Procedimento penale e disciplinare nel pubblico impiego

I rapporti tra il procedimento penale e il procedimento disciplinare nel pubblico impiego contrattualizzato.
Una violazione, posta in essere dal medesimo dipendente pubblico, può assumere una doppia valenza: può rappresentare un inadempimento dei doveri d’ufficio, quindi rilevare dal punto di vista disciplinare e, allo stesso tempo, integrare una ipotesi di reato, diventando quindi perseguibile sotto il profilo penale.
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Indice

1. L’evoluzione della materia


Originariamente, nei suddetti casi, vigeva la regola della c.d. “pregiudiziale penale” (cfr. art. 117 del d. P.R. n. 3/57 ripreso anche dalla contrattazione collettiva post privatizzazione) in virtù della quale la Pubblica Amministrazione non poteva avviare il procedimento disciplinare se per il fatto addebitato all’impiegato fosse stata avviata l’azione penale e, ove tale procedimento avesse già avuto inizio, avrebbe dovuto essere immediatamente sospeso
Il rapporto tra i due procedimenti è stato tuttavia innovato mediante l’introduzione – ad opera del d. lgs. 150/2009, c.d. riforma Brunetta – dell’art. 55 ter nel T.U. pubblico impiego (a sua volta novellato dal d. Lgs. 75/2017).
La disciplina post-riforma si ispira al principio dell’autonomia fra i giudizi, riassunta dalla formula per cui “Il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale” (art. 55 ter, comma 1 T.U. pubblico impiego).
La linea tracciata dal legislatore è, dunque, quella della intransigenza, per cui avuta conoscenza della notizia di reato, l’amministrazione può subito attivarsi sul piano disciplinare, in quanto la necessità di ripristinare la fiducia dei cittadini verso le istituzioni viene – in una logica di bilanciamento degli interessi – ritenuta prevalente rispetto alla presunzione di non colpevolezza del lavoratore imputato.
Diverse norme prevedono specifici obblighi di informazione e comunicazione in capo al pubblico ministero e all’autorità in giudiziaria nei confronti della Pubblica Amministrazione per fatti che vedono coinvolti i proprio dipendenti.  In tal senso dispongono: a) l’art. 129 disp. att. c.p.p. che impone al pubblico ministero di informare l’amministrazione di appartenenza circa l’esercizio dell’azione penale e l’eventuale sottoposizione a provvedimenti di arresto, fermo o custodia cautelare di un proprio dipendente; b) l’art. 133, c. 1- bis disp. att. c.p.p., impone all’autorità giudiziaria di comunicare all’ente di appartenenza il decreto che dispone il rinvio a giudizio del dipendente pubblico per alcuni reati contro la pubblica amministrazione; c) l’art. 154 ter che prevede che la cancelleria del giudice che ha pronunciato sentenza penale nei confronti di un lavoratore dipendente di un’amministrazione pubblica ne comunica il dispositivo all’amministrazione di appartenenza e, su richiesta di questa, trasmette copia integrale del provvedimento.
Una volta acquisita per tale via la conoscenza dei fatti, l’Ufficio  Procedimenti Disciplinari (UPD), con immediatezza e comunque non oltre trenta giorni decorrenti dalla predetta comunicazione, dovrà contestare l’addebito al dipendente e convocare l’interessato con un preavviso di almeno venti giorni, per l’audizione in contraddittorio a sua difesa.

