Come noto, il regolamento approvato dal Consiglio Nazionale di Amministrazione nel suo testo consolidato dispone, all’art. 16, che le deliberazioni s’intendono approvate se adottate dalla maggioranza dei presenti; richiedendo tuttavia maggioranze qualificate per l’approvazione del bilancio di previsione e del rendiconto generale di gestione ovvero per la elezione del Presidente e del Vice Presidente per la cui lezione occorre la maggioranza assoluta dei componenti del consiglio in prima convocazione (cfr., art. 3 , comma 3, seconda parte, codice civile).
Si può, dunque, osservare che mentre per le decisioni che hanno diretta e immediata incidenza per l’attività istituzionale dei consigli il quorum deliberativo è normativamente individuato con riferimento al numero dei componenti del consiglio, il generico riferimento alla “maggioranza”dei presenti senza ulteriori precisazioni lascia aperto il problema se, con riguardo alla attività ordinaria, nella maggioranza dei presenti debbano essere computati gli astenuti.
In sostanza, nelle norme che regolano il funzionamento dell’Agenzia Nazionale e dei Consigli Regionali, non esiste una disciplina relativa al fenomeno dell’astensione, di talché non risulta chiaro quale sia l’effetto prodotto dalla astensione sull’esito finale della votazione.
Ulteriori difficoltà interpretative provengono, inoltre, dal tenore dell’art.12, del Regolamento in tema di validità della seduta dell’organo collegiale: la stessa disposizione, infatti, stabilisce che la seduta risulta valida se interviene la metà più uno dei componenti, in prima convocazione e in seconda, se interviene la metà dei componenti lasciando intendere che l’astenuto proprio perché intervenuto è regolarmente computato ai fini della regolare costituzione dell’assemblea, pur nulla dire sulla determinazione del quorum deliberativo.
Nell’analisi della questione va, in primo luogo, rilevato che l’astensione può verificarsi per per volontà o conflitto di interessi e che, nel dare soluzione al problema dell’astensione nel calcolo delle maggioranze, sono state prospettate soluzioni unitarie per le due ipotesi, vuoi perché l’astensione per conflitto di interessi è stata considerata una forma di astensione volontaria, vuoi perché, pur tenendo distinti i due casi, la soluzione del problema è stata fondata su argomenti comuni.
E’ opinione consolidata in dottrina che il significato tipico dell’astensione (volontaria e per conflitto di interessi) è neutrale e, perciò, va tenuto distinto da quello dell’assenso e del dissenso. Solo escludendo gli astenuti dalla base di riferimento del quorum deliberativo l’astensione produce sulla deliberazione un effetto incolore, coerente con il suo significato tipico (cfr., SACCHI, L’intervento e il voto nell’assemblea delle società per azioni, cit., 281).
Al riguardo si è osservato che il computo degli intervenuti nel totale di riferimento conduce ad una efficacia dell’astensione distorta rispetto a quella sua naturale, in particolare assimilabile a quella prodotta dal voto contrario: questo è vero se si considera che l’effetto primo del dissenso è quello di sottrarre voti a favore della proposta.
Ma l’astenuto non è un dissenziente o, se intimamente lo è, quella volontà appartiene alla sfera dei motivi, irrilevanti, di regola, per il diritto. Ciò che egli manifesta è un atteggiamento agnostico, incolore; un non-rifiuto e un non-assenso, la negazione, in sostanza, di entrambe le volontà esprimibili mediante il voto (cfr., ROSSI, L’astensione dal voto nell’assemblea di società per azioni, in Giur. comm., 1987, I, 541).
Né è possibile assimilare la posizione dell’astenuto a quella dell’assente (cfr., PETTITI, La prova di resistenza in Impresa e società, Studi in memoria di A. GRAZIANI, Napoli, 1571 e ss.).
Se, infatti, quest’ultimo manifesta una assoluta indifferenza per la deliberazione, chi si astiene tiene già un comportamento in un certo senso partecipativo, giacché è presente fisicamente all’adunanza e contribuisce, dunque, all’avvio delle attività assembleari. E’ al momento del voto che viene meno la sua collaborazione.
Pertanto, se l’astenuto ha voluto auto-escludersi dal procedimento della votazione e, di conseguenza, dal suo risultato, il calcolo delle maggioranze andrebbe operato sui soli votanti.
Va, peraltro, evidenziato che, altra parte della dottrina maggioritaria (cfr., per tutti, PAVONE LA ROSA, Diritto di voto e diritto di annullamento delle deliberazioni assembleari, in Riv. Trim. dir. proc. Civ., 1953, 912 e ss.), accogliendo il significato neutrale che l’astensione esprime, la ritiene applicabile alle sole deliberazioni che incidono su decisione di carattere ordinario o di ordinaria amministrazione.
Al riguardo richiamando in via analogia le regole che soprintendono l’assemblea straordinaria nelle società per azioni, è stato osservato come quella regola incontra l’ostacolo del dettato normativo: ne discende che, in sede di assemblea straordinaria, l’astensione non potrà che valere dissenso (cfr., in dottrina ROSSI, L’astensione dal voto, cit., 542; in giurisprudenza, Tribunale Milano, 8 febbraio 1988 in Società, 1988, 707).
Se, infatti, per l’assemblea straordinaria la base di riferimento del quorum deliberativo è normativamente individuata nel capitale sociale, nella disciplina dell’assemblea ordinaria sostanzialmente mancano invece indicazioni al riguardo (art.2368, comma 1, 2369, comma 3, cod.civ.).
Un simile discorso può estendersi alla tematica oggetto del presente esame, ritengo infatti di poter ben esprimere una sostanziale equiparazione del contenuto della disciplina indicata negli artt.2368, comma 2, art.2369, comma 3 e 4, art.2369 bis comma 2, art.2441, comma 5 e 8, cod.civ., a quelle in cui il consiglio e chiamato a deliberare con maggioranza qualificata per dettato normativo (approvazione del bilancio e del rendiconto ; nomina del Presidente e Vice Presidente).
In conclusione, alla luce dei rilievi di cui sopra, appare corretto ritenere che, nel silenzio del regolamento, i consiglieri volontariamente astenutisi sono esclusi dalla base di riferimento del quorum deliberativo.
In definitiva, nel computo delle maggioranze non si tiene conto, con riguardo alla amministrazione ordinaria, dei presenti che si astengono dal voto, perché l’astensione non esprime né approvazione, né disapprovazione (cfr., in dottrina, tra gli altri, DALMARTELLO, Regime legale e regime statutario dell’assemblea ordinaria di seconda convocazione, in Riv. Soc. 1960, 27 e ss.; AMADUZZI, Questioni in tema di maggioranza costitutiva e deliberativa nelle assemblee di società, in Riv. Not. 1967, 480 e ss.; PELLIZZI, Sui poteri indisponibili della maggioranza assembleare, in Riv. Dir. Civ., 1967, I, 113 e ss.; CIAN – TRABUCCHI, Commentario al codice civile, Padova, 1993, 2279; in giurisprudenza, cfr., Cass. 21 agosto 1991 n. 8976 in Giust. Civ. Mass. 1991, fasc.8; Tribunale Milano, 8 aprile 1982, in Giur. It. 1983, I, 2, 842; Cass. 7 agosto 1959, n. 2481 in Giust. Civ. 1959, I, 2129 e ss.; Appello Bologna, 16 aprile 1958, in Foro Pad. 1958, I, 724, e ss.; Tribunale Modena 21 maggio 1957, in Banca, Borsa e titoli di credito, 1957, II, 302).
Per converso, i consiglieri volontariamente astenutisi devono essere inclusi nella base di riferimento del quorum deliberativo dell’attività straordinaria.
In questa situazione è molto importante verificare se una differenziazione nella determinazione dei criteri di calcolo del quorum deliberativo possa essere introdotta con clausole del regolamento adottati dai consigli di amministrazione regionali nell’approvazione del proprio regolamento di funzionamento.
Una risposta affermativa sembrerebbe consentita, ove si richiami il 3 comma dell’art 6 del D.P.R. n.° 465/97 che impone al Consiglio di Amministrazione delle Sezioni Regionali l’adozione dei provvedimenti sulla base dei criteri generali fissati dal Consiglio Nazionale di Amministrazione, conferendo una potestà normativa di tipo concorrente nei limiti di quanto stabilito a livello Nazionale per garantire l’esigenza fondamentale dell’unitarietà e indivisibilità della azione amministrativa riguardo all’intero territorio nazionale.
Tali esigenze non sarebbero rispettate ove fossero inserite clausole che prevedano l’unanimità o comunque quorum deliberativi così elevati da essere sostanzialmente equivalenti alla unanimità, riducendo margini di intervento per la protezione dell’istanza partecipativa tanto da paralizzare deliberazioni essenziali per la vita del Consiglio.
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