Pronuncia la parola “pezzente” in contesto processuale: non è diffamazione

Scarica PDF Stampa Allegati

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 25026 del 25 giugno 2024, ha chiarito che la parola “pezzente”, pronunciata in uno specifico contesto processuale, non integra il reato di diffamazione perché non lede la reputazione del destinatario.

Per approfondimenti si consiglia il seguente volume, il quale rappresenta un valido strumento operativo di ausilio per il Professionista: Formulario annotato del processo penale

Corte di Cassazione – Sez. V Pen. – Sent. n. 25026 del 25/06/2024

Cass-25026-2024.pdf 2 MB

Iscriviti alla newsletter per poter scaricare gli allegati

Grazie per esserti iscritto alla newsletter. Ora puoi scaricare il tuo contenuto.

Indice

1. I fatti

La decisione della Corte di Cassazione scaturisce dal ricorso presentato dall’imputato avverso la sentenza del Tribunale di Gela, che ne ha confermato l’affermazione di responsabilità statuita in primo grado dal giudice di pace, in ordine al reato di diffamazione, per aver proferito nel corso di un’udienza di processo civile, in presenza di più persone, in danno della parte civile, la parola “pezzente“.
Il ricorso era affidato ad un solo motivo fondato su vizi di cui all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., perché la parola “pezzente” non avrebbe valenza diffamatoria e il fatto non integrerebbe il reato contestato, anche alla luce dei precedenti giurisprudenziali che avrebbero escluso la sua sussistenza in presenza di espressioni di contenuto più triviale. Inoltre, non sarebbe dimostrata la prova del dolo generico del reato di diffamazione perché l’intento dell’imputato sarebbe stato solo quello di esprimere una critica consentita e contestualizzata.
Per approfondimenti si consiglia il seguente volume, il quale rappresenta un valido strumento operativo di ausilio per il Professionista:

FORMATO CARTACEO

Formulario Annotato del Processo Penale

Il presente formulario, aggiornato al D.Lgs. 19 marzo 2024, n. 31 (cd. correttivo Cartabia), rappresenta un valido strumento operativo di ausilio per l’Avvocato penalista, oltre che per i Giudici di pace o per gli aspiranti Avvocati, mettendo a loro disposizione tutti gli schemi degli atti difensivi contemplati dal codice di procedura penale, contestualizzati con il relativo quadro normativo di riferimento e corredati dalle più significative pronunce della Corte di Cassazione, oltre che dai più opportuni suggerimenti per una loro migliore redazione.La struttura del volume, divisa per sezioni seguendo sostanzialmente l’impianto del codice di procedura penale, consente la rapida individuazione degli atti correlati alle diverse fasi processuali: Giurisdizione e competenza – Giudice – Pubblico ministero – Parte civile – Responsabile civile – Civilmente obbligato – Persona offesa – Enti e associazioni – Difensore – Gli atti – Le notificazioni – Le prove – Misure cautelari personali – Riparazione per ingiusta detenzione – Misure cautelari reali – Arresto in flagranza e fermo – Indagini difensive e investigazioni difensive – Incidente probatorio – Chiusura delle indagini – Udienza preliminare – Procedimenti speciali – Giudizio – Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica – Appello – Ricorso per cassazione – Revisione – Riparazione per errore giudiziario – Esecuzione – Rapporti giurisdizionali con le autorità straniere.Specifiche sezioni, infine, sono state dedicate al Patrocinio a spese dello stato, alle Misure cautelari nei confronti degli enti (D.Lgs. n. 231 del 2001) ed al Processo penale davanti al Giudice di pace (D.Lgs. n. 274 del 2000).L’opera è corredata da un’utilissima appendice, contenente schemi riepilogativi e riferimenti normativi in grado di rendere maggiormente agevole l’attività del legale.Valerio de GioiaConsigliere della Corte di Appello di Roma.Paolo Emilio De SimoneMagistrato presso il Tribunale di Roma.

Valerio De Gioia, Paolo Emilio De Simone | Maggioli Editore 2024

2. Parola “pezzente” in contesto processuale: l’analisi della Cassazione

La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso, premette che, in materia di diffamazione, si può “conoscere e valutare l’offensività della espressione che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell’imputato“.
Ebbene, la Suprema Corte ritiene che, nel caso di specie, non sussistano gli elementi essenziali del reato di diffamazione, sulla base di un consolidato principio secondo il quale è richiesto che “la condotta astrattamente conforme al tipo possieda attitudine offensiva, nel senso che, in relazione alle concrete circostanze del fatto, risulti suscettibile di diffusione e di pregiudizio della stima e del rispetto di cui ogni consociato è meritevole nel contesto di riferimento“.
Infatti, la parola “pezzente” è stata pronunciata dall’imputato isolatamente, in modo improvviso e occasionale, al di fuori di un più ampio ed articolato contesto dialogico. La parola è stata, poi, udita dai due patrocinatori della persona offesa che l’hanno riferito a quest’ultima, la quale ha formalizzato la querela.

3. La decisione della Cassazione

Alla luce di quanto finora esposto, la Corte di Cassazione osserva che la sentenza impugnata si è limitata a chiosare che il termine usato possiederebbe indiscussa pregnanza offensiva, senza, però, valutare se tale offensività fosse presente nel caso di specie.
La Suprema Corte sottolinea che “se per un verso non è dato comprendere il senso compiuto dell’esclamazione nel contesto, peraltro intimamente e necessariamente conflittuale, dell’interlocuzione tra le parti del processo civile in corso, che già di per sé innesta un ragionevole dubbio sulla configurabilità di un inequivoco attacco ad hominem, non è possibile cogliere, per altro verso, l’effetto lesivo che si proietterebbe sulla vita di relazione della persona offesa e sul riconoscimento alla sua dignità nella realtà socio culturale circostante“.
Insomma, ad avviso della Corte, la parola pronunciata nel corso del processo, non inciderebbe in maniera significativa sulla reputazione del destinatario.
Per questi motivi, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

Riccardo Polito

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento