"Quale modello sociale di convivenza tra autoctoni e immigrati?”
Relazione
di Domenico Insanguine
Presidente dell’Osservatorio Giuridico Internazionale sulla Migrazione (O.G.I.M.)
Presidente emerito dell’Ordine degli Avvocati di Trani
……………L’EVOLUZIONE DELLE DINAMICHE MIGRATORIE
Sempre sono esistiti gli esodi migratori e tanto è avvenuto per sfuggire soprattutto alle angherie di due nemici storici della stabilità di insediamento dei popoli: il primo è la persecuzione per motivi politici, religiosi o etnici e il secondo è la povertà.
Sino alla metà degli anni ’60 del secolo scorso, l’immigrazione nei Paesi occidentali non fu considerato un problema.
Il lungo periodo favorevole di congiuntura economica spingeva i Paesi ricchi ad essere particolarmente magnanimi nel consentire agli stranieri di varcare le loro frontiere.
Anzi, in molti di questi Paesi l’immigrazione massiccia nel proprio territorio di lavoratori stranieri era considerato un indice significativo di crescita economica e – quindi– un vanto.
Basti pensare che nel 1964 la nota rivista tedesca “Der Spiegel” ebbe a pubblicare nella sua copertina l’immagine di un immigrato portoghese, nel mentre riceveva in premio dalle autorità politiche tedesche una bicicletta per essere stato il milionesimo lavoratore “straniero” ad approdare in Germania.
Un accadimento siffatto ai nostri giorni susciterebbe incredulità ed – infatti – è impensabile che possa accadere.
Non è un caso che solo alla fine degli anni sessanta quando le frontiere, per le mutate condizioni economiche cominciarono a diventare sempre più chiuse, si cominciò a discettare di “immigrazione illegale” e a distinguere gli immigrati regolari da quelli irregolari.
Fu così che negli anni ’70 l’immigrazione dal Nord Africa e dal Sud America cominciò a diventare un fenomeno da esaminare anche in Paesi come l’Italia e la Spagna, che sino ad allora erano considerate prevalentemente terre di provenienza e non di accoglienza dei flussi migratori.
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In Italia per la verità nel ventennio 1970 – 1990 i flussi migratori di cittadini di provenienza non comunitaria non suscitarono preoccupazioni di sorta.
Fu con lo sbarco nel 1991 di migliaia di albanesi sulle coste della Puglia che il fenomeno si evidenziò in tutta la sua drammaticità.
In fuga da un Paese – l’Albania – in rivolta, e dopo essersi affrancati dall’oppressione di un regime duro e liberticida, e approdati in Italia, in un Paese ammirato e sognato come approdo ideale anche per la sua vicinanza, questi diseredati furono “rinchiusi” nello stadio comunale di Bari per lunghi giorni.
La risposta dell’Italia e degli altri principali Stati membri dell’U.E. a quell’episodio drammatico non fu di certo un’apertura alle istanze, alle aspettative e alla richiesta di solidarietà sociale di tanti diseredati, ma una chiusura dei propri confini ancora più accentuata rispetto al “prima”.
Per questa ragione, per scoraggiare i flussi migratori, in Italia come altrove vi fu da subito un serrato dibattito sulla necessità di frenare in qualche modo l’esodo massiccio dei migranti, dibattito che in breve tempo portò a rendere assai più difficile non solo gli ingressi ma sinanco il riconoscimento della cittadinanza a coloro che da tempo vi risiedevano e lavoravano.
Fu così che in molti Paesi si pose mano alla revisione delle norme sulla concessione della cittadinanza agli immigrati.
…………..SCELTA DEL MODELLO SOCIALE DI CONVIVENZA
Il conflitto tra autoctoni e immigrati purtroppo c’è sempre stato.
Euripide fa dire a Medea “Non è giusto disprezzare chiunque tu abbia veduto senza averne sperimentato l’animo chiaramente e senza averne ricevuto l’offesa. L’ospite deve adeguarsi alla città che lo ospita, ma non è lodabile che chi ci ospita ci tratti acerbamente per sua tracotanza o difetto di conoscenza”.
