Il principio di non contestazione opera per quei fatti il cui onere probatorio grava sulla parte che li allega.
In sostanza l’onere di contestazione riguarda fatti sfavorevoli consistenti in :a)fatto proprio della parte;
b) fatto comune alle parti; c) fatto caduto sotto la propria percezione.
Il definitivo recepimento giurisprudenziale del principio di non contestazione si è avuto con la nota sentenza n. 761/02, resa a Sezioni Unite, con cui si è così imposto all’attenzione degli interpreti un principio di non contestazione con maggiore ampiezza applicativa, ossia un principio per il quale sono espunti dal thema probandum anche i fatti su cui la controparte è rimasta silente.
In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto che debbano considerarsi come non contestati – e quindi provati – i fatti esplicitamente o implicitamente ammessi e i fatti sui quali il convenuto ha mantenuto il silenzio.
In altre parole, la grande novità riconducibile a tale sentenza è l’ampliamento del principio di non contestazione ai fatti sui quali il convenuto ha mantenuto il silenzio.
L’art. 115 c.p.c.
Tale principio è previsto all’art. 115 c.p.c. che stabilisce: “salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.
Il Giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.”
Il recepimento normativo del principio di non contestazione, accolto con gran favore dagli interpreti, ha tuttavia suscitato qualche perplessità sulla sua collocazione.
Infatti, secondo la ricostruzione maggiormente seguita in dottrina e giurisprudenza la contestazione costituisce un presupposto dell’onere probatorio. In sostanza, la non contestazione dell’altra parte dispensa dal provare i fatti non contestati (relevatio ab onere probandi).
L’introduzione del principio di non contestazione, pertanto, avrebbe introdotto una tecnica di semplificazione del procedimento che pone capo alla decisione giudiziaria attraverso l’espunzione dal thema probandum dei fatti allegati dalle parti che non risultino specificatamente contestati ex adverso. In quest’ottica interpretativa, come detto del tutto maggioritaria, si ritiene che la miglior collocazione del principio si sarebbe ottenuta con il suo inserimento nel comma 2 dell’art. 115, anziché nel comma 1.
Il motivo di una tale critica è da rinvenirsi nel fatto che la non contestazione non riguarda la prova, cui si riferisce il comma I, bensì la formazione del thema probandum che è tutt’altra cosa. I fatti contestati in modo generico sarebbero assimilabili infatti a quelli notori non bisognosi di prova.
Secondo un impostazione minoritaria si è ritenuto che il legislatore avrebbe collocato il principio nel comma I al fine di fugare qualsiasi dubbio sulla doverosità della sua applicazione a fronte della mera possibilità dell’applicazione del notorio e delle massime di esperienza.
Quali sono i vincoli per il giudice?
Ci si è innanzitutto domandati se la non contestazione della controparte, debba essere valutata dal giudice come fatto non contestato. In merito si sono prospettate due tesi: la prima ha ritenuto il giudice non vincolato a valutare un fatto non contestato; la seconda, lo ritiene vincolato.
La prima tesi stabilisce che l’ art. 115 c.p.c. è chiarissimo nello statuire che il giudice “deve” porre a fondamento della decisione i fatti non contestati. Il giudice potrà quindi solo, discrezionalmente, valutare la specificità della contestazione ma, superato quest’aspetto, non può valutare discrezionalmente la prova o meno del fatto non contestato specificatamente.
La seconda tesi, invece, assume che i fatti non contestati rimangono assoggettati al prudente apprezzamento del giudice, non essendo sostenibile che la non contestazione equivalga ad una prova legale.
La Corte di Cassazione in un’ ordinanza del 22 maggio 2019, n. 13828 stabilisce:” Alla stregua del principio di non contestazione, richiamato dall’art. 115 c.p.c., perché un fatto possa dirsi non contestato dal convenuto, e perciò non richiedente una specifica dimostrazione, occorre o che lo stesso fatto sia da quello esplicitamente ammesso, o che il convenuto abbia improntato la sua difesa su circostanze o argomentazioni incompatibili col disconoscimento di quel fatto. D’altro canto, la parte che invoca il cosiddetto principio di non contestazione dovrebbe dare dimostrazione di aver essa per prima ottemperato all’onere processuale, posto a suo carico, di compiere una puntuale allegazione dei fatti di causa, in merito ai quali l’altra parte era tenuta a prendere posizione; ne discende che l’enunciazione delle prestazioni professionali dedotte a sostegno della domanda di pagamento del compenso, operata mediante rinvio alla documentazione allegata, esonera comunque il convenuto dall’onere di compiere una contestazione circostanziata, perché ciò equivarrebbe a ribaltare sullo stesso convenuto l’onere di allegare il fatto costitutivo dell’avversa pretesa (arg. da Cass. Sez. 3, 17/02/2016, n. 3023). La non contestazione scaturisce, pertanto, dalla non negazione del fatto costitutivo della domanda, di talché essa non può comunque ravvisarsi ove, come nella specie, a fronte di una pretesa creditoria fondata sullo svolgimento di prestazioni professionali, il cliente abbia radicalmente opposto che nessun corrispettivo fosse stato pattuito e che le prestazioni “negligentemente rese dall’attore” attenessero alla competenza dei commercialisti e non dei consulenti del lavoro (cfr. Cass. Sez. 3, 24/11/2010, n. 23816; Cass. Sez. 3, 19/08/2009, n. 18399; Cass. Sez. 3, 25/05/2007, n. 12231; Cass. Sez. L, 03/05/2007, n. 10182; Cass. Sez. 3, 14/03/2006, n. 5488). E’ altrettanto costante, del resto, l’orientamento giurisprudenziale, secondo cui, nel giudizio di cognizione avente ad oggetto il pagamento di prestazioni professionali documentato da parcelle, allorché il cliente svolga una contestazione soltanto generica in ordine all’espletamento ed alla consistenza dell’attività che si assuma prestata, il giudice rimane comunque investito del potere-dovere di verificare il quantum debeatur, costituendo la parcella una semplice dichiarazione unilaterale del professionista, sul quale perciò rimangono i relativi oneri probatori del credito azionato ex art. 2697 c.c. (Cass. Sez. 2, 11/01/2016, n. 230; Cass. Sez. 2, 30/07/2004, n. 14556; Cass. Sez. 2, 25/06/2003, n. 10150).”
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