Il ragionamento dell’organo ha condotto ad una decisione di restituzione degli atti ad apposita sezione del Consiglio di Stato.
La normativa che viene in rilievo nell’esposizione e spiegazione del caso di specie concerne l’art. 42 bis d.P.R. 327/2001 – rubricato Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – in relazione alla contestuale e cumulativa applicazione dell’art. 2043 c.c., in riferimento al risarcimento per fatto illecito.
Fatto storico
Ritengo la sentenza in oggetto estremamente decisiva per comprendere appieno sia il più generale procedimento di espropriazione, sia per carpire il ragionamento da seguire e le risoluzioni da adottare nel momento in cui ci si trova dinanzi ad un’espropriazione sprovvista del decreto di esproprio.
Questo perché il dispositivo che sto per esaminare ha avuto ed ha tuttora il merito di aver ricostruito, in chiave storica e sistematica, l’istituto dell’acquisizione disciplinato prima dall’art. 43 e poi dall’art. 42 bis, t.u. espr.
Prima di esaminare il ragionamento logico dell’organo giurisdizionale amministrativo italiano, risulta necessario partire dalla ricostruzione storica dei fatti che hanno condotto all’emanazione della decisione in oggetto.
La sentenza presenta come tematica principale ed esclusiva l’apprensione coattiva ex art. 42 bis d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, da parte di un comune, quale Pubblica Amministrazione, nei confronti di un bene di proprietà di un singolo cittadino.
Il giudizio vede opposta la parte ricorrente, C. M., alla parte resistente, comune di Villa Castelli, per la riforma della sentenza del TAR per la Puglia n. 383 del 21 febbraio 2013. Viene dunque in rilievo la domanda di esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza, divenuta irrevocabile, del TAR della Puglia – sede di Lecce – sezione I, n. 3342 del 19 novembre 2008 la quale accoglieva il ricorso della parte ricorrente.
Il ricorso verteva sull’accertata e dichiarata irreversibilità della trasformazione attuata dal comune di Villa Castelli su un fondo, di proprietà della parte istante, divenuto in via definitiva giardino pubblico, perdendo in questo modo la sua connotazione di bene privato.
Il comune, parte resistente, pur avendo disposto l’occupazione d’urgenza del terreno interessato, non aveva emanato il successivo, nonché necessario per l’esatta riuscita del procedimento espropriativo, decreto di esproprio.
Allo stesso tempo, il TAR condannava il comune all’obbligo di azionarsi per una scelta tra una triplice via, restituire l’appezzamento di terreno, concludere un accordo transattivo, ovvero, in alternativa, ad emanare un provvedimento di acquisizione ai sensi dell’allora vigente art. 43, t.u. espr.
Infine l’organo giurisdizionale amministrativo formulava prescrizioni dettagliate in merito ai criteri di liquidazione del danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, e soprattutto dal possesso sine titulo messo in atto dal comune, Pubblica Amministrazione nel caso di specie parte resistente.
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Il giudizio di primo grado
A questo punto, si apriva nel 2009 il giudizio di primo grado: con una prima sentenza, infatti, TAR Lecce – n. 2241 del 2 ottobre 2009 – veniva assodata una prima inerzia del comune ad eseguire il precedente giudicato: la pubblica amministrazione, contestualmente a ciò, veniva obbligata al rispetto di un termine perentorio di 45 giorni per l’esecuzione degli adempimenti previsti dal giudicato.
Nel lasso di tempo che intercorreva tra il 2009 ed il 2012, interveniva una sentenza della Corte Costituzionale, la n. 293 dell’8 ottobre 2010, la quale dichiarava illegittimo costituzionalmente l’art. 43 t.u. espr. d.P.R. 327/01, soppiantandolo con un’aggiunta, ovvero l’art. 42 bis.
Si giungeva, in questo modo, ad una seconda sentenza, TAR Lecce n. 928 del 24 maggio 2012, con la quale l’organo giurisdizionale, con una decisione fondamentale per il prosieguo della trattazione della comprensione del dispositivo, riteneva per la prima volta applicabile l’art. 42 bis t.u. espr. d.P.R. 327/01 e prendeva atto della totale assenza di volontà del comune a concludere un accordo transattivo.
Quest’ultima decisione è assai rilevante per la sentenza rimessa all’Adunanza Plenaria, in quanto il Consiglio di Stato si trovava costretto a nominare, per il tramite del meccanismo del giudizio di ottemperanza, il commissario ad acta con il preciso mandato di provvedere a tutti gli adempimenti correlati per l’esecuzione del precedente giudicato.