Medea è un’isolata, un’incompresa, ritenuta pericolosa perché non condivide i valori e le convenzioni della società che l’ospita, società che non conosce le varie sfaccettature della sua sapienza.
Medea è considerata particolarmente pericolosa proprio perché sapiente per cui ella dice ironicamente che un padre fornito di ragione non dovrebbe istruire fuori misura i propri figli, perché li espone all’odio e all’invidia dei suoi concittadini, e nel caso di Medea la sua cultura la rende particolarmente odiosa ai cittadini ateniesi in quanto barbara.
Anche se l’intero sistema mondiale ha registrato forti cambiamenti strutturali che hanno ridisegnato la geografia umana di diverse aree del nostro pianeta, ancora oggi, come nell’antica Grecia, ogni gruppo etnico appare ancora radicato sui propri usi, costumi, tradizioni e credi religiosi poco disponibili ad un modello esistenziale multidimensionale e questo perché manca la pro esistenza e cioè il saper essere per gli altri e decentrarsi sugli altri.
A proposito della poca disponibilità all’apertura verso gli altri Edgar Brightman, filosofo americano, personalista e spiritualista del Novecento, afferma che la nostra cultura, non riuscendo a cogliere la ragione profonda della crisi valoriale moderna ha fatto ricorso a fattori storici per spiegarla; dapprima il capitalismo, poi il marxismo, quindi la tecnocrazia, il centralismo burocratico, la pubblicità, il consumismo e i mass – media, mentre per Brightman la causa è da rinvenire nella mancanza di spiritualità perché, secondo lui, l’unica scienza che può guidarci verso i valori è l’etica che ha due linee portanti, l’uomo e la dignità della coscienza personale e il principio di apertura e dialogo tra tutti gli uomini.
Nonostante le dichiarazioni di principio degli organismi internazionali, oggi purtroppo sono ancora milioni le persone perseguitate, prive di libertà e mancanti del minimo vitale per sopravvivere e che in tutto il mondo chiedono che vengano riconosciuti i loro diritti.
E’ chiaro che nei nuovi contesti planetari complessi e in rapida evoluzione il modello di società democratica e di stato di diritto non possono essere ridotti a semplici dichiarazioni di principio.
Sfidati dai loro stessi valori occorre verificare la validità di legislazioni, indirizzi politici e interventi sociali e culturali per trovare modi e strumenti che garantiscano effettivamente l’esercizio dei diritti umani, quei diritti che sono inerenti alla nostra natura e senza i quali non si può vivere come essere umani.
Non ci si può muovere però solo nella direzione dell’assistenza e del controllo sociale, ma superando un’ottica paternalistica, occorre far sì che maturi una cittadinanza attiva differenziata, basata sul riconoscimento dei diritti politici, sociali e culturali uguali per tutti coloro che coabitano un territorio perchè si possa attuare una reale integrazione democratica se è vero che la vera libertà può essere solo quella di un uomo valorizzato e che ha la responsabilità di essere se stesso.
Oggi, quindi, agli inizi del terzo millennio, in una situazione di grande incertezza sul futuro e di crescenti attentati all’universo della persona occorre la proposta di una civiltà personalista e comunitaria fondata sulla riscoperta del senso e del valore della persona e della comunità, perché possa trionfare un nuovo umanesimo integrale, solidale, capace di orientare eticamente la globalizzazione imperante nel nostro tempo.
Fatta questa necessaria premessa, è sufficiente dare uno sguardo a ciò che sta accadendo in Europa per rendersi conto che sono entrati in crisi e per diverse ragioni i modelli sociali di convivenza sinora considerati prevalenti.
In Francia la ribellione degli immigrati, molti dei quali già da tempo cittadini francesi, ha evidenziato l’inadeguatezza se non il fallimento del modello dell’assimilazione tradizionalmente proposto e perseguito dalle autorità di quel Paese.
E’ difficile dire quali siano le cause di questo fallimento ma è indubbio che la maggior parte degli immigrati, anche quelli diventati cittadini francesi, hanno mostrato chiari segni di insofferenza per una emarginazione sociale vissuta in maniera drammatica.
