Il delitto di peculato è previsto all’art. 314 c.p.
La norma, successivamente all’intervento della legge di riforma n. 86 del 26 aprile 1990 che ha contribuito alla rivisitazione totale del capo I del codice penale e alla ridefinizione delle nozioni di pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio, stabilisce che “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”[1].
Già presente nel codice penale sardo – italiano il reato in oggetto è disciplinato anche nel codice Toscano che distingueva il peculato proprio, commesso dal pubblico ufficiale, dal vuoto di cassa, posto in essere dal debitore di quantità[2].
Il peculato è un reato proprio, l’incipit della norma chiarisce infatti come soggetto attivo possa essere esclusivamente un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio[3], e di natura plurioffensiva perchè l’interesse tutelato coincide sia con la legalità e l’efficienza dell’attività della pubblica amministrazione che con il suo patrimonio e quello di terze persone.
La condotta tipica, notevolmente complessa e varia, evidenzia come il reato possa perfezionarsi per mezzo tanto dell’appropriazione che della distrazione dell’oggetto materiale in danno della pubblica amministrazione.
Sebbene nell’ipotesi per appropriazione debba intendersi l’attività dell’agente che provvede a sottrarre denaro o una cosa mobile ponendoli contemporaneamente nella propria o altrui disponibilità, autorevole dottrina ha espresso nel tempo diverse e numerose definizioni del termine; relativamente all’elemento psicologico “l’appropriarsi – è stato scritto – significa comportarsi verso la cosa come se fosse propria, vale a dire compiere sulla cosa stessa atti di disposizione a cui il possessore non è autorizzato”[4] anche se frequentemente è stata posta l’attenzione “sull’interversione del possesso”[5] tentando di “esemplificare la condotta criminosa individuandola nella consumazione, alienazione, ritenzione o distrazione della cosa”[6].
La perfezione del reato si raggiunge anche nel momento in cui il soggetto attivo non realizzi dalla propria condotta un indebito profitto poiché il fatto non è imputabile a titolo di dolo specifico dal momento che l’appropriazione del denaro o di qualsiasi altra cosa mobile va già oltre i limiti imposti al pubblico ufficiale nell’esercizio del possesso di tali beni.
Il peculato per distrazione si configura allorquando l’oggetto materiale del reato viene destinato dall’agente ad uno scopo diverso da quello originariamente previsto.
Il criterio distintivo tra le due fattispecie sopra descritte consiste nella destinazione riservata al denaro o alla cosa mobile altrui; sussiste la distrazione del bene quando tale attività venga esercitata nell’ambito della pubblica amministrazione ma al fine di conseguire scopi estranei alle proprie finalità istituzionali mentre supporterà l’ipotesi di reato del peculato per appropriazione la condotta dell’agente che sottrae alla pubblica amministrazione quanto in suo possesso ponendolo sotto la sua o altrui disponibilità.
Il secondo comma dell’art. 314 c.p. definisce un’ulteriore ipotesi di reato, il peculato d’uso[7], che si configura quale figura autonoma di reato e non come circostanza attenuante[8].
In questo caso la condotta dell’agente integra una fattispecie che comporta una responsabilità penale sicuramente inferiore rispetto ai casi precedentemente indicati in quanto finalizzata esclusivamente all’utilizzo temporaneo della cosa che sarà restituita immediatamente dopo l’uso; inoltre non potendo rendere l’eadem res ma unicamente il tantundem, è lecito ritenere che il peculato d’uso non possa configurarsi con riguardo alle cose di quantità ma esclusivamente a quelle di specie[9].
Il delitto di peculato si consuma nel momento e nel luogo in cui l’agente si appropria della cosa di cui in concreto si tratta[10].
Nella forma dell’appropriazione il peculato è imputabile a titolo di dolo generico sostanziandosi nella coscienza e volontà di appropriarsi del bene materiale di proprietà della pubblica amministrazione che il soggetto ha nel proprio possesso per ragioni derivanti dal proprio ufficio[11]; al contrario nella forma della distrazione il dolo è specifico poiché consiste nella piena intenzione di invertire, per proprio o altrui profitto, l’indirizzo del denaro pubblico[12].
L’errore del pubblico ufficiale non comporta l’esclusione dell’elemento soggettivo perché la corretta destinazione del denaro appartenente alla pubblica amministrazione, seppur disposta da una norma amministrativa, deve ritenersi implicitamente disciplinata anche da quella penale con la conseguenza che l’attività del reo non si risolve in un errore sul fatto su una legge diversa da quella penale.
Il pubblico ufficiale è chiamato a rispondere di peculato continuato quando, in tempi diversi, appropriandosi di somme proprie della cassa da lui gestita, contravviene all’obbligo di mantenere sempre a disposizione il denaro in suo possesso[13].
