Lo stabilimento siderurgico ex-Ilva di Taranto, il più grande d’Europa, costituisce un pericolo per la salute dei cittadini di Taranto e pertanto la magistratura penale ha avviato numerosi procedimenti penali a carico dei vertici dell’azienda e di amministratori pubblici culminati nel procedimento definito “ambiente svenduto”, nel quale in primo grado sono stati condannati ventisei imputati, tra cui, oltre ai vertici aziendali, il Presidente della Regione Puglia, il Dirigente dell’ARPA Puglia, il Presidente ed un Assessore provinciale. Ma come un fulmine a ciel sereno in data 13 settembre 2024 la Corte d’assise d’appello di Taranto ha accolto le richieste dei difensori di trasferire il procedimento penale a Potenza provocando forti proteste da parte delle associazioni ambientaliste e del Sindaco di Taranto e determinando il rischio di prescrizione dei reati contestati. Alla vicenda abbiamo anche dedicato l’articolo: Caso Ilva: CGUE rimette la valutazione sulla pericolosità per salute e ambiente
Indice
1. I procedimenti dinanzi alle Corti europee e il processo “ambiente svenduto” sull’Ilva
Lo stabilimento di Taranto, il più grande d’Europa, determina un impatto sull’ambiente e sulla salute dei cittadini di Taranto e di altri comuni limitrofi, oggetto di numerosi studi scientifici, che hanno riscontrato un elevato tasso di mortalità per tumori. La stessa ARPA, a seguito di approfonditi accertamenti, già nel 2016 aveva segnalato che il livello di diossine nel quartiere Tamburi, dove insiste lo stabilimento siderurgico, era superiore a quello autorizzato. Nei successivi rapporti, basati anche sul neo istituito registro dei tumori di Taranto, veniva sottolineato il perdurare della situazione di criticità sanitaria, soprattutto nella zona di Taranto, accertando il nesso di causalità tra il pregiudizio sanitario e le emissioni industriali.
La legge della Regione Puglia n.44/2008 aveva già fissato per la prima volta i limiti entro i quali l’emissione di diossine era autorizzata nell’ambito di attività industriali; tuttavia i tagli alle emissioni venivano prorogati da successivi provvedimenti legislativi.
Nel frattempo, l’ARPA registrava la contaminazione di alcuni lotti di carne animale introdotto nella catena alimentare umana, con il divieto di pascolo e l’abbattimento di numerosi capi di bestiame in un raggio di venti km dallo stabilimento.
Nel 2011 il Ministero dell’Ambiente, poi, concedeva all’ex Ilva una prima Autorizzazione Ambientale Integrata (AIA), fissando alcune condizioni per il controllo dell’inquinamento, poi modificate con una seconda autorizzazione che prevedeva l’obbligo di inviare un rapporto trimestrale relativo all’applicazione delle misure necessarie per il miglioramento dell’impatto ambientale, misure prorogate sino ai giorni nostri con diverse prescrizioni.
Con riferimento ai procedimenti dinanzi alla CEDU, con due ricorsi n. 54264/15 e n. 4642/17 presentati da cittadini tarantini, è stata invocata l’applicazione degli artt. 2 e 8 della Convenzione, sostenendo che lo Stato italiano non aveva adottato le misure giuridiche e regolamentari idonee a proteggere la salute e l’ambiente dei cittadini della città jonica e di avere omesso le informazioni sull’inquinamento e sui rischi della salute ad esso connessi. La Corte ha esaminato i gravami unicamente sotto il profilo dell’art. 8 che tutela il rispetto della vita privata.
Di conseguenza, alla luce degli studi scientifici non contestati dalle parti e della procedura di infrazione intrapresa dagli organi dell’UE, la Corte ha accertato la sussistenza di una situazione di inquinamento ambientale, idonea a mettere in pericolo la salute dei ricorrenti e, più in generale, di quella della popolazione residente nella zona.
Pertanto, con sentenza del 24 gennaio 2019 la prima sezione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha deciso in ordine al ricorso presentato da centottanta cittadini di Taranto che avevano lamentato la violazione dei propri diritti fondamentali derivante dagli effetti delle emissioni dello stabilimento siderurgico “Acciaierie di Italia”, già Arcelor Mittal (ex Ilva), sulla salute e sull’ambiente.
La Corte, ritenendo di non dover applicare nella fattispecie la procedura della “sentenza pilota” (adozione di misure legislative amministrative necessarie per far cessare le attività che sono alle origini delle violazioni ed eliminare le conseguenze derivanti da quest’ultime), ha assegnato al Comitato dei Ministri il compito di indicare al Governo italiano le misure che in termini pratici, devono essere adottate per l’esecuzione della sentenza.
Si sottolinea altresì che, con sentenza definitiva del 5 maggio 2022, pronunciata sul ricorso n. 4642/17 Ardimento e altri c Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accertato il persistere delle violazioni dell’art. 8 (“Diritto al rispetto della vita privata e familiare”) e dell’art. 13 (“Diritto a un rimedio effettivo”) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) – già rilevate nella citata sentenza Cordella e altri c. Italia e Lina Ambrogi Melle e altri c. Italia del 24 gennaio 2019 di cui sopra – in quanto le autorità italiane hanno omesso e continuano ad omettere l’adozione di misure necessarie, rispettivamente, a tutelare la salute dei cittadini dagli effetti pregiudizievoli delle emissioni nocive del siderurgico e a predisporre rimedi effettivi per ottenere la bonifica dell’area coinvolta dall’inquinamento.
La Corte ha infine reiterato l’urgenza e la primaria importanza di adottare le misure di risanamento e di esecuzione del piano ambientale approvate dalle autorità nazionali al fine di salvaguardare l’ambiente e la salute dei cittadini.
Alle stesse conclusioni è giunta la Corte europea in altre tre sentenze pubblicate nella medesima data relative ai ricorsi n. 37277/16 A.A. e altri vs Italia, n. 48820/19Briganti e altri vs Italia e n. 45242/17Perelli e altri vs Italia.
Tenuto conto, quindi, della giurisprudenza in materia, la Corte ritiene che il diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e il loro diritto a un ricorso effettivo, protetti dai citati art. 8 e 13 della Convenzione siano stati violati nel caso di specie.
Le pronunce rese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo su questo versante rivestono una valenza significativa in una prospettiva multilivello di tutela, se non altro perché consentono di enfatizzare ancora di più la centralità del rispetto dell’ambiente e la conseguente necessità di adottare protocolli operativi sempre più efficienti volti a tutelarne l’integrità fisica dei cittadini. In questo delicato contesto andrebbero adottate non solo misure di carattere riparatorio o ripristinatorio, bensì soluzioni di stampo preventivo, attraverso indagini e misure sempre più accurate, in grado di scongiurare lo sfruttamento irrazionale di risorse ambientaliscarsee compromesse, così da garantire al tempo stesso la tutela del valore primario della salute.[1]
Si rileva, inoltre, che lo scorso 25 giugno, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea(CGUE) si è pronunciata in materia di tutela dell’ambiente e della salute umana, fornendo la propria interpretazione della Direttiva 2010/75/UE relativa alle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento).
Si tratta di una sentenza che rappresenta una pietra miliare nel definire la stretta connessione che sussiste tra la protezione dell’ambiente e la garanzia della salute dei cittadini, ma che assume altresì rilevanza per il nostro Paese, poiché emessa con riferimento alle vicende riguardanti l’impianto siderurgico dell’ex Ilva di Taranto.
La pronuncia della Corte di Giustizia dell’Ue scaturisce da un rinvio pregiudiziale presentato dal Tribunale di Milano il 16 settembre 2023. Tale strumento – previsto dall’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) – consente ai giudici nazionali di rivolgersi alla Corte di Giustizia nelle ipotesi in cui sorgano dubbi sull’interpretazione dei Trattati o sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle Istituzioni.