Nel Regno Unito, d’altro canto, con grande dolore si è dovuto prendere atto che gli attentati terroristici di Londra del Luglio 2005 furono eseguiti principalmente da immigrati, ormai di seconda e di terza generazione e con cittadinanza britannica.
Il drammatico evento ha – quindi – provocato profonde riflessioni sull’adeguatezza del modello britannico, (assolutamente diverso da quello francese), del “multiculturalismo”, del rispetto – cioè – delle diverse identità culturali, religiose e linguistiche.
Anche qui è difficile discettare sulle ragioni di questa presunta inadeguatezza; in particolare per chi non vive in quella realtà sociale sarebbe arduo argomentare se quell’evento drammatico possa essere considerato significativo o meno di un disagio di una parte non trascurabile di immigrati, anche di quelli di seconda e terza generazione, diventati cittadini britannici, ad accettare valori e principi fondamentali imperanti in quelle società.
I due principali modelli di convivenza operanti nell’Europa occidentale vivono – quindi – un momento assai difficile.
Tanto ha portato sconcerto e incertezza anche in altri Paesi.
Ancora pochi sanno che in Olanda, da tempo considerato non a torto un punto di riferimento per i diritti civili, è entrata in vigore dal Marzo 2006 una legge che rischia di diventare un pretesto per chiudere del tutto le frontiere ai cittadini non comunitari.
Il Parlamento olandese ha approvato l’introduzione di un test sulla lingua e la cultura dei Paesi Bassi per i cittadini non occidentali che richiedano il permesso di soggiorno.
Secondo la legge approvata chi voglia trasferirsi in Olanda e non provenga dai Paesi dell’Unione Europea, dalla Svizzera, Norvegia, Islanda, Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Giappone deve sottoporsi in patria, presso i locali consolati o ambasciate olandesi, ad un esame della durata all’incirca di venti minuti e dal costo di 350 euro. Gli aspiranti immigrati devono dimostrare una buona padronanza dell’olandese, utile requisito per integrarsi, rispondendo oralmente ad alcuni quesiti in un test telefonico computerizzato. Se non supera la prova, l’aspirante immigrato potrà sottoporsi nuovamente al test quante volte voglia, ma versando ogni volta un’ulteriore quota di 350 euro. Il governo olandese non fornisce documenti sui quali prepararsi in vista della prova, ma invia a casa ai richiedenti una videocassetta sulle abitudini e i costumi olandesi e alcuni test di prova con cui esercitarsi.
La giunta di centro-destra del Comune di Rotterdam consiglia addirittura di utilizzare la lingua olandese il più possibile per strada e a casa, perché un simile codice potrebbe fornire agli alloctoni, ovvero agli immigrati che sono olandesi di adozione, delle utili indicazioni per capire quali comportamenti gli autoctoni si aspettino da loro.
L’atteggiamento di “chiusura” delle autorità olandesi è probabilmente la risposta alla commozione popolare seguita alla uccisione, per mano di un immigrato di origine marocchina, del regista olandese Theo Van Gogh, assassinato in strada per ritorsione per avere concepito e diretto un film documentario sui costumi e sulle abitudini sessuali delle donne islamiche, film ritenuto dall’omicida un’offesa al Corano e alla religione musulmana.
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Per quanto comprensibile lo sconcerto dell’opinione pubblica, di fronte a un evento così drammatico, la decisione del Parlamento olandese di richiedere la conoscenza dell’idioma, della cultura e dei costumi locali, di fatto determinerà la chiusura delle frontiere o, al meglio, consentirà solo un’immigrazione di élite.
Se – infatti – può essere considerato del tutto normale, per l’acquisizione della cittadinanza, la dimostrazione della conoscenza della lingua e dei fondamenti della cultura del Paese concedente, è assolutamente esagerato chiedere siffatta conoscenza per il rilascio di un temporaneo permesso di soggiorno.
L’Olanda – quindi – con l’approvazione della legge qui citata non ha scelto un modello sociale di convivenza, ma rifiuta qualsiasi modello, preferendo limitare se non vanificare del tutto il fenomeno migratorio nel suo territorio.