Tale commissario, a causa della perdurante inerzia del comune, emanava in data 10 settembre 2012 un provvedimento ex art. 43 t.u. espr. d.P.R. 327/01, contro il quale la sig. M. proponeva reclamo ex art. 114, co. 6, c.p.a. proponendo, all’attenzione della corte, molteplici elementi su cui riflettere.
Il TAR respingeva, con sentenza sez. I n. 383 del 21 febbraio 2013, suddetto reclamo, escludendo che il commissario dovesse agire nel contraddittorio tra le parti, ovvero dovesse informarsi in merito alle volontà delle parti in giudizio, e riconoscendo congrua la determinazione del valore del terreno.
Appello al Consiglio di Stato
Avverso la su menzionata sentenza, proponeva ricorso, con giudizio di appello davanti alla IV sezione del Consiglio di Stato, la sig. M. adducendo vari motivi, il più rilevante tra i quali è sicuramente quello concernente la contestazione sulla previsione dell’eventuale esonero, in capo al commissario ad acta, di acquisire i pareri delle parti i quali, a detta della ricorrente, sarebbero potuti essere decisivi in punto di scelta tra la restituzione del bene ovvero l’acquisizione coattiva, facendo intendere in questo modo la propensione della parte ricorrente a riottenere nella sua personale sfera di proprietà l’appezzamento di terreno interessato.
Si costituiva il comune quale parte resistente, contestando in toto la fondatezza dell’appello, di cui chiedeva il suo rigetto, presentato dalla ricorrente.
La IV sezione del Consiglio di Stato, ritenendo la questione particolarmente decisiva per un’interpretazione conforme della disciplina sull’espropriazione, decideva di rimettere, con ordinanza n. 3347 del 3 luglio 2014, la causa all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
La domanda che la IV sezione poneva all’attenzione dell’Adunanza Plenaria, usando le testuali parole riportate in sentenza, era:” se nella fase di ottemperanza – con giurisdizione, quindi, estesa al merito – ad una sentenza avente ad oggetto una domanda demolitoria di atti concernenti una procedura espropriativa, rientri o meno tra i poteri sostitutivi del giudice, e per esso, del commissario ad acta, l’adozione della procedura semplificata di cui all’art. 42 bis t.u. espr. d.P.R. 327/01”.
Erano questi anni decisamente problematici circa la legittimità costituzionale degli articoli 42 bis e 43 t.u. espr. d.P.R. 327/01.
L’attenzione del legislatore e dei tecnici del diritto cadde anche sull’articolo 43 d.P.R. 327/01, il quale finì sotto le scure della Corte Costituzionale; dopo un travagliato periodo di vuoto legislativo, caratterizzato per di più da una copiosa giurisprudenza interna, il legislatore è tornato per l’ennesima volta nella materia, introducendo nel t.u. espr. l’art. 42 bis.
Urge aggiungere la non più vigenza dell’art. 43 t.u. espr., dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla sentenza n. 293 dell’8 ottobre 2010 della Corte Costituzionale, e soppiantato dall’art. 42 bis, introdotto qualche mese dopo dall’art. 34, comma 1, legge n. 111 del 2011.
La novella legislativa introdotta tramite la appena menzionata legge ripropone ancora il meccanismo di acquisizione di un bene, ma introduce dei correttivi per potenziare le garanzie e sfuggire in tal modo ad ulteriori censure di costituzionalità.
La nuova disposizione legislativa, andando nel dettaglio della disciplina, dispone espressamente l’acquisto della proprietà da parte dell’Amministrazione ex nunc al momento dell’emanazione dell’atto di acquisizione, l’obbligo di una motivazione stringente ed altre svariate clausole per realizzare una più ragionevole mediazione degli interessi in gioco.
Ciò nonostante, pur avendo avuto il merito di aver riscritto una disciplina così tanto controversa e dibattuta, l’articolo 42 bis è stato più volte oggetto di questioni circa il suo rispetto o meno della costituzione, proprio per questi motivi, contro di esso, si è tentato di giungere ad una dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Per completezza dell’analisi ricostruttiva, dedicherò, al termine della trattazione sul dispositivo in questione, un paragrafo alla sentenza 71/2015 della Corte Costituzionale, richiamata molto dettagliatamente dal Consiglio di Stato.
Art. 42 bis d.p.r. 8 giugno 2001 n. 327
L’intero commento giurisprudenziale che si riporta è incentrato su una maggiore comprensione della vigenza dell’art. 42 bis d.P.R. 327/01 nel nostro ordinamento, per questo motivo sembra utile riportare il suo dettato legislativo.
L’art. 42 bis è rubricato “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”, e così recita: ”valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene”.