In particolare, i Giudici di Lussemburgo hanno rilevato l’incompatibilità delle continue proroghe concesse al gestore di un’installazione per conformarsi alle misure di protezione dell’ambiente e della salute umana, qualora sussistano pericoli gravi e rilevanti; ipotesi, quest’ultima, con riferimento alla quale la Direttiva 2010/75/UE esige la sospensione dell’attività.
Parallelamente venivano instaurati numerosi procedimenti penali nei confronti di amministratori pubblici e dirigenti dell’ex Ilva, ai quali venivano contestate, tra le altre, le condotte di “catastrofe ecologica”, “avvelenamento di sostanze alimentari”, “omessa prevenzione di incidenti sul luogo di lavoro”, “danneggiamento di beni pubblici”, “emissione di sostanze inquinanti”,“inquinamento atmosferico”e, soprattutto“disastro ambientale”, per il quale è in corso il procedimento definito “ambiente svenduto”, conclusosi in primo grado con la condanna, tra gli altri, dei vertici industriali, del Presidente della Regione Puglia, del Dirigente dell’ARPA Puglia e del presidente e di un Assessore provinciale pro tempore.[2]
Già nel 2012 il GIP di Taranto, sulla base di due perizie relative all’emissione di sostanze nocive che avrebbero causato malattie e decessi nel territorio di Taranto e delle consulenze tecniche di esperti chimici ed epidemiologici, aveva disposto il sequestro, senza facoltà d’uso, di parchi minerari, cokerie, area agglomerazione, area altiforni, acciaierie e materiali ferrosi.
Ne seguiva una normativa d’urgenza che ha consentito la prosecuzione dell’attività fino ai giorni nostri con l’emissione di numerosi decreti legge e con decisioni altalenanti della Corte Costituzionale.
Dopo il rinvio a giudizio, è seguito un processo con 33 capi di imputazione, 332 udienze, 200 ordinanze per dimostrare la cattiva gestione dello stabilimento siderurgico da parte dei vertici di ILVA S.p.A, Riva Fire S.p.A. e Riva Forni Elettrici S.p.A. e degli amministratori locali avvicendatisi negli anni, conclusosi con sentenza di condanna del 31 maggio 2021. Una gestione illegale consistita, secondo i giudici, tra l’altro, nell’omesso adeguamento ai sistemi minimi di ambientalizzazione e sicurezza per ovviare alle problematiche di cui avevano piena consapevolezza sin dal 1995, data di realizzazione della consulenza Montgomery-Watson, che il Gruppo aveva commissionato in occasione dell’acquisizione dello stabilimento, e hanno messo così in pericolo la vita e l’integrità fisica dei lavoratori dello stesso stabilimento e la vita e l’integrità fisica dei cittadini di Taranto e dei Comuni limitrofi.[3]
In primo grado sono state inflitte 26 condanne (tra dirigenti della fabbrica, manager e politici) ed è stata disposta la confisca non solo degli impianti dell’area a caldo, ma anche la confisca per equivalente dell’illecito profitto nei confronti delle tre società Ilva spa, Riva fire e Riva forni elettrici per una somma di 2,1 miliardi.[4]
Nella sentenza appaiono degne di menzione le condanne rispettivamente a 22 anni e 20 anni di reclusione per Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, che rispondevano di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Nelle more del processo era infatti deceduto il “patron” Emilio Riva.
Invece, a tre anni e sei mesi di reclusione (di 5 anni la richiesta dell’accusa) è stato condannato l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, a cui viene contestata la concussione aggravata in concorso nei confronti dell’allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, condannato a due anni per favoreggiamento. Invece, l’ex prefetto Bruno Ferrante[5], per il quale la pubblica accusa aveva chiesto 17 anni di reclusione, è stato assolto; tale decisione non è stata annullata con la successiva sentenza della Corte di Assise di Appello in quanto passata in giudicato.
I giudici definiscono “disastrosa” la gestione dei fratelli Riva, ma allargano il quadro anche al contesto in cui Ilva ha agito e usano il termine “agghiacciante”. Le scelte dei vertici Ilva avrebbero messo “in pericolo concreto la vita e la integrità fisica dei lavoratori dello stesso stabilimento” e quella “dei cittadini di Taranto”.