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Se questo è lo scenario in alcuni dei principali Paesi di accoglienza dei flussi migratori, sarebbe opportuno che gli sforzi di politici, sociologi, giuristi e di tutti quelli che possono contribuire all’identificazione di un modello sociale di convivenza, siano tesi a non ripetere gli errori commessi e a definire nuove scelte e ad intraprendere nuovi percorsi.
L’Italia è stato per molti decenni un Paese di emigrazione.
Il suo ruolo, quindi, nell’accoglienza dei flussi migratori è relativamente recente.
Per questa ragione l’Italia mai ha espresso un originale e prevalente modello di convivenza con gli immigrati.
Spesso, troppo spesso nel nostro Paese le discussioni su temi di grande importanza più che far intravedere soluzioni pragmatiche finiscono per alimentare polemiche stucchevoli tra i vari schieramenti politici su riflessioni o mere opinioni che non meriterebbero neppure di essere evocate.
Non sfugge a questa iattura neppure il delicato tema dell’immigrazione.
E’ sufficiente citare, per rendersene conto, il “chiasso” provocato a suo tempo dalle affermazioni rese dal sen. Marcello Pera, all’epoca Presidente del Senato.
A parere della seconda carica istituzionale dello Stato, si dovrebbe aborrire qualsivoglia mira di multiculturalismo, per evitare un pericolo di inquinamento della nostra cultura e delle nostre regole di vita.
Prendendo alla lettera cotali affermazioni, le stesse non dovrebbero essere prese in seria considerazione, nonostante l’autorevolezza di chi le ha esplicitate, per la semplice ragione che la nostra Costituzione impedisce di conculcare l’identità e la personalità non solo dei cittadini italiani ma anche degli stranieri (basti tener conto, a questo proposito, dell’interpretazione più volte conclamata dalla Corte Costituzionale degli artt. 2, 3, 10, 21 tanto per citare alcune delle norme applicabili anche agli immigrati).
Peraltro, ai sensi del terzo comma dell’art.3 della Legge Turco – Napolitano non modificato dalla Legge Bossi – Fini il documento programmatico che la Presidenza del Consiglio dei Ministri deve predisporre ogni tre anni, “delinea gli interventi pubblici volti a favorire le relazioni familiari, l’inserimento sociale e l’integrazione culturale degli stranieri, nel rispetto delle diversità e delle identità culturali delle persone purchè non confliggenti con l’ordinamento giuridico”.
Non è – quindi – possibile impedire agli stranieri, regolarmente soggiornanti in Italia, di affermare i principi e i valori della loro cultura di origine, sempre che questi non confliggano con le norme del nostro ordinamento giuridico e – a fortiori – con l’analogo diritto delle altre persone con le quali essi dovessero relazionarsi.
La sortita del Sen. Pera oltre che suscitare dubbi dal punto di vista dell’opportunità politica e dei toni utilizzati (il riferimento al rischio del “meticciato” appare uno sproposito), si distanzia da scelte legislative già esistenti e consolidate nel nostro ordinamento giuridico.
In Italia si scontrano almeno tre diverse concezioni:
a) la prima evoca il convincimento che gli immigrati debbano necessariamente adattarsi ed integrarsi con gli stili di vita e i principi delle società di accoglienza;
b) vi è un’altra concezione, che si contrappone alla prima e che propugna la convivenza tra le diverse identità culturali, religiose e linguistiche;
c) una terza concezione è quella che auspica non solo la convivenza trae le varie identità ma l’affermazione di un modello effettivamente interculturale.
Al di là delle singole concezioni, è un dato di fatto che l’immigrazione è ormai un evento della quotidianità e come tale spesso incontra da parte della gente l’indifferenza, che forse fa più male del pregiudizio e del razzismo.
Proprio per questo nel linguaggio corrente la dimensione individuale dell’immigrato sparisce nell’indistinzione anonima del gruppo che li massifica e li segrega come “altri”, come “diversi” dagli abitanti dei paesi che li ospitano.
Non si deve dimenticare infatti che gli immigrati non vivono bene la loro condizione di marginalità; trattenuti ai bordi del sistema, esclusi dalla partecipazione alla gestione e al controllo di scelte politiche, economiche, sociali e culturali, essi percepiscono spesso le relazioni umane come rapporti gerarchici, regolati da una rigida divisione tra chi ha e chi non ha, tra chi impone e seleziona e chi deve passivamente adeguarsi.
