L’art. 1, comma 1 bis, della legge n. 241/90, come modificato dalla legge n. 15/2005, attribuisce alla Pubblica Amministrazione una generale capacità di diritto privato. La stessa, infatti, salvo che la legge disponga diversamente, agisce, nell’adottare atti di natura non autoritativa, secondo le norme del diritto privato. In passato era discusso che l’amministrazione potesse, per perseguire i propri fini, utilizzare lo strumento del diritto privato. Vigeva il principio in virtù del quale la P.A. dovesse operare, principalmente, attraverso l’esercizio del diritto pubblico e, solo eccezionalmente, mediante lo strumento privatistico. Il diritto privato aveva carattere meramente residuale e sussidiario.
Questa impostazione è stata superata per effetto di una rilettura delle norme del codice civile, dei principi costituzionali e di quelli di carattere comunitario. Oggi è pacifico che la P.A., per perseguire l’interesse pubblico, può scegliere lo strumento del contratto di diritto privato, avendo la stessa, al contempo, una doppia capacità, pubblicistica e privatistica. Prevale, pertanto, la tesi che riconosce piena e generale capacità di diritto privato all’amministrazione, confermata, da ultimo, dall’art. 30, comma 8, del d.lgs. n. 50/2016. In tema di recesso, anche l’art. 21 sexies della legge n. 241/90 conferma tale principio. Ciò non esclude che comunque ci siano dei limiti a questa generale capacità di diritto privato dell’amministrazione. Un limite è rappresentato dalla cura dell’interesse pubblico. La P.A., infatti, non può concludere negozi che appaiono incompatibili con lo scopo pubblico da essa perseguito.
La materia dei contratti pubblici è stata oggetto di una vivace evoluzione normativa, culminata, di recente, nell’adozione, con il d.lgs. n. 50/2016, del nuovo codice dei contratti pubblici. Forte è stata l’influenza del diritto dell’Unione Europea, con particolare riguardo alla c.d. Direttiva Unica Appalti, direttiva 2004/18/CE, e alla direttiva 2004/17/CE, volte principalmente alla tutela della libera concorrenza nel mercato e della par condicio tra i concorrenti. Quella dei contratti pubblici è una categoria ampia ed eterogenea, di cui gli appalti costituiscono la più importante species, ma certamente non l’unica. La nozione di contratto pubblico sembra, a prima vista, contraddittoria, poiché unisce il contratto, espressione di autonomia negoziale, all’aggettivo pubblico, che invoca, invece, il potere imperativo della P.A. capace di imporsi unilateralmente, senza bisogno del consenso. In realtà, la contraddizione è solo apparente perché, come detto, la P.A. gode di una doppia capacità, pubblicistica e privatistica, e, pertanto, quando decide di stipulare un contratto, essa è un soggetto di diritto privato. Da un punto di vista di analisi economica del diritto, l’uso dello strumento contrattuale appare, tra l’altro, la scelta più efficiente poiché consente un’ottimizzazione delle risorse economiche.
Il contratto pubblico, per essere definito come tale, deve essere imputabile soggettivamente ad una P.A., cioè deve essere stipulato da un soggetto che è qualificato dalla legge come P.A..
Il concetto di P.A. è un concetto elastico, mobile, che si modella diversamente, nei vari settori, a seconda che la legge ne preferisca una nozione estesa o ristretta. Nell’ambito dei contratti pubblici la normativa comunitaria adotta un concetto ampio di P.A.. Obbligati al rispetto della procedura di gara non sono quindi soltanto i soggetti formalmente pubblici, ma anche i soggetti formalmente privati che subiscono un significativo controllo pubblico e che rappresentano, pertanto, uno strumento utilizzabile dagli enti pubblici al fine di perseguire i propri fini. Se così non fosse, si rischierebbe una facile elusione dell’obbligo di evidenza pubblica.
È necessario, altresì, che tra le parti del contratto vi sia reale intersoggettività. Deve trattarsi di entità diverse, autonome e indipendenti, dal punto di vista sostanziale.
Le norme del d.lgs. n. 50/2016 definiscono il concetto di contratto non al fine di regolamentare il contratto in sé, ma la procedura che precede la stipula dello stesso, cioè il procedimento che la P.A. è tenuta ad indire e che deve rispettare. Il presupposto della disciplina dell’evidenza pubblica è che la P.A. decida di rivolgersi al mercato, ossia di esternalizzare. Si tratta di norme volte alla tutela della concorrenza, per consentire a tutti gli operatori del settore di competere a parità di condizioni, senza discriminazioni. Al contrario, quando la P.A. sceglie l’autoproduzione viene meno il presupposto concettuale, logico e giuridico, per l’indizione di una gara e quindi per la stipulazione di un contratto pubblico.
I contratti della P.A., dal punto di vista economico, si distinguono in contratti attivi e contratti passivi. La distinzione ha rilievo di disciplina. Soltanto i contratti passivi, ossia quelli mediante i quali la P.A. si procura beni e servizi e dai quali deriva pertanto una spesa per lo Stato, come gli appalti, sono disciplinati dal Codice dei contratti pubblici e devono essere preceduti dall’indizione di una gara.