2. Casi di sospensione del procedimento disciplinare in attesa del giudicato penale


Fatte le dovute premesse circa il quadro normativo di riferimento, passiamo ora a delineare i casi di sospensione del procedimento disciplinare in attesa del giudicato penale.
Da scelta obbligata, la sospensione del procedimento è divenuta un evento residuale, applicabile solo per le infrazioni di maggiore gravità (sospensione dal lavoro e dalla retribuzione superiore a dieci giorni) e al ricorrere di due specifiche condizioni:
–          particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato dal dipendente;
–          quando all’esito dell’istruttoria l’UPD non dispone di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione;
Al ricorrere di tali condizioni, il procedimento disciplinare può essere sospeso fino al termine di quello penale.
Dunque, come osservato dalla giurisprudenza di legittimità, “la sospensione del procedimento disciplinare in pendenza del procedimento penale […] costituisce facoltà discrezionale attribuita alla Pubblica Amministrazione che può esercitarla, fermo il principio della tendenziale autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, qualora per complessità degli accertamenti o per altre cause, non disponga degli elementi necessari per la definizione del procedimento” (Cass. Sez. Lavoro, sentenza del 13 maggio 2019, n. 12662). 


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3. Raccordo tra procedimento penale e procedimento disciplinare


L’art. 55 ter T.U. pubblico impiego, commi 2 e 3, disciplina il rapporto tra l’esito del procedimento disciplinare e quello penale, prevedendo a – certe condizioni – la possibilità di una modifica del primo alla luce di quanto emerso nel secondo e la relativa procedura.
Due sono le ipotesi contemplate dalla norma:  

  • ai sensi del comma 2, il procedimento disciplinare – non sospeso – si conclude con l’irrogazione di una sanzione e, successivamente, il procedimento penale viene definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che il dipendente medesimo non lo ha commesso. In questo caso, l’UPD, ad istanza di parte da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi dall’irrevocabilità della sentenza penale, riapre il procedimento disciplinare per “modificarne o confermarne l’atto conclusivo in relazione all’esito del giudizio penale”;
  • ai sensi del comma 3, il procedimento disciplinare si conclude con l’archiviazione ed il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna. In questo caso, l’UPD riapre il procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all’esito del giudizio penale. 

3.1. Gli effetti del giudicato penale sui procedimenti per responsabilità disciplinare


Le regole sopra menzionate indicano come l’efficacia del giudicato penale si atteggi diversamente sui procedimenti disciplinari a seconda che intervenga una pronuncia condanna o di assoluzione.  
In merito a quest’ultime, va subito detto che non sempre l’eventuale assoluzione del lavoratore comporta la successiva modifica delle sanzioni inflitte in sede disciplinare. Sicuramente ciò potrà avvenire nell’ipotesi in cui sia stata pronunciata una sentenza di assoluzione con formula piena (il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso) riguardi ai medesimi fatti contestati al lavoratore in sede disciplinare.
Viceversa, qualora l’assoluzione intervenga perché il fatto non costituisce reato, è ben possibile che lo stesso integri un illecito disciplinare, quindi, l’eventuale riapertura/prosecuzione del procedimento disciplinare permette all’UPD di confermare/applicare la sanzione.
Alle medesime conclusioni si deve giungere in tutti i casi di provvedimenti che dichiarano non doversi procedere per una causa estintiva del reato (es. prescrizione o amnistia).
Invero, le questioni più delicate si pongono quando il procedimento disciplinare – non sospeso – si sia concluso con un licenziamento per giusta causa e successivamente si formi un giudicato penale di assoluzione. Orbene, se a seguito della riapertura del procedimento disciplinare l’UPD provvede all’archiviazione, quali saranno gli effetti per il dipendente?
Alla domanda risponde la contrattazione collettiva dei diversi comparti in modo uniforme (cfr. art. 65, comma 3, Ccnl Funzioni Centrali; art. 62, comma 3, Ccnl Funzioni Locali; art. 69, comma 3, Ccnl Sanità; art. 16, comma 3, Ccnl Istruzione e Ricerca): “ il dipendente ha diritto dalla data della sentenza di assoluzione alla riammissione in servizio presso l’amministrazione, anche in soprannumero nella medesima sede o in altra, nella medesima qualifica e con decorrenza dell’anzianità posseduta all’atto del licenziamento. Analoga disciplina trova applicazione nel caso che l’assoluzione del dipendente consegua a sentenza pronunciata a seguito di processo di revisione”.
In merito all’aspetto economico, il dipendente ha ovviamente diritto a “tutti gli assegni che sarebbero stati corrisposti nel periodo di licenziamento, tenendo conto anche dell’eventuale periodo di sospensione antecedente, escluse le indennità comunque legate alla presenza in servizio ovvero alla prestazione di lavoro straordinario”.
Per quanto riguarda, invece, le pronunce di condanna, l’art. 653, comma 1- bis, attribuisce alla sentenza penale irrevocabile di condanna “efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso”.
Pertanto, la ricostruzione del “fatto” posto a fondamento dell’imputazione, così come effettuata in sede penale, non può essere mutata in sede disciplinare, di modo che, i fatti ivi descritti si intendono definitivamente accertati; ciò, ovviamente, non preclude che in sede disciplinare i medesimi fatti possano essere oggetto di differente valutazione, attesa la diversa natura delle due responsabilità.
In tal senso si è anche pronunciata anche la Suprema Corte, per cui “in tema di rapporti fra procedimento penale e procedimento disciplinare […] il giudicato penale non preclude in sede disciplinare una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale, essendo diversi i presupposti delle rispettive responsabilità, fermo restando il solo limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro materialità, operato da quest’ultimo, cosicché, se è inibito al giudice disciplinare di ricostruire l’episodio posto a fondamento dell’incolpazione in modo diverso da quello risultante dalla sentenza penale dibattimentale passata in giudicato, sussiste tuttavia piena libertà di valutare i medesimi accadimenti nell’ottica dell’illecito disciplinare” (cfr. Cass. SS. UU. Civili, Sentenza 9 luglio 2015, n. 14344).

3.2. Gli effetti delle sentenze di patteggiamento sui procedimenti per responsabilità disciplinare a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 150 del 2022 (c.d. riforma “Cartabia”)


Per quanto concerne la sentenze di patteggiamento, va invece detto che il testo dell’art. 445 c.p.p., comma 1 bis, è stato recentemente modificato dal d.lgs. n. 150 del 2022 (c.d. riforma “Cartabia”) che, nell’attuale formulazione prevede che “La sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile. Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”.
Sembrerebbe evidente la volontà del legislatore di ridurre, fino a neutralizzarli, gli effetti extra-penali della sentenza di patteggiamento: infatti prima l’inefficacia si estendeva ai “soli giudizi civili ed amministrativi” mentre ora si estende anche a quelli disciplinari e ricomprende espressamente anche quelli tributari e contabili.
Ne deriva quindi che la sentenza di patteggiamento è equiparabile ad una pronuncia di condanna esclusivamente nell’ambito penalistico sostanziale e processuale, mentre perde tale qualità al di fuori di esso.
Pertanto, l’organo disciplinare non può più, in caso di sentenza penale irrevocabile di patteggiamento, ritenere accertati i fatti costituenti l’illecito penale per il quale è stata comminata la condanna, neppure quando tali fatti sono i medesimi contestati in sede di apertura del procedimento disciplinare, bensì dovrà procedere ad un autonomo accertamento dei fatti contestati.
Ovviamente quanto detto assume una valenza meramente teorica poiché, non essendovi al momento pronunce giurisprudenziali, non è dato ancora comprendere la reale portata della riforma in termini pratici. Ad avviso di chi scrive, la prevedibile conseguenza è che – paradossalmente – il vero “processo” (con minori garanzie per il lavoratore) rischia di svolgersi innanzi all’UPD che, in presenza di un processo penale definito con un patteggiamento, dovrà procedere alla autonoma ricostruzione dei  fatti in sede disciplinare.
Da ultimo, è importante rilevare che la nuova norma non può essere considerata alla stregua di una norma penale di favore, ma solo come un norma attinente a effetti “non penali” si sentenze penali; pertanto, non avendo effetto retroattivo, sarà applicabile ai soli procedimenti disciplinari adottati dopo la sua entrata in vigore.

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Giuseppe Sabbatella

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