Si palesa la necessità di predisporre strutture idonee a:
– Conoscere, salvaguardare e valorizzare il diverso da sé per appartenenza sociale, etnica, linguistica, religiosa.
– Agevolare situazioni di positivo scambio esperienziale come concreto approccio comunicativo.
– Favorire esperienze cognitive e sociali che consentano di operare confronti pluridimensionali, di valorizzare le differenze culturali e le loro ripercussioni nell’ambito normativo e legislativo.
– Fornire un adeguato supporto istituzionale e culturale per favorire processi di emancipazione e cooperazione nel rispetto dell’universale bisogno di identità, nella salvaguardia dei diritti e valori dell’umanità.
Per ottenere questo, è necessario, ancor prima di modificare le norme del proprio ordinamento giuridico, fare opera di convincimento, di informazione e di formazione.
E’ necessario combattere ogni forma di razzismo e di fondamentalismo: l’uno e l’altro portano allo scontro e non all’incontro delle civiltà.
Il dialogo è indispensabile.
Dialogando tra loro, le persone imparano a conoscere e a conoscersi.
Da qui, dal nostro Mediterraneo può e deve partire una nuova epoca, un modello di convivenza che faccia vivere le diversità come un valore e un arricchimento assoluti, per maturare la capacità di esercizio attivo di cittadinanza interculturale.
………….INFLUENZA DEL FENOMENO MIGRATORIO PER UNA NUOVA IDEA DI “CITTADINANZA”
Fin dall’antichità, l’idea di cittadinanza evocava l’appartenenza ad una collettività: per gli antichi greci l’uomo era innanzitutto un polites, perché la cittadinanza era la forma totalizzante della convivenza. Secondo quanto afferma Aristotele nella Politica, il possesso della cittadinanza definiva il diritto a partecipare alle funzioni legislative e giudiziarie della città – stato; tale diritto era concesso in base alla nascita e ai legami di sangue soltanto ai membri liberi della comunità, mentre era assolutamente negato agli schiavi e assai di rado concesso agli stranieri. Per l’uomo greco al di fuori della polis non c’era che barbarie e inciviltà. Se alla base della comunità politica greca c’era la partecipazione alla vita religiosa, alla base della comunità sociale c’era la famiglia costruita sulla monogamia; è quindi comprensibile che Erodoto descrivesse a fosche tinte riti e costumi dei popoli stranieri, dipinti come promiscui e poligami.
Nell’antica Roma ogni cittadino godeva del diritto di voto, ma non tutti i cittadini erano eleggibili alle cariche pubbliche; il diritto civile era rivolto ai cives e non si applicava quindi allo straniero: questi, solo per fare un esempio, non poteva sposarsi secondo il rito del matrimonio romano e i suoi figli, di conseguenza non erano pari ai figli di cittadini romani. Solo con l’editto emesso da Caracalla nel 212 d.C. la cittadinanza romana fu concessa a tutti i sudditi dell’impero.
D’altra parte, la resistenza ad accettare in seno alla società chi ha modelli di vita diversi non è solo storia antica: un paese come la Norvegia aveva fin dal 1814 una delle Costituzioni più democratiche di Europa, ma concesse solo nel 1887 la libertà religiosa agli ebrei.
Nella stessa Grecia moderna, sino alla istituzione della Repubblica nel 1974 l’eredità dell’impero ottomano, che spingeva i suoi sudditi ad associarsi sulla base di criteri etnici e religiosi, si affiancava alla tradizione culturale greca, con il risultato che il presupposto della cittadinanza fosse considerato il ghénos (la popolazione su base etno – culturale) e non il démos(la popolazione su base territoriale). Conseguentemente, il diritto di cittadinanza era collegato all’idea di “etnihikofrosyni” o “mentalità nazionale”, che finiva per escludere le minoranze musulmane e macedoni-slave.
Il concetto moderno di cittadinanza si sviluppò a partire dalla Rivoluzione francese, ma fu lo studioso inglese Thomas Humphrey Marshall – nella sua opera “Citizenship and Social Class” – verso la metà del secolo scorso – ad affrontare per primo il tema della cittadinanza all’interno di un’approfondita riflessione sulla democrazia. Marshall distinse i diritti dell’individuo in tre gruppi: diritti civili, diritti politici e diritti sociali, in costante espansione nel corso del processo storico e tendenti all’eguaglianza dei cittadini.
Fino ad allora il concetto di cittadinanza era stato esaminato secondo una prospettiva prettamente filosofico-giuridica, e tradizionalmente denotava l’ascrizione di un soggetto ad uno Stato nazionale, per connessioni territoriali e per legami di parentela. Il concetto di cittadinanza serviva solamente per distinguere il <<cittadino>> dallo <<straniero>> e più che altro per distinguere i differenti diritti – doveri che venivano assegnati a due soggetti nei confronti di uno Stato sovrano. In <<Citizenship and Social Class>> l’accezione giuridica tradizionale di cittadinanza viene integrata e superata dall’ampio ventaglio di valenze politiche e sociologiche che ne fanno tuttora un concetto chiave per lo studio dei sistemi politici, oltre che un elemento necessario della definizione di democrazia.
Ancora oggi, il concetto di cittadinanza sembrerebbe rimandare semplicisticamente ad una distinzione tra un “dentro” e un “fuori” e alla dicotomia “cittadino / straniero”, ma i fenomeni migratori degli ultimi decenni inducono a riflessioni profonde.
Gli immigrati talvolta rinunciano ad identificarsi con il loro paese d’origine che li ha espulsi e perseguitati per il credo politico o la religione, o addirittura sono apolidi e quindi impossibilitati a sentirsi parte di un organismo statuale, perché forse privi persino di un solido punto di riferimento socioculturale. Giunti però nel paese di destinazione delle loro peregrinazioni, essi rischiano di sentirsi pura merce da sfruttare, in un luogo in cui non sono spesso riconosciuti come uguali, perché accettati come diversi, ma solo usati in qualità di lavoratori precari come utile forza lavoro disposta a lavorare in condizioni che un cittadino spesso rifiuterebbe. L’immigrazione, infatti, secondo Costantino Caldo, quasi sempre funge da ottimo ammortizzatore delle congiunture negative delle economie: gli immigrati costituirebbero una manodopera (spesso non qualificata e anche per questo ancora più sottopagata) di riserva, periodicamente utile nelle economie avanzate per abbassare il costo del lavoro nel gioco della domanda e dell’offerta. L’immigrato spesso può credere, allora, di essere ritenuto solo una pedina da spostare nel quadro economico e politico e non un soggetto da tutelare.
Lo status di cittadino è pertanto essenziale per non respingere ai margini della società l’immigrato e per non incoraggiare in lui il germogliare di sentimenti di odio, conseguenti alla sensazione di essere respinto e rifiutato. L’idea di cittadinanza ingloba quella dell’inclusione a pieno titolo nella comunità, quasi l’acquisizione della stessa fosse un’investitura e un riconoscimento della dignità di chi la possiede. Non a caso, il settecentesco “Catechismo rivoluzionario” veronese così recitava: “Il titolo di Cittadino è il solo titolo che conviene alla dignità di un uomo libero, perché questo nome esprime che esso è membro di un governo libero ed è parte della sovranità”. Il cittadino è in primo luogo infatti colui il quale gode di diritti politici, e poter partecipare alla vita democratica rende anche più deciso e motivato il rispetto di doveri e regole, se su di esse si è in qualche modo politicamente influito come opinione democratica. Quasi sempre gli immigrati non si sentono minimamente rappresentati, nemmeno al livello locale, nelle amministrazioni e nei governi, e sono costretti a convivere con molta difficoltà con leggi e doveri espressi in lingue diverse dalla loro, secondo culture diverse dalla loro, per persone diverse da loro.
In attesa della cittadinanza “sperata”, lo straniero lavora, risiede e quindi vive senza poter godere dello stesso status degli altri cittadini. In questa situazione si accordano agli immigrati i diritti di espressione e di lavoro, ma non quelli politici, e dunque si può dire che si toglie loro la possibilità di prendere parte “attivamente” alla vita democratica, di rappresentare i propri interessi, di formare l’opinione democratica in senso lato. Il tutto affermando l’obbligo che ad essi è imposto di contribuire con il loro lavoro e con i loro guadagni al benessere collettivo. Gli immigrati sono sottoposti a leggi e regole che non hanno avuto modo di contribuire – direttamente o indirettamente tramite propri rappresentanti – a discutere e a far approvare.
Sta di fatto che l’immigrazione, prima ancora che essere una soluzione dei problemi dei paesi di destinazione, è essa stessa un dato del problema. In un quadro di considerazioni più ampio, infatti, è indispensabile tener conto delle innumerevoli difficoltà che emergono dal fenomeno immigratorio, come quelle di ordine politico, vista la portata delle manifestazioni di intolleranza xenofoba che si stanno sviluppando in numerosi paesi europei. Ma è senza dubbio sotto il profilo sociale che si hanno (ed avranno in futuro) i problemi più delicati. Come ha osservato Bonifazi, <<non si tratta semplicemente di accogliere persone disposte ed interessate ad integrarsi nella società di arrivo facendo propri comportamenti e valori: si tratta, invece, di un confronto – e di uno scontro – con culture anche molto diverse in cui mettere in discussione anche aspetti molto radicati della nostra società>>.
Il concetto stesso di “cittadinanza” va – quindi – attentamente rivalutato, per comprendere la necessità della modifica effettiva dello status giuridico ad esso legato.
Nell’epoca in cui viviamo, anche le zone meno sviluppate e ricche del globo sono interconnesse e intersecate con l’Occidente per effetto di una globalizzazione assoluta nell’economia e nel mondo della comunicazione.
Proprio per questo, in Paesi in cui oramai è possibile avere la doppia cittadinanza, stanno fiorendo in questi anni ragionevoli proposte consone alle società multietniche attuali, che evidenziano l’obsolescenza del tradizionale concetto di cittadinanza. C’è chi addirittura sostiene l’auspicabilità dell’approdo ad una forma di cittadinanza multipla.
…………..LO STATUS DI “PRECITTADINO”
L’Unione Europea dovrebbe accedere a schemi normativi nuovi che possano privilegiare in tutti i Paesi membri l’uniformità del trattamento riservato agli immigrati.
L’unica strada da percorrere è quella di concedere ai cittadini di Paesi terzi, dopo un periodo di permanenza in uno dei Paesi membri, diritti assimilabili se non sovrapponibili a quelli attribuiti ai cittadini dell’U.E, viatico – questo status – per il futuro riconoscimento, su richiesta, della cittadinanza nazionale.
Così facendo si avrebbe una normativa certa: tutti i soggiornanti di lungo periodo parteciperebbero anche alla vita pubblica dei Paesi in cui soggiornano, con il riconoscimento del suffragio elettorale, attivo e passivo, quanto meno nelle municipali.
Questo nuovo status che si potrebbe definire di precittadinanza con un’espressione più semplice e più facilmente comunicabile di quella utilizzata dalla direttiva comunitaria 2003/109/CE di soggiornante di lungo periodo, determinerebbe l’abbandono di univoche visioni dell’immigrazione, vista ora in chiave di funzionalismo economico, ora in chiave di funzionalismo culturale o religioso.
Il noto scrittore svizzero Max Frisch ebbe a ricordare ai suoi connazionali “Cercavamo braccia, sono arrivate persone”, quasi a mo’ di ammonimento di fronte a quelli che gli svizzeri hanno ritenuto per molto tempo solo degli “utili invasori”, nel senso appunto dell’utilità economica connessa al fenomeno migratorio nella ricca Svizzera.
Siffatta consapevolezza deve indurre al riconoscimento in favore degli immigrati residenti nei paesi membri, in un tempo ragionevole (al massimo cinque anni, ma anche meno), di diritti che possano consentire agli stessi non solo la regolarità del contratto di lavoro e l’accesso alla sanità ma anche di usufruire degli altri servizi pubblici esercitando il diritto di voto quantomeno nelle elezioni amministrative per dare a loro il modo di partecipare, con la restante comunità dei residenti, alla scelta di chi dovrà rappresentarli in seno alla Comunità della quale fanno parte.
Lo status di precittadino limiterebbe anche il rischio dell’emarginazione lavorativa, evitando che si possa pensare ai maschi immigrati esclusivamente in chiave di occupazione operaia e alle donne immigrate solo in veste di collaboratrici domestiche o badanti.
Siffatto status, modificando la categoria tradizionale della cittadinanza e ritagliandosi un nuovo campo di significati e diritti affrancherebbe l’immigrato dalla sensazione di essere uno strumento d’utilità attraverso l’acquisizione di una condizione intermedia che appunto vada oltre il binomio classico cittadino / straniero. Concettualmente, tale status potrebbe ricordare la condizione dei meteci greci, eliminando però le scorie di discriminazione che ancora serpeggiavano nella polis antica: i meteci difatti godevano di una serie di diritti, tra i quali quello relativo all’acquisto di beni mobili, e potevano raggiungere un notevole benessere praticando l’artigianato e il commercio. Se da un parte in fatti occorre recuperare la concezione giusnaturalistica che postulava l’esistenza di diritti connaturati all’uomo, per ricordare come questo processo di allargamento dei diritti non possa assumere l’aspetto paternalistico della concessione benevola e pietosa, dall’altra si deve tenere presente che tra i diritti sociali che gli Stati dovrebbero garantire ai cittadini c’è “una gamma che va da un minimo di benessere e di sicurezza economica fino al diritto a partecipare pienamente al retaggio sociale” (così T.H. Marshall, “Cittadinanza e stato sociale”). Lo stato di precittadinanza potrebbe appunto eliminare alcuni elementi di precarietà, in modo tale da consentire all’immigrato di radicarsi più profondamente nel tessuto sociale e lavorativo e abbreviare anche i tempi di ricongiungimento famigliare. Una volta regolarizzata la propria presenza sul territorio, sancita l’appartenenza ad esso e stabilizzata la situazione economica, il trasferimento dell’intera famiglia nel luogo d’immigrazione è un importante fattore di sicurezza e di prevenzione dai miraggi della delinquenza, come ha sostenuto anche la Caritas nel XII rapporto sull’immigrazione. La ricostituzione del nucleo famigliare strappa il singolo all’indeterminatezza di una solitudine pesante, che fa percepire come estranea la terrà d’immigrazione; l’ordine stesso della società inoltre presuppone la valorizzazione dell’appartenenza e delle pratiche di inclusione, anche simboliche, dell’individuo nella collettività. Anche la stabilità e la pace sociale traggono giovamento da una distribuzione diversa dei diritti, che dimostri atteggiamenti lontani da qualunque “cittadinismo” geloso e retrivo, che rischia talvolta anche di macchiare di “occidentalismo” la logica dei diritti. Secondo G.B. Sgritta, il cittadinismo sarebbe infatti la “difesa esasperata dei propri privilegi, delle proprie prerogative, dei propri interessi e dei propri diritti di tutela” e quindi “manifesta intolleranza verso coloro che vengono percepiti come una permanente e incomprensibile minaccia verso queste prerogative”. (“Politica sociale e cittadinanza”, in P. Donati, “Fondamenti di politica sociale”, Roma ).
Un nuovo concetto di civitas è utile alla prefigurazione di un assetto sociale non assolutamente altro rispetto a quello attuale, ma iscritto nello stesso presente come futuro realizzabile attraverso un cambiamento progettabile, richiesto a gran voce dalla stessa società multirazziale e multietnica in formazione e in azione.
Secondo la stessa evoluzione storica, è ora di riconoscere agli immigrati quelli che potrebbero rientrare nei diritti che Norberto Bobbio ha definito “di quarta generazione”, ovvero i diritti della fasce sociali tuttora marginalizzate. Secondo T.H. Marshall solo la cittadinanza sancisce la piena appartenenza ad una comunità perchè “l’uomo è, in quanto appartiene a qualcosa”. L’obiettivo è, quindi, per dirla con Giovanna Zincone, “tornare a Marshall e fare un passo avanti”.
Domenico Insanguine
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