali, strutture) e lo svolgimento, per mezzo di tale struttura, di un’attività economica. Ai fini fiscali, la stabile organizzazione assumerà rilevanza solo dal momento in cui l’impresa inizierà a svolgere la sua attività in “maniera continuativa”, utilizzando la struttura fissa. Infatti, il periodo di ricerca, di preparazione e di allestimento della sede nella quale l’imprenditore svolgerà l’attività non dovrebbe configurare l’ipotesi di stabile organizzazione, salvo che tale attività non sia sostanzialmente diversa da quella per la quale la sede d’affari dovrà servire. Per approfondimenti, AA.VV., I trattati contro le doppie imposizioni, la stabile organizzazione e confronto tra subsidiary e branch, in Azienditalia, 2009, 6, pag. 670.
18 Tale principio è adesso recepito anche dal Modello di Convenzione OCSE, e specificatamente all’art. 7, che prevede come i redditi di un’impresa di uno Stato contraente possano essere assoggettati a tassazione in diverso Stato solo qualora la medesima disponga in quest’ultimo Paese di una stabile organizzazione, attribuendo alla legislazione interna dei singoli Stati la determinazione del reddito da assoggettare a tassazione.
19 La dottrina ha tuttavia sottolineato come sussistano numerose differenze tra la normativa nazionale e la disposizione del Modello di Convenzione OCSE.
In particolare, l’art. 162, II c., T.U.I.R. amplia in modo significativo la lettera F) del modello internazionale di riferimento, apportando maggiori chiarimenti per i luoghi di estrazione di risorse naturali ed estendendo la stabile organizzazione a sedi situate al di fuori delle acque nazionali.
Inoltre, la scelta operata dal legislatore nazionale si differenzia relativamente ai limiti temporali relativi alla stabile organizzazione dei cantieri.
Per approfondimenti, G.M. Committeri – G. Scifoni, La stabile organizzazione nel diritto interno, in Corriere Tributario, 2003, n. 2705.
20 Art. 162, II, III e VI c., T.U.I.R.
21 Art. 162, IV, V, VII, VIII e IX c., T.U.I.R.
22 Dal punto di vista economico, tale situazione, nell’attuale quadro di concorso di potestà impositive funzionali, costituisce una distorsione fiscale di investimento, in quanto ostacola il perseguimento dell’efficienza fiscale nell’effettuazione degli investimenti, determinando nei riguardi di un soggetto passivo un prelievo globale superiore rispetto a quello effettuato in capo a soggetti in analoga situazione.
23 A. Fedele, Appunti delle lezioni di diritto tributario, parte I, Torino, Giappichelli, 2003, pag. 204.
24 La giurisprudenza ha evidenziato come esistono due ipotesi di doppia imposizione fiscale. Tale fenomeno ricorre, infatti, sia assoggettato a tassazione il medesimo soggetto per un determinato reddito e sia qualora venga applicata due volte la stessa imposta, ovvero siano applicate imposte alternative sul medesimo reddito prodotto, anche se operata nei confronti di soggetti diversi. Sul punto, Cass. Civ., Sez. I, 22 marzo 1994, n. 2739; Cass. Civ. Sez. I, 9 aprile 1991, n. 3726; Cass. Civ., Sez. I, 11 aprile 1996, n. 3427.
25 Corte di Giustizia, 14 novembre 2006, C-513/04. In senso conforme, Corte di Giustizia CE, 16 luglio 2009, C-128/08.
26 La Commissione Monti, nel 1996, ha elaborato un documento sulla politica tributaria nell’UE, dal quale ha avuto inizio una nuova politica fiscale comunitaria. Ne costituisce l’elemento fondamentale sia il pacchetto di misure adottate in sede Ecofin nel dicembre 1997, con il Codice di condotta in materia di tassazione delle imprese, e sia le proposte di direttive in materia di tassazione dei redditi da capitale e sul pagamento di interessi e royalties tra società.
27 P. Valente, Corte di Giustizia CE 16 luglio 2009, causa C-128/08 – Trattamento dei dividendi nella sentenza Jacques Damseaux, in Fisco, 2009, 37, pag. 6133.
28 Sul punto, AA.VV., I trattati contro le doppie imposizioni, la stabile organizzazione e confronto tra subsidiary e branch, in Azienditalia, 2009, 6, pag. 670.
29 Sul punto, A. Ferraria, L’applicazione del principio del “world wide taxation” in Italia tra diritto interno ed internazionale, in Azienditalia, 9, 2009, pag. 340.
30 A. Ferraria, L’applicazione del principio del “world wide taxation” in Italia tra diritto interno ed internazionale, in Azienditalia, 9, 2009, pag. 340.
31 La prevalenza della norma internazionale su quella nazionale è stata avallata anche dalla prassi amministrativa: a tal proposito, si è fatto riferimento al principio di autoreferenzialità, riferibile esclusivamente alle sole norme di diritto internazionale. Sul punto, Ministero delle Finanze, circolare, 12 settembre 1977, n. 85/12/969; Ministero delle Finanze, risoluzione, 13 aprile 1977, n. 12/036.
32 Per tutti, G.M. Croxatto, Manuale di diritto internazionale privato, Padova, Cedam, 1999, pag. 646.
33 Sul punto, Corte di Giustizia CE, 9 marzo 1978, C-106/77. Si veda, inoltre, Corte Cost., 10 novembre 1994, n. 384; Corte Cost., 30 marzo 1995, n. 94; Corte Cass., SS.UU:, 12 aprile 1996, n. 3458.
34 Sulla base di tali principi è stata ritenuta contrastante con gli artt. 56 e 57 Trattato CE la normativa belga in materia di tassazione dell’importo pagato per riacquistare azioni da parte del soggetto residente e di quello non residente. Infatti, mentre per il primo l’importo versato era tassato come plusvalenza originante il diritto alla deduzione delle spese di acquisto, il soggetto non residente era assoggettato per la medesima operazione al regime dei dividendi, non avendo diritto alla deduzione delle spese di acquisto.
35 Corte di Giustizia CE, 3 settembre 2008, C-402/05.
36 Corte di Giustizia CE, 6 dicembre 2007, C-298/05.
37 Sul punto, Corte di Giustizia, 14 dicembre 2000, C-141/99.
38 Sulle competenze della Corte di Giustizia CE e il ruolo della stessa nella costruzione dell’ordinamento comunitario si veda P. Valente, Fiscalità sovranazionale, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 347.
39 Corte di Giustizia CE, 16 luglio 2009, C-128/08.
40 Sul punto, G. Rubbia, La doppia imposizione nella sentenza della Corte di Giustizia europea del 14 novembre 2006, in Fisco, 13, 2007, pag. 1890.
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