La procedura di evidenza pubblica ha, sostanzialmente, lo scopo di rispondere a due interrogativi. In primo luogo consente alla P.A. di manifestare la volontà di addivenire alla stipula di un contratto, cioè di ricorre al mercato per procurarsi una determinata prestazione, e chiarisce perché si è scelto un contratto con quel determinato contenuto. In secondo luogo si occupa della scelta del contraente.
La procedura di evidenza pubblica, quanto alla struttura, si articola in diverse fasi, disciplinate minuziosamente dalla disciplina comunitaria e dal codice dei contratti pubblici. Il primo atto del procedimento è costituito dalla determinazione a contrarre, prevista dall’art. 32, comma 2, del nuovo codice. E’ l’atto con cui l’amministrazione esprime l’intento di addivenire alla stipula di un certo contratto, individuandone gli elementi essenziali, le ragioni della scelta e i criteri di selezione del contraente. Si pone in rapporto di strumentalità rispetto al contratto e si configura come atto meramente interno. Tradizionalmente si afferma, infatti, che la determina a contrarre non è impugnabile perché non idonea a ledere la sfera dei terzi. Tuttavia, vi sono delle eccezioni in cui la stessa determina un effetto lesivo che legittima un’impugnazione immediata. Ciò piò accadere, in primo luogo, laddove si stabilisca una procedura di scelta del contraente limitata a taluni operatori economici. La seconda ipotesi ricorre, invece, quando la determina a contrarre anticipi scelte che sono normalmente rimesse al bando, come ad esempio la scelta dei requisiti che devono avere gli operatori economici per accedere a quella determinata procedura. La delibera è revocabile ad nutum dalla P.A. fino alla pubblicazione del bando o all’inoltro delle lettere di invito. La sua mancanza determina l’illegittimità di tutti gli atti successivi per invalidità derivata. L’orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene che il contratto stipulato in assenza di una determina, o di una determina valida, o il contratto stipulato in difformità di una determina, mettono in luce un vizio procedimentale nella formazione della volontà, causa di annullabilità e deducibile solo dal soggetto incorso nel vizio, quindi soltanto dalla P.A..
Il secondo atto della procedura, di attuazione della delibera a contrarre, è il bando di gara, disciplinato oggi dall’art. 129 del codice. Si tratta di un atto amministrativo generale. Sul piano degli effetti è una lex specialis, volta a individuare le regole da seguire per una determinata procedura di gara sia per gli operatori economici, che per la P.A.. E’ un atto ampiamente discrezionale, che impone un autovincolo, non passibile di deroga nel corso della procedura. La P.A. che si avveda di un’illegittimità del bando non può disapplicarlo o modificarlo. L’unico modo per evitare che la gara si svolga in base ad un bando illegittimo è l’autotutela, quindi l’annullamento o la revoca. Se immediatamente lesivo, come accade nell’ipotesi di clausole escludenti, va impugnato subito, nel termine di 30 giorni, che decorre dalla data della pubblicazione. Viceversa, se contenente clausole solo potenzialmente lesive, andrà impugnato successivamente, insieme al provvedimento attuativo.
Il nuovo codice, superando la precedente impostazione che prevedeva un’aggiudicazione provvisoria, introduce la fase della proposta di aggiudicazione. Si tratta di un atto endoprocedimentale, privo di valenza decisoria e non autonomamente impugnabile. Non produce alcun effetto esterno immediatamente e certamente lesivo, poiché, in sede di aggiudicazione, la P.A. può decidere di disattendere la proposta. La proposta di aggiudicazione diviene efficace solo dopo la verifica del possesso dei requisiti necessari per la partecipazione alla gara. E’ previsto un meccanismo di silenzio–assenso in forza del quale, decorsi i termini stabiliti dalla stazione appaltante, o, in mancanza, del termine di 30 giorni, la proposta di aggiudicazione si intende comunque approvata. È previsto, infine, un controllo sul contratto, quale condizione necessaria per la sua efficacia. Il contratto non può, in ogni caso, essere stipulato prima di 35 giorni dall’invio dell’ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione, salvo eccezioni per ragioni di particolare urgenza.
La stipulazione del contratto costituisce, in sostanza, l’obiettivo della gara.
Nella fase che decorre dall’aggiudicazione alla stipula è discussa la posizione giuridica rivestita dall’aggiudicatario. L’impostazione prevalente sul punto, di recente confermata anche dal Consiglio di Stato, è quella che attribuisce natura pubblicistica a tale fase, in quanto la procedura di gara termina soltanto con la stipula, non prima. Ne deriva che il vincitore della gara non ha un diritto alla stipula, ma un mero interesse legittimo a che la P.A. eserciti legittimamente il suo potere discrezionale circa la scelta di stipulare o meno il contratto.
Il codice propone una ripartizione delle procedure di affidamento in procedure aperte, procedure ristrette e procedure negoziate. La scelta della modalità spetta, discrezionalmente, alla stazione appaltante. Tuttavia, il ricorso alle procedure negoziate ha carattere eccezionale.
Quanto ai criteri di aggiudicazione, questi sono i metodi che consentono l’individuazione dell’offerta aggiudicataria. Il codice dei contratti pubblici, agli artt. 95-97, prevede il criterio del prezzo più basso e il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Oggi il criterio del prezzo più basso è un criterio residuale. Viene accordata netta preferenza al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, addirittura imponendolo in alcuni casi. La nuova normativa, in esecuzione delle norme del Trattato e delle direttive comunitarie con finalità spiccatamente concorrenziale, non persegue più solo l’interesse pubblico al contenimento della spesa e al risparmio, ma persegue principalmente l’interesse ad un mercato proconcorrenziale, ad un mercato aperto. Ciò è coerente con la scelta di dare preferenza a criteri di tipo qualitativo e non meramente economici.
Per quanto concerne la giurisdizione, l’art. 133, comma 1, lett. e), c.p.a. affida alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative alla procedura di evidenza pubblica, ma anche alla risoluzione del contratto quando questa sia conseguenziale all’annullamento della gara.
Si è posto il problema della compatibilità tra la procedura di evidenza pubblica e il diritto di prelazione, e in particolare della validità di clausole statutarie che prevedono la prelazione a favore del socio privato, nel caso in cui la P.A. decida di cedere le proprie quote di partecipazione ad una società mista. Il caso mette in luce la costante tensione che vi è tra regole privatistiche e regole pubblicistiche quando si tratta di individuare la disciplina applicabile ai rapporti fra i soci di società a partecipazione pubblica. Si tratta di società che, da un lato, soggiacciono a tutte le disposizioni concernenti le procedure ad evidenza pubblica, in quanto pur sempre strumenti a finalità pubblicistiche, e, dall’altro, sono disciplinate dal diritto comune societario, anche in base a quanto disposto, da ultimo, dal d.lgs. n. 175/2016 che ne ha, addirittura, previsto l’assoggettamento alle procedure concorsuali.
La questione è stata di recente affrontata dal Consiglio di Stato[1].
Nel dettaglio, un comune aveva disposto, a seguito di una procedura di evidenza pubblica, la cessione delle proprie azioni in una società da esso controllata, insieme ad altri enti locali, e deputata alla prestazione del servizio di trasporto pubblico. All’esito della gara, i soci privati della società partecipata avevano esercitato il loro diritto di prelazione, previsto da una delibera comunale. Il comune, nonostante ciò, aveva deciso di cedere la partecipazione all’aggiudicatario della gara, non tenendo quindi in considerazione la prelazione, sulla base del fatto che i soci privati avevano intenzione di acquistare la quota al diverso corrispettivo definito a seguito di perizia prevista dallo statuto speciale.
Il Consiglio di Stato, appellandosi a ragioni di ordine pubblico, ha ritenuto nulla la clausola statutaria contenente il diritto di prelazione a favore dei soci privati, nonché tutti gli atti che vi avevano dato attuazione. Il Supremo Collegio amministrativo ha precisato, a riguardo, che la cessione di una partecipazione in una società mista, da parte di un’amministrazione pubblica, deve necessariamente avvenire tramite procedura di evidenza pubblica, che rimarrebbe esclusa laddove si consentisse l’operatività della clausola di prelazione.
In particolare, precisa che quanto disposto dal comma 9 dell’art. 5 del d.lgs. n 50/2016, ossia che “nei casi in cui le norme vigenti consentono la costituzione di società miste per la realizzazione e/o gestione di un’opera pubblica o di un servizio, la scelta privato avviene con procedure di evidenza pubblica”, non può considerarsi riferito soltanto al momento genetico della società mista, cioè a quello di costituzione della stessa, ma va esteso anche alle ipotesi, successive ed eventuali, di cessione di partecipazioni sociali detenute da un’amministrazione pubblica. Alla luce di ciò, la prelazione contrasterebbe con il principio di concorrenza e con il principio del necessario rispetto della par condicio tra i concorrenti nel mercato, oltre che con i principi della trasparenza, del buon andamento e dell’imparzialità della P.A..
Tale recente orientamento sembra, tuttavia, in contrapposizione con quanto statuito dall’art. 10, comma 2 del nuovo Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica di cui al d.lgs. n. 175/2016[2], non applicabile ratione temporis al caso in esame, a norma del quale è ammessa, in casi eccezionali, l’alienazione delle quote mediante trattativa privata ed è fatto salvo il diritto di prelazione eventualmente previsto dalla legge o dallo statuto.
[1] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 28/09/2016 n° 4014.
[2] “L’alienazione delle partecipazioni è effettuata nel rispetto dei principi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione. In casi eccezionali, a seguito di deliberazione motivata dell’organo competente ai sensi del comma 1, che da’ analiticamente atto della convenienza economica dell’operazione, con particolare riferimento alla congruità del prezzo di vendita, l’alienazione può essere effettuata mediante negoziazione diretta con un singolo acquirente. E’ fatto salvo il diritto di prelazione dei soci eventualmente previsto dalla legge o dallo statuto.”
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