Il collegio giudicante parla di “danni alla vita e all’integrità fisica che, purtroppo, in molti casi si sono concretizzati: dagli omicidi colposi, alla mortalità interna ed esterna per tumori, alla presenza di diossina nel latte materno. Modalità gestionali che sono andate molto oltre quelle meramente industriali, coinvolgendo a vari livelli tutte le autorità, locali e non, investite di poteri autorizzatori e/o di controllo nei confronti dello stabilimento stesso”.
La frase pronunciata da Fabio Riva “Due tumori in più l’anno… una min***“, intercettata durante una conversazione telefonica del giugno 2010, secondo la Corte “riassume meglio di ogni altro elemento di prova la volontarietà della condotta delittuosa posta in essere dagli imputati, e anzi la consapevolezza degli effetti dell’inquinamento sulla salute della popolazione tarantina”.
I giudici parlano anche di “connivenze che a vari livelli sono emerse e solo in parte risultano giudizialmente accertate”.
Viene, anche, usato il concetto di “razzismo ambientale. Zone economicamente arretrate sono individuate come luoghi ove realizzare grandi impianti industriali o altre fonti inquinanti, senza che le istituzioni preposte ai controlli esercitino efficacemente le proprie prerogative e, in ultima analisi, senza alcuna considerazione della popolazione residente, costretta a vivere in un ambiente gravemente compromesso e esposta a maggiori rischi per la salute”.
Per completezza di esposizione si rileva che, a dodici anni dal luglio del 2012 in cui deflagrò la citata indagine “Ambiente svenduto”, in data 3 luglio 2024 è stata avviato un altro rilevante procedimento giudiziario. Oggetto dell’indagine è la gestione “Acciaierie d’Italia” e, in particolare, quella relativa all’anno 2022. Secondo i magistrati tarantini la Società avrebbe attestato nel piano di monitoraggio e rendicontazione, falsi quantitativi di consumi di materie prime, fossile, gas, di prodotti finiti e semilavorati e relative giacenze, alterando così i parametri di riferimento, ovvero il fattore di emissione e il livello di attività. Quei dati, che si ipotizza siano stati alterati, avrebbero inquinato il funzionamento del Sistema Europeo di scambio di quote di emissione istituito dalla Direttiva “Ets”. Si tratta del principale strumento previsto dall’Unione Europea con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas e l’effetto serra nei settori energivori in base al Protocollo di Kyoto. Il sistema si basa essenzialmente sul c.d. Cap&trade che fissa un tetto massimo al livello complessivo alle emissioni consentite a tutti i soggetti vincolati, permettendo di acquistare e vendere sul mercato diritti a emettere quote di Co2 secondo le loro necessità nel rispetto del limite stabilito. Il meccanismo ha lo scopo di mantenere alti i prezzi dei titoli per disincentivare la domanda e, pertanto, indurre le imprese europee ad inquinare di meno. Il sistema si regge su un automatismo premiale per chi consuma meno quote di Co2, nel senso che ne può ottenere di più per l’anno successivo. Ed è proprio in questo complesso sistema di calcolo, ipotizza la Procura, che si sarebbe consumato il raggiro che avrebbe un valore di circa mezzo miliardo di euro. Gli avvisi di garanzia sono stati notificati a dieci persone tra cui l’ex amministratore delegato Lucia Morselli.
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2. La sentenza della Corte di assise di appello di Taranto in data 13 settembre 2024
In data 13 settembre 2024 Corte di Assise di Appello di Taranto, sezione distaccata della Corte di Appello di Lecce, con una decisione inaspettata, ha annullato la menzionata sentenza di primo grado con cui il 31 maggio del 2021 vennero condannati i vertici dell’ex Ilva, in particolare i due membri della famiglia Riva, Fabio e Nicola, figli dell’ex patron Emilio, all’epoca scomparso, oltre a ex direttori di stabilimento, manager e politici coinvolti nell’inchiesta ‘Ambiente Svenduto’ sul disastro ambientale provocato negli anni dallo stabilimento siderurgico del capoluogo jonico; questa decisione ha determinato il trasferimento del processo d’appello a Potenza. È stata, infatti, accolta la richiesta della difesa della famiglia Riva secondo la quale i giudici di primo grado, residenti a Taranto, non avrebbero avuto la serenità necessaria per pronunciarsi e sarebbero stati a loro volta parti offese del procedimento e quindi vi sarebbe un’incompatibilità ambientale.[6]
Secondo i legali, infatti, “il processo non può essere celebrato davanti ai magistrati tarantini perché non avrebbero la serenità necessaria a giudicare, in quanto anch’essi sarebbero persone offese e danneggiate del reato di inquinamento”. Quest’istanza, per la verità, era già stata sollevata presso la Corte d’Assise, ma venne respinta. Tant’è che il processo è andato regolarmente avanti con le udienze, a fine maggio 2021 è stata emessa la sentenza e a novembre 2022 infine sono state depositate le motivazioni di circa 3.700 pagine. L’appello è iniziato nel mese di aprile di quest’anno e in questa sede la difesa di alcuni imputati ha rinnovato la richiesta già effettuata in primo grado,
Il complesso procedimento, quindi, viene meno su un’argomentazione che le difese avevano sostenuto sin dall’inizio. Tutto ruota sulla competenza a giudicare in caso di coinvolgimento in un processo di magistrati, togati o anche onorari. La norma prevede in questi casi lo spostamento del procedimento in altra sede, individuata proprio a Potenza. Il nodo da sciogliere nel caso di “ambiente svenduto” da sempre attiene alla posizione di tre magistrati, parti civili nel processo; due di loro hanno poi hanno rinunciato al gravame.
Le difese, infatti, nelle loro argomentazioni, hanno sottolineato che tutti i giudici, compresi quelli impegnati nel processo, residenti nei quartieri di Taranto indicati come luoghi colpiti dal disastro ambientale, sono da intendere come parti lese del reato ambientale. Per anni i difensori hanno sostenuto questa tesi, respinta a più riprese, ma hanno avuto ragione solo all’inizio del processo d’appello, dopo lunghe discussioni degli avvocati.
Per comprendere meglio quale argomento abbia convinto i magistrati di appello annullando la sentenza di primo grado, con il suo ingente carico di atti e perizie, contenuti in oltre cinquecento faldoni, bisognerà attendere comunque 15 giorni e le motivazioni della decisione.
Si tratta di un colpo durissimo per l’accusa, per le parti civili e per la città, a un crocevia vitale per un caso che ha innescato proteste da parte di migliaia di persone.
Resta il disarmante quadro di un’inchiesta e di un processo partiti nel luglio del 2012 con l’adozione della misura degli arresti domiciliari per il patron Emilio Riva e per i vertici dell’Ilva, e con il contestuale sequestro dei sei reparti dell’area a caldo, indicati come fonte di “malattia e morte”. Da quel giorno la fabbrica non ha smesso nemmeno per un giorno di funzionare e ora le presunte responsabilità sono state poste nel nulla insieme alle condanne di “Ambiente svenduto”.[7]
Il processo, pertanto, ripartirà da Potenza con il pericolo di prescrizione per diversi reati, come ricordato dal sindaco di Taranto Rinaldo Melucci che ha espresso “preoccupazione e amarezza”.
3. Conclusioni
La vertenza dell’ex Ilva sembra ormai “una grossa matassa fumosa della quale non si comprende né il capo né la coda”. Molti sono i soggetti coinvolti nella vicenda a partire dal Governo, la Regione Puglia, il Comune di Taranto, l’ex Ilva, ora Acciaierie d’Italia attuale assegnataria dell’Azienda, i sindacati, Confindustria, l’Unione europea con l’Antitrust, la Cassa Depositi e Prestiti, Invitalia e le associazioni ambientaliste in favore della chiusura totale dell’azienda.
La situazione è, quindi, complessa per la moltitudine dei soggetti coinvolti e dagli interessi da loro manifestati. L’aspetto ambientale, come accertato dalla citata sentenza della Corte di Assise di Taranto del 31 maggio 2021, risulta critico se si va ad analizzare la salute della popolazione tarantina. Ma un altro aspetto critico, contrastante con il precedente, è quello della condizione lavorativa dei dipendenti dell’azienda e, di riflesso, delle loro famiglie. Il caso ex Ilva ha quindi le caratteristiche di “una inevitabile malattia socio culturale” e ci si chiede se si può difendere un lavoro che uccide.
Nella vicenda tarantina, infatti, hanno prevalso negli anni gli interessi soggettivi di alcuni attori istituzionali, sociali ed economici e spesso l’interesse collettivo è stato sottovalutato. In particolare, gli interessi dei lavoratori e della popolazione residente nei pressi dello stabilimento, non sono stati tenuti in debita considerazione.
Sebbene sin dal 2012 l’impianto di Taranto risulti sequestrato dalla magistratura penale, le opere di bonifica si susseguono lentamente, con interventi parziali e sempre non pianificati, soprattutto sul piano della sicurezza degli operai; inoltre, l’ex Ilva è sommersa dal problema dei debiti accumulati cui il governo cerca di fare fronte con finanziamenti straordinari.
In questo contesto, potrebbero convivere situazioni ed elementi di coesione socio culturali ed ambientali, quali ad esempio, l’uso sapiente della cultura locale, la valorizzazione delle risorse, dei beni culturali e del paesaggio.
Pertanto, nonostante le opinioni contrastanti della popolazione tarantina nella definizione delle complesse problematiche, non potrà non tenersi conto, oltre che delle primarie esigenze di tutela dell’ambiente e della salute, ora riconosciute chiaramente dalla nostra Costituzione,[8] anche della circostanza che l’azienda eroga servizi essenziali e strategici per l’economia nazionale e che consente la sopravvivenza di circa cinquantamila cittadini, considerate le famiglie dei dipendenti diretti e dell’indotto. Pertanto, non si può sottacere la necessità di garantire anche le esigenze sociali e le gravi situazioni per l’ordine e la sicurezza pubblica che inevitabilmente si verificheranno in caso di chiusura dell’azienda.
In conclusione, l’accelerazione dei cambiamenti climatici, della perdita di biodiversità e del degrado ambientale, associata agli esempi tangibili dei loro effetti devastanti, ha portato a riconoscere che la transizione verde è l’obiettivo fondamentale del nostro tempo e presenta implicazioni di equità intergenerazionale.
Pertanto, sia il governo centrale che l’azienda non potranno ignorare la citata decisione della Corte di Giustizia del 25 giugno 2024 per non incorrere in sanzioni penali e provvedimenti cautelari che potrebbero bloccare del tutto la produzione industriale, come già avvenuto nel 2012.
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Note
- [1]
L. Marturano, EX ILVA e Direttiva UE sulle emissioni industriali, la CGUE fa il punto, in Sole 24 ore del 14 luglio 2024.
- [2]
P. Gentilucci, Siderurgico in emergenza e coronavirus in Diritto Ambiente, del 4 aprile 2020, pp. 1-35.
- [3]
A. Imparato, Ex Ilva, ambiente svenduto tra decreti salvifici e difese geniali. La storia infinita dell’acciaieria di Taranto, in Affari Italiani del 16 settembre 2024.
- [4]
N. Palazzolo, Ex Ilva: la storia di un disastro ancora senza risposte, in Today attualità del 30 novembre 2022.
- [5]
Difeso dall’avv. Raffaele Errico del foro di Taranto.
- [6]
Redazione, Ex Ilva, tutto da rifare: la Corte d’Appello di Taranto annulla la sentenza di primo grado, in Today attualità del 13 settembre 2024.
- [7]
M. Diliberto, Ex Ilva, annullata la sentenza e ora è tutto da rifare: il processo va a Potenza. Attesa per le motivazioni, in Il Quotidiano di Puglia del 14 settembre 2024.
- [8]
Cfr. la legge Costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1 (Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente) con cui l’art. 9 è stato modificato e prevede che «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità· e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali».
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