Affinchè possa soggiacere al contenuto precettivo indicato dall’art. 110 c.p. è necessario che ciascuno dei partecipanti al reato contribuisca, inducendo altri o cooperando egli stesso, alla realizzazione della propria parte; la fattispecie che più organi partecipino alla formazione dell’atto di disposizione del bene di proprietà della pubblica amministrazione non esclude la responsabilità penale anche quando uno solo di essi abbia, mediante il proprio operato di competenza, conseguito la disponibilità del bene sottraendosi all’attività di controllo di altro organo a ciò preposto[14].
Per quanto attiene ai rapporti con altri reati, il peculato diverge dalla truffa relativamente alla modalità con la quale l’agente entra nel possesso del bene in quanto sussiste il reato di cui all’art. 640 c.p. nel momento in cui il pubblico ufficiale si procura il possesso del bene in maniera fraudolenta attraverso artifici e raggiri.
Gli elementi costitutivi di entrambe le fattispecie distinguono invece il furto dal peculato; nella prima ipotesi l’appropriazione del bene, avvenendo invito domino, si risolve in una sottrazione al possessore legittimo mentre nel secondo caso le mansioni pubbliche fungono da presupposto della condotta.
La pena accessoria prevista è disciplinata dall’art. 317-bis c.p. il quale dispone l’interdizione perpetua dai pubblici uffici in caso di condanna per i reati di cui agli artt. 314 e 317 e quella temporanea allorquando a causa della concessione di circostanze attenuanti è stata inflitta la pena della reclusione per un periodo inferiore ai tre anni[15].
Note:
[1] Il testo originario disponeva invece :”Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso di denaro o di altra cosa mobile, appartenente alla pubblica amministrazione, se l’appropria, ovvero lo distrae a profitto proprio o di altri, è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa non inferiore a lire duecentomila. La condanna importa l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nondimeno, se per circostanze attenuanti viene inflitta la reclusione per un tempo inferiore a tre anni, la condanna importa l’interdizione temporanea”.
[2] Nel diritto romano il peculato si configurava come il furtum di cosa di proprietà dello Stato. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. V, Unione Tipografico – Editrice Torinese, Milano, 1921.
[3] Sulla nozione di pubblico ufficiale così il codice penale all’art. 357: “Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi”.
Sulla nozione della persona incaricata di un pubblico servizio, l’art. 358:” Agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico servizio coloro i quali a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. Per un pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale”.
[4] ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, Milano, 1977, p. 268. In tal senso, GRISPIGNI, Diritto penale italiano, vol. II, La struttura della fattispecie legale oggettiva, Milano, 1950, p. 182 e RANIERI, Manuale di diritto penale, vol. III, Padova, 1952, p. 391.
[5] MANTOVANI, Diritto penale. Delitti contro il patrimonio, Padova, 1989, p. 102; PEDRAZZI, Appropriazione indebita, in Enc. dir., vol. II, Milano, 1958, p. 844 ss; MAGGIORE, Principi di diritto penale. Parte speciale, vol. II, Bologna, 1941, p. 796 ss.
[6] D’AMBROSIO, Le appropriazioni indebite, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, diretta da Bricola Zagrebelsky, parte speciale, vol. II, Torino, 1984, p. 1360.
[7] Art. 314, II comma :” Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”.
[8] Cfr., Cass., 29 aprile 1992, De Bortoli, in Riv. Pen., 1993, 444; PAGLIARO, Principi di Diritto Penale,Parte speciale, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, VI ed., Giuffrè, 1994, Milano.
[9] In questa direzione la Suprema Corte ha evidenziato come il secondo comma dell’art. 314 faccia riferimento esclusivo all’uso momentaneo di cosa mobile non menzionando in alcun modo il denaro (sez. VI 93/194925); in senso difforme, Cass., sez. VI n. 95/201264, secondo cui il peculato d’uso è configurabile anche in relazione a cose fungibili e dunque anche in riferimento al denaro.
[10] In questo senso, Cass., sez. III, 12 luglio 1963, Cherubini, in Giust. Pen., 1964, II, 382; Cass., sez. III, 4 giugno 1965, Lolatte, ivi, 1966, II, 104; Cass., sez. VI, 14 gennaio 1967, Fabiano, ivi, 1967, II, 1271.
[11] Cass., sez. III, 5 aprile 1963, Michela, in Giust. Pen., 1964, II, 79; Cass., sez. III, 21 giugno 1963, De Feo, ivi, 1964, II, 181; Cass., sez. III, 5 giugno 1964, Cavallarin, ivi, 1965, II, 50.
[12] Cass., sez. III, 21 giugno 1963, Borzone, in Giust. Pen., 1964, II, 52; Cass., sez. III, 4 maggio 1964, Pernotti e altro, in Cass. pen. Mass. ann., 1964, 1053.
[13] Cass., 30 maggio 1949, Mancini, in Giur. compl. Corte cass., 1949, n. 2738.
[14] Cass., 23 gennaio 1980, Pascale, in Giust. pen., 1980, II, 704.
[15] L’art. 317 –bis riporta la disposizione dell’abrogato art. 314 comma 2 c.p., alla quale rinviava l’abrogato art. 317 comma 2 c.p.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento