Processo del lavoro e prove atipiche

Redazione 16/02/21
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Processo del lavoro: l’utilizzo delle prove atipiche

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Occorre quindi soffermarsi sul rito del lavoro, caratterizzato dall’ampiezza dei poteri istruttori d’ufficio del giudice, e verificare se tali poteri possono incidere anche sull’ammissibilità e sull’efficacia probatoria delle c.d. prove atipiche.
Il giudice del lavoro, ai sensi dell’art. 421 c.p.c., secondo comma, “Può altresì disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dai limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni e osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti. Si osserva la disposizione del comma sesto dell’art. 420”.
In ordine al significato di tale disposizione, è principio pacifico che i poteri istruttori d’ufficio attribuiti al giudice del lavoro dall’art. 421 c.p.c. – nonché, in sede di gravame dall’art. 437 c.p.c. – non possono mai essere esercitati in modo arbitrario59. Ne consegue che il giudice ha l’obbligo di esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all’uso dei poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritenga, invece, di non farvi ricorso ed il loro esercizio, o mancato esercizio, è suscettibile di sindacato in sede di legittimità per violazione di legge ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c.60.
La Cassazione ha inoltre chiarito, per quanto ai fini della presente trattazione di peculiare interesse, che nel rispetto del principio dispositivo i poteri istruttori non possono in ogni caso essere esercitati sulla base del sapere privato del giudice, con riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisiti al processo in modo rituale, dandosi ingresso alle c.d. prove atipiche, ovvero ammettendosi una prova contro la volontà delle parti di non servirsi di detta prova, o, infine, in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia, ammettendo d’ufficio una prova diretta a sminuirne l’efficacia e la portata.

Le prove indispensabili ai fini della decisione

L’esercizio dei poteri istruttori “anche fuori dai limiti stabiliti dal codice civile” e la possibilità di ammettere d’ufficio mezzi di prova ritenuti “indispensabili ai fini della decisione della causa” ai sensi dell’art. 437 c.p.c. non consente, pertanto, di ammettere prove non disciplinate dalla legge, di assumerle in giudizio secondo modalità diverse da quelle previste dalla disciplina generale, né di desumerne risultati secondo criteri differenti da quelli ordinari.
Ne consegue che un limite all’esercizio dei poteri d’ufficio è rappresentato dall’impossibilità di intendere l’attribuzione al giudice di poteri istruttori ufficiosi quale apertura alle c.d. prove atipiche e ancor più alle c.d. prove illecite.
Limite, peraltro, che la giurisprudenza di merito ha ritenuto sussistente anche nell’ambito del procedimento ex art. 1, commi 47 ss., l. 92/2012. Con riferimento al c.d. rito Fornero, è stato, infatti, osservato che l’istruttoria deformalizzata prevista dalla legge non è decisiva al fine di qualificare la natura della cognizione, dovendo anche nella prima fase il giudice approdare al grado di convincimento tipico della cognizione piena, con la conseguenza che una prova c.d. atipica, quale una testimonianza scritta, peraltro de relato, circa i fatti determinanti il licenziamento, non può supportare la pronuncia favorevole alla parte onerata della prova.
Deve, in conclusione, osservarsi che malgrado si registri una generale apertura della giurisprudenza di legittimità alla categoria delle prove atipiche, le ipotesi in cui il legislatore ha, eccezionalmente, ammesso l’utilizzabilità di mezzi di prova “anche fuori dai limiti stabiliti dal codice civile”, tra cui si annovera, oltre l’art. 421, secondo comma, c.p.c., anche l’art. 634 c.p.c. (richiamato dall’art. 186-ter c.p.c.), sono state oggetto di un’interpretazione restrittiva che appare più conforme alla tesi che nega l’ammissibilità delle prove in questione, come si è detto del tutto minoritaria nella giurisprudenza di legittimità.

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