Il primo comma dell’art. 42 bis d.P.R. 327/01 è illustrativo della situazione in cui una Pubblica Amministrazione, nell’immettersi nella proprietà di un privato, sia sprovvista del decreto di esproprio necessario per l’esatta conclusione del procedimento omonimo.
In questo caso, infatti, la P.A. può disporre quindi l’acquisizione del bene interessato, dietro però il pagamento forfetario di un indennizzo a favore del proprietario, singolo cittadino.
Il comma 2 recita:” il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l’amministrazione che ha adottato l’atto impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo, maggiorate dell’interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo”.
Al comma 3 si afferma:” salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell’articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma”.
Dopo aver dato una lettura ai commi concernenti l’aspetto risarcitorio della vicenda, volgiamo lo sguardo al provvedimento di acquisizione, il comma 4, infatti, afferma: ”il provvedimento di acquisizione, recante l’indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; nell’atto è liquidato l’indennizzo di cui al comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L’atto è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell’articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente ed è trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi dell’articolo 14, comma 2”.
Il comma 5 dispone: ”se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono applicate quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata, ovvero quando si tratta di terreno destinato a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati, il provvedimento è di competenza dell’autorità che ha occupato il terreno e la liquidazione forfetaria dell’indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale del bene”.
Il comma 6: ”le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale; in tal caso l’autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere all’eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia”.
Il comma 7 afferma:” l’autorità che emana il provvedimento di acquisizione di cui al presente articolo né da comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia integrale”.
L’ultima comma, l’8, infine dispone: ”le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico a disporre l’acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell’interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo”.
Il suddetto risulta essere, tutt’oggi, la disciplina di riferimento per la situazione in cui una P.A. si trovi a dover acquisire un bene privato in modo definitivo, dopo essere immessa nella sua proprietà senza un valido decreto di esproprio, la cosiddetta acquisizione sine titulo o coattiva.
Principio ispiratore: una condotta illecita non comporta acquisizione
Tornando nuovamente alla ricostruzione della vicenda in questione, in linea generale il principio che permea l’intero dispositivo consiste nell’affermazione secondo la quale qualsiasi sia la forma di manifestazione messa in atto dalla P.A., la condotta illecita, imputabile ad essa, non può mai comportare l’acquisizione definitiva del bene, dando vita in questo modo ad una valida causa scatenante un illecito permanente ex art. 2043 c.c., ovvero risarcimento del danno per fatto illecito.
Inoltre, nella sentenza si riporta il fine ultimo dell’art. 42 bis d.P.R. 327/01, ovvero quello di contrastare il deprecato fenomeno delle “espropriazioni indirette” nei riguardi del diritto di proprietà o di altri diritti reali.
Questi dunque i fondamenti da cui partire per comprendere al meglio la problematica.
Tale situazione di illiceità, afferma il Consiglio di Stato, potrà cessare in seguito al verificarsi di una delle seguenti condizioni: restituzione del fondo, accordo transattivo, rinunzia abdicativa da parte del proprietario, compiuta usucapione ovvero provvedimento emanato ex art. 42 bis t.u. espr.
Se è vero che da un lato quest’ultima strada sembra essere la più utilizzata, dall’altro è altrettanto vero che proprio questo strumento risulta essere quello che richiede maggiori sforzi ermeneutici nella sua applicazione, comportando così non pochi problemi agli operatori del diritto.
Innanzitutto è opportuno partire da un fondamentale assunto, secondo il quale la procedura ex art. 42 bis configura uno strumento ablatorio sui generis, il cui scopo non corrisponde a quello tipico di un atto sanatorio di un precedente illecito commesso dalla P.A., bensì a quello tipico di un atto in grado di redimere una qualsiasi opera imputabile all’amministrazione sprovvista di un titolo ad hoc, nel caso di specie, il decreto di esproprio.
Un rilievo centrale nell’intera disciplina, lo assume una caratteristica tipica dell’istituto preso in esame, ovvero la non prevista facoltà in capo alla P.A. di emanare il provvedimento di acquisizione in presenza di un giudicato che abbia disposto la restituzione del bene al proprietario.
Ciò si desume principalmente ed implicitamente dalla previsione del comma 2 dell’art. 42 bis t.u. espr. nella parte in cui consente all’autorità di adottare il provvedimento durante la pendenza del giudizio avente ad oggetto l’annullamento della procedura ablatoria, ma non oltre, e quindi dopo che si sia formato un eventuale giudicato non soltanto cassatorio ma anche esplicitamente restitutorio.
Questa linea interpretativa è stata, qualche anno dopo, ripresa e confermata dal TAR Venezia, il quale ebbe modo di asseverare che solo con la presenza di un giudicato per dir così restitutorio, l’Amministrazione avrebbe perso il potere di attivare il procedimento ex art. 42 bis d.P.R. 327/01, si afferma: “solo in presenza di un giudicato, con il quale sia stato ordinato al Comune la restituzione ai legittimi proprietari dei terreni illegittimamente occupati, l’Amministrazione comunale non ha più il potere di emanare un provvedimento ai sensi dell’art. 42 bis t.u. espr.” (cfr. TAR Venezia, sez. II, 12/06/2019, n. 691).
Questa previsione risulta decisiva al riguardo, in quanto la P.A., nelle ipotesi in cui si verifica una delle situazioni contemplate dai primi due commi dell’art. 42 bis, è chiamata ad esprimere una scelta sul da farsi non tra acquisizione autoritativa e la non restituzione del bene interessato, ma fra la acquisizione e la non acquisizione, il tutto perché la restituzione concerne un obbligo civilistico.
Giudizio di ottemperanza e provvedimento ex art. 42 bis d.p.r. 327/2001
È bene tracciare il requisito di base richiesto dal legislatore per l’emanazione del provvedimento ex art. 42 bis d.P.R. 327/01, ovvero la statuizione secondo la quale un eventuale giudicato sulla restituzione forzata del bene produce un effetto inibente sull’emanazione del provvedimento di acquisizione.
Ciò si desume direttamente da una lettura costituzionalmente orientata che ne ha fatto il giudice delle leggi in armonia con i dettami proclamati dalla CEDU.
Il giudicato restitutorio non pone alcun tipo di problematiche nel caso in cui, sic et simpliciter, disponga espressamente in sede amministrativa o civile la restituzione del bene. Profili problematici potrebbero comportare le alterazioni sul bene, in questo caso parliamo di un appezzamento di terreno, in quanto queste sono tali da richiedere la messa in atto di attività, alle volte giuridiche alle volte tecnico/materiali, necessarie ai fini della restituzione del bene interessato.
Dinanzi a questa evenienza, gli scenari possibili possono essere i più vari, potrebbe accadere che il proprietario non abbia alcun tipo di pretese restitutorie e quindi non agisca in tal senso, ovvero che questi abbia interesse a che il bene gli venga restituito, proponendo adeguata domanda giudiziale: in tal caso, qualora il giudice adito non si pronunci e quindi non emani alcuna sentenza restitutoria, mancando questa, la P.A. potrà in modo pacifico e legittimo adottare la procedura di acquisizione ex art. 42 bis d.P.R. 327/01.
Nel caso di specie però, la situazione si discosta da quella appena delineata, in quanto in tal caso il giudice prevedeva un puntuale obbligo dell’Amministrazione di emanare il provvedimento ex art. 42 bis, la quale previsione tuttavia non rientrava, e non rientra, tra i poteri esercitabili dal giudice, il quale, quindi, non può condannare tout court l’Amministrazione ad attuare quanto appena descritto.
Un’eventuale disciplina che preveda ciò violerebbe in primis il principio fondamentale di separazione dei poteri su cui si basa la Giustizia Amministrativa, ed in secundis i principii di tassatività ed eccezionalità dei casi di giurisdizione di merito sanciti dall’art. 134 c.p.a., suoi corollari.
Risulta possibile, invece, che il giudice amministrativo, in caso di rito-silenzio, vada ad imporre all’Amministrazione un obbligo di scelta, di decisione, tra il provvedimento di acquisizione ex art. 42 bis, ovvero le altre soluzioni individuate in precedenza, il tutto sempre nel pieno rispetto di tutte le garanzie sostanziali e procedurali testé illustrate.
Nel caso riportato, ci troviamo dinanzi due fenomeni, da un lato una totale inerzia dell’autorità, e dall’altro un’attività sostanzialmente elusiva di carattere soprassessorio.
Col verificarsi di queste due evenienze, dunque, è legittimamente consentito al giudice appositamente adito di, in sede di giudizio di ottemperanza, intervenire in due modi: in modo diretto, ovvero nominando un commissario ad acta che possa, a sua volta, valutare la sussistenza di tutti i presupposti richiesti ex lege per procedere per il tramite della procedura di acquisizione ex art. 42 bis d.P.R. 327/01.
Decisione finale e ripercussioni sulla giurisprudenza successiva
L’Adunanza plenaria restituisce gli atti alla IV Sezione del Consiglio di Stato, affinché si pronunci sull’appello in esame nel rispetto del seguente principio di diritto: il commissario ad acta può emanare il provvedimento di acquisizione coattiva previsto dall’articolo 42 bis d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 – Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità –, debitamente nominato dal giudice amministrativo, ex artt. 34, comma 1, lett. e), e 114, comma 4, lett. d), c.p.a., e 117, comma 3, c.p.a.
Nel prosieguo della trattazione mi sembra utile, al fine di meglio comprendere la problematica, riportare le massime giurisprudenziali le quali, rifacendosi ai principi appena esposti, hanno contribuito a conferire maggiore corposità specifica all’intera disciplina, permettendo ai tecnici del diritto una maggiore comprensione e facilità di risoluzione delle problematiche che si prospettano nel quotidiano.
Procedimento espropriativo – d.p.r. 327/2001
Dopo aver affrontato lo studio ed il commento della sentenza n. 2 del 9 febbraio 2016 del Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria, oggetto di questa disamina, mi sembra doveroso proseguire con la natura giuridica del procedimento espropriativo, così come disciplinato nel nostro ordinamento, alla luce del quanto mai controverso d.P.R. 8 giugno 2011 n. 327.
Quello espropriativo consiste in un potere e/o procedimento ablatorio, col quale la Pubblica Amministrazione sacrifica un interesse/diritto privato per motivi di interesse pubblico previo pagamento di un indennizzo: l’attività trova la sua ragion d’essere direttamente nell’art. 42 Cost., in cui si afferma che “la proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale”.
Le fasi previste sono tre, e sono regolamentate dall’art. 8 del citato d.P.R. 327/01.
Vincolo preordinato all’esproprio
L’art. 8 prescrive la doppia condizione secondo la quale l’opera da realizzare debba essere prevista nello strumento di urbanistica generale o in atti di natura ed efficacia equivalente, e che sul bene da espropriare sia stato apposto il vincolo preordinato all’esproprio che si adotta nel momento in cui diventa efficace l’atto di approvazione del piano urbanistico generale.
La prima condizione risulta funzionale ad individuare il “dove”, la precisa localizzazione geografica in cui l’opera pubblica sarà realizzata.
La normativa prescrive inoltre che sul bene da espropriare vi sia un attuale vincolo preordinato all’esproprio: sarà dunque necessaria la presenza cumulativa di entrambi gli elementi; il vincolo ha una durata di 5 anni, entro i quali può essere emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
Dichiarazione di pubblica utilità
Il secondo procedimento concerne la dichiarazione di pubblica utilità: questa è antecedente al decreto di esproprio, e, con la sua mancanza, qualsiasi successivo provvedimento risulterebbe illegittimo.
Si dispone però che qualora non sia stato apposto il vincolo preordinato, la dichiarazione di pubblica utilità diviene efficace al momento di tale apposizione, rendendo in questo modo il requisito del previo vincolo non più come di legittimità, bensì di efficacia.
La dichiarazione si ha con l’approvazione del progetto definitivo, ed in tale fase si determina l’opera da realizzare sull’area, già individuata in sede di imposizione del vincolo; inoltre il provvedimento che dispone la pubblica utilità dell’opera può essere emanato fino a quando non sia decaduto il vincolo preordinato all’esproprio, che conosce una durata di 5 anni.
L’approvazione di un progetto definitivo ad opere pubbliche, secondo in nuovo riparto di competenze disegnato dal t.u.e.l., non può che spettare alla giunta comunale, la quale dovrà indicare gli estremi dell’atto da cui è sorto il vincolo preordinato all’esproprio: sarà illegittimo nell’ipotesi in cui non rechi la predetta indicazione.
La dichiarazione di pubblica utilità ha, quale effetto, quello di assoggettare il bene al regime di espropriabilità, ponendosi come presupposto dell’espropriazione ed incidendo, pertanto, in modo diretto sulla sfera giuridica del proprietario.
Indennità di esproprio
Giunti a questo punto, entro 30 giorni dall’acquisto di efficacia dell’atto che dichiara la pubblica utilità, il promotore dell’espropriazione dovrà compilare un elenco dei beni da espropriare con una loro sommaria descrizione, il tutto corredato dall’indicazione dei relativi proprietari e delle somme offerte.
Successivamente si procederà oltre con la determinazione provvisoria dell’indennità di esproprio, quale somma da elargire al proprietario del bene da espropriare per l’estinzione del suo diritto di proprietà: l’atto che determina in via provvisoria la misura dell’indennità di espropriazione è è notificato al proprietario con le forme degli atti processuali civili.
Nei 30 giorni successivi alla notificazione, il proprietario può comunicare all’autorità espropriante, con dichiarazione irrevocabile, che condivide la determinazione dell’indennità di espropriazione, ovvero, qualora intenda rifiutare l’offerta, ed intenda altresì avvalersi della stima peritale, potrà già designare un tecnico di propria fiducia.
Compiuti tali adempimenti, il beneficiario dell’espropriazione ed il proprietario stipulano, con un vero e proprio negozio traslativo della proprietà, l’atto di cessione del bene una volta condivisa la determinazione dell’indennità: si passerà poi all’adozione e all’esecuzione del decreto di esproprio.
Vi è poi la previsione di un iter puramente eventuale, ovvero la determinazione definitiva dell’indennità di espropriazione: questa ipotesi si verifica nel momento in cui manca l’accordo sulla determinazione dell’indennità, e quando ciò accade l’autorità invita il proprietario interessato a comunicare se intenda avvalersi di un tecnico di propria fiducia.
Qualora il proprietario non abbia reso tempestiva comunicazione, si chiederà la determinazione dell’indennità alla commissione competente costituita dalla Regione in ogni provincia.
A questo punto possono verificarsi tre ipotesi: a) che la determinazione venga accettata e non contestata, in questo caso l’indennità diviene definitiva ed il pagamento verrà autorizzato; b) che la determinazione non venga accettata ma neppure contestata, in questo caso l’indennità diventa ugualmente definitiva per decadenza dei termini di opposizione giudiziale; c) che la determinazione sia fatta oggetto di opposizione giudiziale, in questo caso se l’opposizione è stata promossa dall’ente espropriante o dal beneficiario, non si procederà al deposito.
Nel caso di opposizione da parte del solo proprietario e senza una tempestiva domanda riconvenzionale dei resistenti, l’indennità stimata dovrà essere depositata.
Esiste anche una determinazione urgente dell’indennità che non risulta soggetta ad alcuna accettazione da parte dell’interessato.
L’art. 36 del T.U. afferma che l’indennità di esproprio viene calcolata nella misura del valore venale del bene.
Riassumendo quindi la procedura di espropriazione prevista e disciplinata all’interno del nostro ordinamento, abbiamo avuto modo di constatare come questa procedura preveda l’esplicazione di tre fasi fondamentali: la prima fase risulta essere quella relativa all’imposizione del vincolo preordinato all’esproprio, la seconda all’emanazione della dichiarazione di pubblica utilità, la terza ed ultima al pagamento dell’indennità di esproprio.
L’intero corpus legislativo, ovvero la normativa di riferimento in materia, è rinvenibile all’interno del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, al cui interno l’art. 8 afferma che: ”il decreto di esproprio può essere emanato qualora: a) l’opera da realizzare sia prevista nello strumento urbanistico generale, o in un atto di natura efficacia equivalente, e sul bene da espropriare sia stato apposto il vincolo preordinato all’esproprio; b) vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità; c) sia stata determinata, anche se in via provvisoria, l’indennità di esproprio”, queste dunque le tre fasi fondamentali, da rispettare in modo imperativo.
Massime giurisprudenziali
Sentenza 71/2015 Corte Costituzionale
La sentenza del 30 marzo 2015 n. 71, Corte Costituzionale, ha la natura di una sentenza interpretativa di rigetto, con cui la Corte dichiarava inammissibile, infondata e non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42 bis d.P.R. 327/01.
Occorre innanzitutto partire dal fatto storico: molto semplicemente esso riguardava l’immissione nel possesso, senza decreto di esproprio, da parte del comune di Porto Cesareo (LE) nei confronti di un fondo di proprietà del ricorrente, il quale chiedeva la condanna del comune alla restituzione del bene occupato, appunto, senza titolo.
Alla situazione di fatto dell’epoca, era in vigore l’art. 43 t.u. espr., ed in base a questo il TAR, con sentenza 1614/2010, ordinava al comune l’adozione del provvedimento acquisitivo delle aree ai sensi dell’allora vigente, e già citato, art. 43 t.u. espr. approvato con d.P.R. 327/01.
La norma veniva dichiarata illegittima costituzionalmente, ed il ricorrente adiva nuovamente il TAR per ottenere la restituzione del fondo ed il risarcimento del danno; allo stesso tempo, veniva introdotto nelle more del giudizio il nuovo art. 42 bis d.P.R. 327/01, ed è proprio servendosi di questo mezzo legislativo che il comune disponeva l’acquisizione del bene, liquidando al proprietario l’indennizzo previsto dalla nuova norma.
La Corte di Cassazione così si pronunciava: “dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42 bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, sollevata, in riferimento agli artt. 42, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di Cassazione, sezione unite civili, con le ordinanze indicate in epigrafe”.
Ed ancora: “dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97 e 113 Cost., […]”.
Ed infine: “dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97 e 111, primo e secondo comma, 113 e 117, primo comma, Cost., dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda, con le ordinanze indicate in epigrafe”.
Nella seguente sentenza ivi riportata, si discute intorno le fasi che si susseguono nell’ambito di una qualsiasi procedura di espropriazione, e si afferma: “nel vigente quadro normativo (anche provinciale: artt. 6 e 8 della legge provinciale n. 6/1993) il decreto espropriativo e/o impositivo di una servitù devono intervenire nell’ambito di una legittima procedura di esproprio, dopo una dichiarazione di pubblica utilità e, soprattutto, prima della scadenza dei termini ivi fissati. Tuttavia, può ben dirsi il caso che, tra la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di esproprio (o di asservimento), si verifichino situazioni tali da rendere necessario l’accertamento della permanenza, nel bene, di quei caratteri che hanno determinato la dichiarazione di pubblica utilità, e dell’assenza di errori o sopravvenienze ostative all’esproprio (o all’asservimento).” (cfr. TAR Trento, sez. I, 24/04/2019, n. 73).
Questo il punto di riferimento da cui partire per comprendere le prossime massime.
Si analizza ora il primo aspetto problematico della vicenda legato dall’assenza di un valido titolo idoneo al trasferimento del diritto di proprietà, la quale assenza comporta l’illiceità della procedura messa in atto dall’Amministrazione, e si afferma: “laddove l’ente non abbia concluso il procedimento ablativo nel termine di validità della dichiarazione di pubblica utilità e dell’occupazione d’urgenza con l’adozione del decreto di esproprio o altro atto equiparato, e dunque, stante l’assenza di un titolo, valido ed efficace, idoneo al trasferimento della proprietà (decreto di esproprio, contratto, provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42 bis, d.P.R. n. 327 del 2001 e s.m.i.), deve essere affermata la permanenza della situazione di illiceità in cui versa il Comune per l’attuale occupazione dell’area de qua.” (cfr. TAR Napoli, sez. V, 12/02/2019, n. 774).
Ed ancora: ”laddove il Comune non abbia concluso il procedimento ablativo nel termine di validità della dichiarazione di pubblica utilità e dell’occupazione d’urgenza con l’adozione del decreto di esproprio o altro atto equiparato – e dunque stante l’assenza di un titolo valido ed efficace, idoneo al trasferimento della proprietà (decreto di esproprio, contratto, provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42 bis, d.P.R. n. 327 del 2001) – deve essere affermata la permanenza della situazione di illiceità in cui versa il Comune per l’attuale occupazione dell’area in questione.” (cfr. TAR Napoli, sez. V, 03/12/2018, n. 6939).
Dopo aver compreso la necessaria ed imprescindibile presenza del decreto di esproprio, vediamo la prima conseguenza insorgente nel momento in cui viene constatata, in via ufficiale ma non definitiva, l’assenza del suddetto decreto, si afferma: “in assenza del decreto di esproprio e di un provvedimento dell’Amministrazione in applicazione degli istituti di cui agli artt. 43 o 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001, non può dirsi realizzato l’effetto traslativo della proprietà in relazione alla porzione di terreno utilizzata dalla p. A. con la realizzazione dell’opera pubblica […]” (cfr. TAR Venezia, sez. I, 21/03/2018, n. 313), l’effetto traslativo della proprietà, dunque, non può prescindere dall’emanazione di un decreto di esproprio.
Conseguenze giuridiche e materiali dell’occupazione sine titulo
All’interno della prossima massima, a mio avviso occorre soffermarsi sugli aggettivi delineati dal Consiglio di Stato, con i quali il massimo organo giurisdizionale amministrativo delinea i comportamenti tenuti dalla Pubblica Amministrazione, ovvero “illecita” ed “abusiva”.
Questi sono aggettivi riferiti rispettivamente alla condotta e alla occupazione, e che lasciano presagire un’illegittimità generale della situazione in cui una qualsiasi Pubblica Amministrazione, sprovvista di decreto di esproprio, potrebbe versare; si afferma: “la condotta illecita tenuta dall’Amministrazione pubblica con l’occupazione abusiva di terreno altrui, quale che sia stata la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), non può comportare l’acquisizione del bene medesimo giacché essa configura un illecito permanente ex art. 2043 cod. civ.” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 21/03/2019, N. 1868).
Una volta analizzate le conseguenze giuridiche legate ad un esproprio in assenza dell’omonimo decreto, il Consiglio di Stato collega a tale situazione l’insorgenza, a carico della Pubblica Amministrazione interessata, di un obbligo a risarcire l’eventuale danno in favore del soggetto, legittimo proprietario del bene interessato alla procedura, sulla base del combinato disposto dell’art. 2043 c.c.; si afferma: “in caso di occupazione sine titulo, sussiste la responsabilità solidale per il risarcimento del danno tra l’Amministrazione committente dell’opera ed il soggetto al quale, unitamente alla realizzazione dell’opera, sia stata affidata, mediante delega, anche la gestione del procedimento espropriativo e, inoltre, l’emanazione del decreto di espropriazione.” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 26/02/2019, n. 1332).
