La responsabilità del medico e della struttura sanitaria (privata e pubblica) è stata oggetto, nel corso degli anni, di differenti opinioni, sia in dottrina che in giurisprudenza, circa la sua natura contrattuale o extracontrattuale.
In particolare si distingue la responsabilità della struttura sanitaria da quella del singolo medico che, concretamente, con la sua condotta ha provocato lesioni o, nei casi più gravi, la morte del paziente.
E’ ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale, condiviso anche dalla dottrina prevalente, che qualifica la responsabilità della struttura sanitaria come responsabilità contrattuale (a titolo esemplificativo si evidenzia la sentenza della Cassazione, Sezione civile III, 3 febbraio 2012, n. 1620 e la sentenza della Cassazione, Sezione III, sentenza 20 marzo 2015, n. 5590).
Tale orientamento si basa sulla circostanza che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto atipico: il c.d. contratto di spedalità o di assistenza sanitaria, che comprende prestazioni primarie di carattere medico-sanitario, ma anche prestazioni accessorie quali vitto, alloggio, assistenza.
La responsabilità del singolo medico si fonda su un contratto d’opera professionale disciplinato dagli artt. 2229 e ss. del codice civile, contratto stipulato direttamente con il paziente; in questa circostanza si è sempre in presenza di responsabilità contrattuale del sanitario.
La responsabilità contrattuale (o da inadempimento), disciplinata dall’art. 1218 c.c., si distingue dalla responsabilità extracontrattuale (o aquiliana), ex art. 2043 c.c., a seconda del dovere giuridico violato.
La responsabilità contrattuale deriva dalla violazione di un obbligo specifico qualunque ne sia a sua volta la fonte: contratto, illecito o altro fatto idoneo.
In entrambi i casi il rimedio principale è costituito dal risarcimento del danno, anche se è diversa la regola da applicare in tema di onere probatorio.
Con riferimento alla responsabilità contrattuale, il danneggiato dovrà provare solo il danno, gravando sul danneggiante l’onere di provare l’assenza di colpa.
Per la responsabilità contrattuale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nel termine ordinario decennale.
Nel caso in cui, invece, il paziente non ha stipulato alcun contratto con il medico, ma si è rivolto ad una struttura sanitaria, sia pubblica che privata, ed è stato curato occasionalmente da un medico, avendo un rapporto di lavoro con tale ente, il quale ha causato un danno al paziente, si discute sulla natura della responsabilità medica.
La nota sentenza della Corte di Cassazione Sez. III, Gennaio 1999 n. 589 ha segnato una svolta, affermando, per la prima volta, la natura contrattuale della responsabilità sia del medico, sia dell’azienda ospedaliera con la quale il paziente ha concluso il contratto cosiddetto di spedalità.
La Cassazione precisa che, nel momento in cui il paziente si rechi in ospedale, il singolo medico lo prende in cura, dando origine ad un’obbligazione senza prestazione che si trova ai confini tra contratto e torto, come sostiene Castronovo, che trova la sua fonte nel “contatto sociale”.
Nell’obbligazione senza prestazione vi sono obblighi specifici, differenti sia dagli obblighi generici, ai quali si applica la responsabilità extracontrattuale in caso di violazione di tali obblighi, sia da quelli che derivano dai contratti autonomi.
Dottrina e Giurisprudenza affermano che l’art. 1173 c.c. non indica tutte le possibili fonti delle obbligazioni. Recita testualmente: “Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico.”
L’espressione “da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico” è generica, e si contraddistingue per l’atipicità delle fonti, dunque, potrebbe essere incluso il contatto sociale tra le fonti dell’obbligazione.
Nelle sentenze successive si è affermata la responsabilità contrattuale del medico, ma la sua obbligazione non è più stata definita “senza prestazione”, ma obbligazione che deriva da un contratto d’opera professionale.
A sostegno della natura contrattuale della responsabilità del medico si sono susseguite varie pronunce giurisprudenziali tra le quali: Cassazione Civile, sez. III, sentenza del 1 febbraio 2011, n. 2334; Cassazione Civile, sez. III, sentenza del 19 maggio 2011, n. 11005; sentenza del Tribunale di Milano, Sezione V, n. 13574/2013; Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 20 marzo 2015, n. 5590 che parla di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria.
Continua a parlarsi di natura contrattuale nonostante l’intervento normativo sulla responsabilità del medico, ossia il Decreto Legge Balduzzi n. 158/2012, convertito in Legge 189/2012.
Originariamente, l’art. 3 del D.L. 158/2012 prevedeva che: “Fermo restando il disposto dell’articolo 2236 del codice civile, nell’accertamento della colpa lieve nell’attività dell’esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell’articolo 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell’osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale ed internazionale”.
Tale norma, con il rinvio all’art. 2236 c.c., non si esprimeva sul titolo della responsabilità del singolo medico.
In sede di conversione, il predetto articolo 3 rubricato: “Responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie”, al comma 1° del Decreto Legge Balduzzi, nella sua versione attuale, dispone, invece, che: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.
Il richiamo espresso all’articolo 2043 c.c., norma dettata in materia di responsabilità extracontrattuale, pone dubbi circa la qualificazione della natura della responsabilità medica.
L’orientamento giurisprudenziale minoritario sostiene la natura extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., della responsabilità del medico.
Si segnalano: la sentenza n. 1406/2012 del Tribunale di Varese che sostiene la responsabilità aquiliana del medico e la sentenza n. 9693/2014 del Tribunale di Milano, Sezione I, che afferma la responsabilità extracontrattuale del medico e contrattuale per la struttura sanitaria pubblica o privata.
Incorre in responsabilità aquiliana, secondo l’impostazione classica, il soggetto che viola il dovere giuridico di non ledere l’altrui sfera giuridica (neminem laedere), dovere che ciascuno è tenuto a rispettare nei confronti della generalità dei consociati.
Nella responsabilità extracontrattuale, disciplinata dall’art. 2043 c.c., la colpa del danneggiante deve essere sempre provata da chi agisce in giudizio quale danneggiato, ovvero da chi pretende il risarcimento, secondo la regola generale per cui chi fa valere un diritto deve provarne tutti i fatti costitutivi (art. 2697 c.c.).
In caso di illecito aquiliano il diritto al risarcimento del danno si prescrive nel termine quinquennale.
La giurisprudenza prevalente, dunque, predilige la natura contrattuale per la responsabilità del singolo sanitario, precisamente da “contatto sociale”, solidale con la responsabilità della struttura sanitaria, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1218 e 1228 c.c..
La responsabilità del medico, infatti, si espande alla struttura sanitaria dove lo stesso opera e nella cui organizzazione è inserito: l’art. 1228 c.c., infatti, esplica una forma di responsabilità contrattuale indiretta secondo cui: “il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi risponde dei fatti dolosi e colposi di questi”. La struttura sanitaria, pertanto, è responsabile solidamente (Cass. Civ., Sez. III, 28/8/2009, n. 18805; Cass. Civ., Sez. III, 31/03/2015, n. 6436) con il medico in caso di malpractice di quest’ultimo: la stessa per essere esente da responsabilità dovrà dimostrare di aver predisposto in maniera ottimale e tempestiva tutti i servizi richiestigli e di essersi avvalsa, nell’esplicazione degli stessi, di personale idoneo e competente.
Il “contatto sociale qualificato” viene ad esistenza quando il paziente si sottopone ad una prestazione medica, quale visita, cura, trattamento o intervento ai fini della guarigione della malattia di cui è portatore.
Precisamente si incorre nella responsabilità da “contatto sociale qualificato” nel caso in cui il danneggiante è legato al danneggiato da una relazione di fatto poiché sono entrati in contatto, pur non avendo stipulato un contratto; quando il rapporto è qualificato da una norma che attribuisce diritti ed obblighi; inoltre, nell’ipotesi in cui sui soggetti coinvolti gravi un obbligo specifico di condotta, non generico.
In altre parole il medico contrae un’obbligazione contrattuale in virtù della quale si adopera diligentemente e con tutti i mezzi disponibili ai fini della cura e della guarigione del paziente. L’obbligazione del medico, e quella del professionista in generale, non è però di risultato ma di mezzi: allo stesso il paziente non potrà mai rivendicare e pretendere la guarigione ma potrà solo esigere che esplichi la sua attività professionale in modo diligente e quindi in rispetto delle regole della scienza medica.
In concreto qualora si verifichi un caso di mala sanità, il medico sarà responsabile da contratto, prescindendo dalla guarigione o meno del paziente, solo ove abbia esercitato la sua professione in modo negligente per non essersi attenuto alle regole più recenti della tecnica e della scienza medica.
La ripartizione dell’onere probatorio deve, in conseguenza, seguire i criteri fissati in materia contrattuale, dovendo il creditore, che agisce per la risoluzione del contratto o per l’adempimento o per il risarcimento del danno, dare prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitarsi alla allegazione della circostanza dell’inadempimento del debitore e quindi dar prova del danno e del nesso causale fra quest’ultimo e l’inadempimento, competendo al debitore la prova che l’inadempimento non vi sia stato oppure, pur esistendo, lo stesso nella fattispecie non sia stato causa del danno stesso.
Sul piano probatorio al paziente basterà dimostrare che, a seguito di prestazioni mediche, ha subito un aggravamento delle sue condizioni psicofisiche o ha constatato l’insorgenza di nuove patologie, mentre il medico sarà onerato della prova relativa alla diligenza della sua specifica opera professionale ed alla riconducibilità degli esiti peggiorativi della salute del paziente ad eventi imprevisti ed imprevedibili.
All’uopo si richiama la sentenza della Corte di Cassazione del 31 gennaio 2014 n. 2185 che dichiara: “In tema di responsabilità contrattuale del medico nei confronti del paziente per danni derivanti dall’esercizio di attività di carattere sanitario, il paziente ha il solo onere di dedurre qualificate inadempienze, in tesi idonee a porsi come causa o concausa del danno, restando poi a carico del debitore convenuto l’onere di dimostrare o che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa essergli mosso, o che, pur essendovi stato un suo inesatto adempimento, questo non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno”.
La Corte di Cassazione, Sezione III, con la recente sentenza 20 marzo 2015, n. 5590, ribadisce che: “In tema di responsabilità civile nell’attività medico-chirurgica, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto (o del “contatto sociale”) e dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari, ed allegare la colpa della struttura, restando a carico dell’obbligato – sia esso il sanitario o la struttura – la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile, rimanendo irrilevante, sotto il profilo della distribuzione dell’onere probatorio, che si tratti o meno di intervento di particolare difficoltà”.
Il medico sarà quindi responsabile qualora il suo operato non si sia esplicato in modo diligente: il livello di diligenza richiesto non è quello generale del pater familias ex art. 1176 c.c. comma 1, ma quello qualificato di cui al comma 2 che deve rapportarsi “alla natura dell’attività esercitata”, nel caso di specie è appunto quella medica.
Ai sensi dell’art. 2236, inoltre, il medico risponderà dei danni causati al paziente solo in caso di dolo o colpa grave e non in caso di colpa semplice: ciò implica che il grado di diligenza richiesta deve essere valutato anche con riguardo alla difficoltà della prestazione resa. In altri termini, se il caso è di speciale difficoltà, la responsabilità del medico potrebbe assurgere ad una semplice colpa (non grave) così da esimerlo da qualsiasi conseguenza sul piano giuridico.
La giurisprudenza di legittimità ritiene vi sia speciale difficoltà laddove il caso non sia stato adeguatamente studiato o sperimentato o qualora nella scienza medica siano stati discussi sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica incompatibili tra loro.
Dalla nuova formulazione dell’art. 3 del D.L. 158/2012 si evince, per quanto concerne la colpa medica, che il medico, se arreca un danno al paziente, incorre nella responsabilità civile sia per colpa lieve che grave, a prescindere dal rispetto delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla scienza medica; risponde, altresì, penalmente solo per colpa grave, nonostante abbia rispettato le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla scienza medica.
Nella predetta norma si riscontra la novità in merito alla colpa in senso civilistico poiché ora il giudice ne tiene conto per quantificare la somma da risarcire al paziente danneggiato; in passato, invece, la colpa era ritenuta elemento costitutivo della responsabilità del medico e del diritto al risarcimento danni.
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