Successione intertemporale dopo la riforma del 2017
L’ultima disposizione della riforma relativa alla prescrizione è il comma 15 dell’articolo unico, che ne disciplina gli effetti di diritto intertemporale: “Le disposizioni di cui ai commi da 10 a 14 [cioè tutte le modifiche alla disciplina della prescrizione] si applicano ai fatti commessi dopo la data di entrata in vigore della presente legge”.
Considerata la natura sostanziale che la Corte Costituzionale assegna alla prescrizione (cfr. da ultimo la nota ordinanza n. 24 del 2017 relativa al “caso Taricco”), tale disposizione risulta superflua per quanto riguarda le novità sfavorevoli all’imputato (ad esempio, le nuove cause di sospensione a seguito di condanna non definitiva) in quanto le stesse risultano già inapplicabili ai fatti pregressi in forza del principio di irretroattività in malam partem. Per quanto riguarda le novità favorevoli, essa svolge l’innovativa ed eccentrica funzione di impedire che le stesse possano retroagire ai fatti pregressi, in deroga all’art. 2, comma 4 c.p.
Si tratta di una previsione che desta alcune perplessità. Per consolidata giurisprudenza costituzionale, il valore tutelato dal principio della lex mitior può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo quali – a titolo esemplificativo – quelli dell’efficienza del processo, della salvaguardia dei diritti dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale e quelli che coinvolgono interessi o esigenze dell’intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo. Con la conseguenza che il giudizio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo, deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza (C. Cost. n. 393/2006; C. Cost. n. 72/2008, n. 12; C. Cost. n. 236/2011, nn. 10, 11).
In verità, la rilevanza pratica di questo problema potrebbe essere abbastanza ridotta, se non addirittura nulla: l’unica modifica favorevole introdotta dalla riforma in esame è quella di cui all’art. 161 c.p., nella parte in cui sottrae agli effetti della sospensione i concorrenti che non risultino imputati nello stesso procedimento.
I procedimenti speciali
Accanto al rito ordinario, il codice di procedura penale prevede altri tipi di procedimento, classificati tecnicamente come “speciali” ma chiamati anche alternativi, semplificati, differenziati, acceleratori o anticipati: il giudizio abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta, il giudizio direttissimo, il giudizio immediato, il procedimento per decreto e il procedimento per oblazione.
Ognuno ha una sua fisionomia più o meno spiccata, a cominciare dalla maggiore o minore accusatorietà.
I riti alternativi, benché regolati nello stesso libro del codice (il sesto), vanno distinti in due categorie. Alla deflazione dibattimentale sono preordinati il procedimento abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta delle parti e il procedimento per decreto penale. diversa collocazione trovano il giudizio direttissimo e il giudizio immediato, che non mirano a deflazionare il dibattimento, bensì ad accelerarlo, anticipandolo. In generale, i procedimenti speciali hanno in comune la massima semplificazione dello svolgimento processuale attraverso il suo snellimento, l’economia dei giudizi, la riduzione dei costi, la contrazione dei tempi del processo.
La legge 23 giugno 2017, n. 23 ha modificato la disciplina del giudizio abbreviato e dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, rimodulandole al fine di ampliare il ricorso a dette ipotesi di definizione anticipata del procedimento. Si tratta dei riti più interessanti sotto il profilo delle scelte difensive poiché l’applicazione degli stessi è rimessa alla scelta dell’interessato: totalmente per il giudizio abbreviato in quanto devoluto alla volontà dell’imputato, parzialmente per il c.d. patteggiamento poiché esso richiede il consenso del pubblico ministero.
La giurisdizione e l’esecuzione della pena
Con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, il giudice dell’esecuzione, da «giudice degli incidenti», è diventato il giudice che «conosce dell’esecuzione del provvedimento» ex art. 665 c.p.p. Si tratta di un cambiamento non solo formale, ma di contenuti.
In precedenza, il carattere incidentale degli interventi dopo la definitività della decisione costituiva il corollario di due principi: la stabilità della cosa giudicata e la funzione retributiva della pena. L’esecuzione penale era considerata un’appendice eventuale del processo; ad essa era riconosciuta natura amministrativa, mentre solo al processo di cognizione veniva riconosciuta «natura giurisdizionale».
Tale impostazione è da considerarsi superata. L’art. 27, comma 3, della Costituzione sancisce la finalità rieducativa della pena e, pertanto, il condannato ha diritto a un esame periodico della pretesa punitiva (Corte Cost., n. 24 del 1974). La fase esecutiva è oggi caratterizzata dall’ampliamento delle funzioni del giudice della esecuzione e dalla conseguente giurisdiziona- lizzazione della fase esecutiva.
La linea di tendenza percepibile dall’evoluzione legislativa rivela l’esigenza di una giurisdizionalizzazione sempre più intensa dell’esecuzione penale.
L’individuazione dei limiti del giudicato in senso sostanziale nell’esecuzione penale deve essere effettuata in base al principio secondo cui il giudicato copre l’oggetto della decisione del giudice di cognizione, e cioè tutti gli elementi di fatto e di diritto necessari per l’emanazione della decisione medesima; con l’avvertenza che tale decisione è soggetta a modifiche in senso favorevole al condannato per la sopravvenienza di fatti nuovi (giudizio di revisione) e con l’ulteriore avvertenza che la legge appresta numerosi strumenti per il riesame del rapporto punitivo nel corso della fase dell’esecuzione in vista degli scopi cui deve tendere la pena. L’entità della pena principale, ad esempio, può essere soggetta a modificazioni per effetto della legge sul concorso dei reati e delle pene inflitte anche con sentenze diverse quando, in sede di esecuzione, si proceda a unificare le pene concorrenti (art. 663 c.p.p).
Il processo evolutivo che ha interessato il giudice dell’esecuzione è stato condizionato dalla valorizzazione della tutela dei diritti fondamentali della persona e dalla riflessione sul tema della “cedevolezza del giudicato”.
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