Nell’ambito della stessa sentenza, poi, vi è una seconda conseguenza materiale prevista sempre a carico della Pubblica Amministrazione, ovvero la restituzione del bene; si afferma: “la realizzazione di un’opera pubblica su un fondo illegittimamente occupato non determina l’automatico trasferimento della proprietà del bene a favore della Amministrazione; l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non fa venire meno l’obbligo dell’Amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso.” (cfr. TAR Napoli, sez. V, 26/02/2019, n. 1090).
La sentenza 1090/2019, sez. V, del TAR Napoli, come appena visto, è decisiva al riguardo, in quanto riprende le conseguenze tipiche di un’espropriazione senza decreto omonimo riportate nella sentenza esaminata nei paragrafi iniziali di questo commento giurisprudenziale, ovvero la restituzione del bene ed il risarcimento del danno, quest’ultimo sarà oggetto di trattazione nel successivo paragrafo.
Sul risarcimento del danno ex art. 2043 cc
Affronterò la tematica del risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. affidandomi ad una sentenza di spicco in materia, la n. 1176 del 4 marzo 2019, TAR Napoli, sez. V.
Nella seguente massima, il TAR delimita la circoscrizione dell’obbligo al risarcimento del danno, il quale copre il periodo di tempo che intercorre tra l’acquisizione illecita fino al momento esatto in cui la Pubblica Amministrazione vada a regolarizzare la sua situazione con l’emanazione di un provvedimento di acquisizione ex art. 42 bis d.P.R. 327/01; si afferma: “il danno, da illegittima detenzione delle aree private da parte del Comune, non legittimamente espropriate, né altrimenti acquisite al patrimonio dell’ente, deve coprire il solo valore d’uso del bene, dal momento della sua illegittima occupazione (ovvero dalla scadenza del periodo di occupazione legittima) fino alla giuridica regolarizzazione dell’area o al suo legittimo acquisto, vuoi con il consenso della controparte mediante contratto, vuoi mediante l’adozione del provvedimento autoritativo di acquisizione sanante ex art. 42 bis, d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, confluendo peraltro in tale ultima ipotesi la posta risarcitoria, in senso lato, nell’indennizzo dovuto per l’acquisizione sanante, come evincibile dal disposto del comma 3 del citato art. 42 bis.” (cfr. TAR Napoli, sez. V, 04/03/2019, n. 1176).
In quest’ultima massima, invece, il TAR ha avuto modo di confermare nuovamente, semmai ce ne fosse bisogno, la potestà in capo alla Pubblica Amministrazione di optare per una tra due alternative per legittimare la sua posizione dinanzi al proprietario del bene interessato all’esproprio.
Le alternative in questione riguardano innanzitutto la restituzione del bene, ovvero l’emanazione del provvedimento di acquisizione ex art. 42 bis d.P.R. 327/01, fermo restando l’obbligo al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c.
Infine vale la pena ricordare che tale potestà trattasi di piena discrezionalità amministrativa, in quanto sarà solo ed esclusivamente la Pubblica Amministrazione a valutare gli interessi in gioco e, quindi, a preoccuparsi di bilanciarli; si afferma: “quando il proprietario a tutela del suo diritto chiede il risarcimento del danno (con la domanda di restituzione e di riduzione in pristino, ovvero per equivalente), il giudice amministrativo deve qualificare la domanda alla luce della disciplina sostanziale e processuale e rilevare quali siano le alternative poste dal legislatore, cui l’Amministrazione dovrà conformare il proprio operato. Ai sensi dell’art. 42 bis, T.U. Espropri e in assenza di un accordo, le uniche alternative possibili per l’Amministrazione, per adeguare lo stato di fatto a quello di diritto, sono dunque rappresentate dalla restituzione del bene al proprietario ovvero dall’emanazione del provvedimento di acquisizione. Resta, in ogni caso, impregiudicata l’area della discrezionalità amministrativa poiché, se è indubbio che l’Amministrazione per effetto della pronuncia del giudice deve ripristinare la legalità, essa resta titolare del potere di scelta, valutati gli interessi in conflitto, tra la restituzione del bene e l’acquisizione dello stesso ai sensi dell’art. 42 bis…” (cfr. TAR Napoli, sez. V, 04/03/2019, n. 1176).
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