Privato con funzioni pubbliche: è incaricato di pubblico servizio e può commettere peculato

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La Corte di Cassazione, con sentenza n. 26261 del 4 luglio 2024, ha chiarito che il privato avente funzioni pubblicistiche è qualificabile come incaricato di pubblico servizio e, in quanto tale, può commettere il reato di peculato.

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Corte di Cassazione – Sez. VI Pen. – Sent. n. 26261 del 04/07/2024

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Indice

1. I fatti

La Corte di appello di Torino ha confermato la decisione del Tribunale di Novara con la quale l’imputato è stato ritenuto colpevole del reato di peculato cui all’art. 314, comma 1, cod. pen.
Questi è titolare di una edicola e, in base ad una convenzione comunale, è stato incaricato della raccolta delle somme pagate dai fruitori del servizio mensa scolastica che, presso l’esercizio commerciale gestito dallo stesso imputato, ricaricavano le carte elettroniche destinate al pagamento del servizio.
In virtù di tale incarico, l’imputato è stato qualificato quale incaricato di pubblico servizio.
Per ciò che concerne la sua condotta, egli, dopo aver ricevuto i relativi proventi, per una somma totale di euro 43.336,90, ometteva di versarli alla tesoreria Comunale di Momo, procurandosi un vantaggio ingiusto.
Avverso la sentenza della Corte territoriale è stato proposto ricorso per Cassazione con il quale si deduceva vizio di motivazione rispetto alle acquisizioni probatorie in relazione alla qualificazione dell’imputato quale incaricato di pubblico servizio.
Nello specifico, il ricorrente assume che lo svolgimento da parte sua delle mansioni d’ordine e della prestazione di un’opera meramente materiale di raccolta di denaro, senza ricevere alcun corrispettivo, doveva far escludere la qualifica di persona incaricata di pubblico servizio.
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2. Privato con funzioni pubbliche: incaricato di pubblico servizio?

La Corte di Cassazione, nel ritenere inammissibile il ricorso, riprende un consolidato principio di diritto secondo il quale, “in tema di peculato, riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio il titolare di una rivendita di tabacchi abilitato alla riscossione dei pagamenti del servizio di mensa scolastica per conto del Comune, trattandosi di attività che comporta maneggio di denaro pubblico, con i conseguenti obblighi di rendicontazione e poteri certificatori, svolta nell’interesse del soggetto esercente il servizio pubblico di refezione scolastica e costituente una modalità di esplicazione di quest’ultima, attraverso la raccolta dei contributi privati ad essa funzionale“.
Ad avviso della Corte, la ricarica delle carte di pagamento dei fruitori del servizio di mensa scolastica rientra nella nozione di incaricato di pubblico servizio sia per la disciplina pubblicistica che impone degli obblighi di rendicontazione contabile, specificati nella convenzione sottoscritta al momento dell’accettazione dell’incarico, e sia perché costituisce una modalità di gestione del servizio pubblico di mensa scolastica.
Per quanto concerne il momento consumativo del reato di peculato, questo “si consuma allo spirare del termine fissato dal contratto di concessione per effettuare il versamento, sempre che la sottrazione del denaro si sia protratta per un tempo tale da rendere evidente la volontà di appropriarsene“.

3. La decisione della Cassazione

Alla luce di quanto finora esposto, la Corte di Cassazione ha affermato che non osta alla qualificazione pubblicistica né, come detto, il ruolo svolto, né la natura di corrispettivo delle somme nel caso di specie sottratte.
Questo in virtù di un ulteriore orientamento giurisprudenziale secondo cui “integra il delitto di peculato la condotta di omesso versamento alla Regione, da parte dei responsabili della società convenzionata per la gestione del servizio di acquedotto, dei canoni di depurazione e fognatura riscossi dall’utenza, la cui natura di corrispettivo privato – e non di tributo – non esclude che si tratti di somme comunque spettanti ab origine alla Regione in virtù di un vincolo di destinazione originario ai fini di interesse pubblico, ai sensi dell’art. 155 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152“.
Per questi motivi, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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