Prova testimoniale e violazione dell’art. 246 c.p.c.

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  1. La prova testimoniale: definizione e limiti; 1.1. Limiti oggettivi; 1.2. Limiti soggettivi
  2. La questione della violazione dell’art. 246 c.p.c. e l’ordinanza di remissione alle Sezioni Unite

1. La prova testimoniale: definizione e limiti

La testimonianza consiste nell’esposizione di fatti rilevanti per la decisione della lite resa da un terzo avanti al giudice, in contraddittorio tra le parti.

La testimonianza, inoltre, è resa in giudizio, dinanzi al giudice, nel contraddittorio tra le parti col supporto dei rispettivi Avvocati difensori. Ciò comporta che vanno escluse dall’ambito della prova testimoniale le dichiarazioni stragiudiziali, anche se rese dinanzi ad un notaio, ovvero nelle forme dell’atto notorio, dell’esperienza che esula dalla cultura comune.

La testimonianza può essere de auditu o de relato, a seconda che il terzo abbia percepito direttamente i fatti oggetto della sua dichiarazione ovvero li abbia appresi da altri. In questo secondo caso la testimonianza deve essere confortata da altri elementi e purché riporti informazioni riferite a persone estranee alla controversia di cui non sia possibile acquisire la deposizione (Cass.  Civ. n. 3137/2016).

Il codice civile pone una serie di limiti allammissibilità della prova testimoniale, limiti che trovano la loro ratio in un’ottica di sfavore per la prova orale e di favore per la prova documentale, ma, la portata di detti limiti è stata, dalla giurisprudenza fortemente ridotta.

È possibile distinguere due categorie di limiti alla prova testimoniale: i limiti oggettivi e i simili soggettivi.

1.1) Limiti oggettivi

I limiti oggettivi fanno riferimento ai fatti sui quali la testimonianza è esclusa ovvero ammessa a certe condizioni e sono disciplinati dagli artt. 2721 e ss del codice civile.

In particolare tale tipologia di limiti si applicano, ai sensi dell’art. 2726 c.c., ai contratti, al pagamento e alla remissione di debito.

All’interno della macro-categoria dei limiti oggettivi è possibile distingue tre sottogruppi:

  • limiti di valore: disciplinati all’art. 2721 c.c. che dispone l’inammissibilità della prova testimoniale per i contratti il cui valore eccede gli euro 2,58. Il medesimo articolo prevede poi, al secondo comma, un deroga in forza della quale l’autorità giudiziaria può consentire la prova oltre il limite anzidetto, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza. Va, a tal proposito, sottolineato che, la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che, qualora il contratto sia richiamato dalle parti esclusivamente come fatto storico e non come titolo su cui si fonda la pretesa avanzata in giudizio, il limite di valore non trova applicazione e sarà, pertanto, ammessa la prova testimoniale anche oltre il suddetto limite di valore ( ex multis: Civ Cass. civ. n. 566/2001: “I limiti legali di prova di un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem, cosi come i limiti di valore previsti dallart. 2721 c.c. per la prova testimoniale, operano esclusivamente quando il suddetto contratto sia invocato in giudizio come fonte di reciproci diritti ed obblighi tra le parti contraenti e non anche quando se ne invochi lesistenza come semplice fatto storico influente sulla decisione del processo ed il contratto risulti stipulato non tra le parti processuali, ma tra una sola di esse ed un terzo”).
  • Patti, aggiunti o contrari, anteriori o contemporanei alla formazione del contratto : disciplinati all’art. 2722 c.c. il quale escluse sempre la prova testimoniale ogniqualvolta si alleghi che i patti aggiunti o contrari siano stati stipulati anteriormente o contemporaneamente alla stipula del contratto. La ratio di tale limite poggia sulla considerazione che, qualora questi patti fossero realmente esistiti, le parti avrebbero provveduto ad includerli nel contratto, posto che risulta assai poco plausibile che le parti non vi abbiano inserito tutte le loro manifestazioni di volontà, lasciando alla forma orale ulteriori pattuizioni aggiuntive o addirittura contrastanti con quanto risultante dal primo documento in questione. La circostanza che non l’abbiano fatto induce il legislatore a ritenere inverosimile la loro esistenza e, di conseguenza, ad escludere la prova per testi. Va, a tal proposito, precisato che, laddove la prova per testi verta su patti aggiunti o contrari precedenti contemporanei alla stipula del contratto volti all’interpretazione del contratto, non si applicano i limiti previsti dall’art. 2722 c.c. ( ex multis: Civ. n. 28407/2018: “Il divieto, previsto dall’art. 2722 c.c., di dimostrare con testi la conclusione di accordi anteriori o contemporanei rispetto ad un contratto stipulato in forma scritta opera quando la prova si riferisce alla contrarietà tra ciò che si sostiene essere pattuito e quello che risulta documentato, ma non ove tenda solo a fornire elementi idonei a chiarire o interpretare il contenuto del documento”).
  • Patti, aggiunti o contrari, posteriori alla formazione del contratto: disciplinati dall’art. 2723 c.c. il quale prevede la possibilità di ammettere la prova testimoniale, sulla base del libero apprezzamento del Giudice, laddove, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza, “appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali” al documento”. La valutazione delle circostanze (tipiche o atipiche) in presenza delle quali è consentita la prova per testimoni dei patti, aggiunti o contrari, posteriori alla formazione di un documento, è demandata al potere discrezionale del giudice di merito, il quale può attribuire, in negativo o in positivo, valore preminente ad una o ad alcune di esse con apprezzamento che, se congruamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità (Cass Civ. n. 11932/2006; Cass Civ. n. 6109/2006; Cass Civ. n. 10319/2004; Cass Civ. n. 9616/2003; Cass Civ. n. 4427/1996; Cass Civ. n. 10969/1994; Cass Civ. n. 7660/1990). È stato precisato che per patti posteriori devono intendersi le pattuizioni che accedono alla convenzione risultante dallo scritto, nel senso che apportino al suo contenuto aggiunte o modificazioni. Si tratta, dunque, di clausole destinate a regolare diversamente per il futuro particolari aspetti del rapporto tra le parti, sul presupposto della sua persistenza e della sua prosecuzione (Cass Civ. n. 100/1991); diversamente, infatti, la prova testimoniale sarebbe vietata poiché, se i patti risultassero come l’effetto di una volizione assolutamente staccata dalla precedente e determinata da ragioni non influenti sul negozio conclusa il giudice dovrebbe ragionevolmente presume che le parti avrebbero trasfuso anche quel patto nel documento, con la conseguente applicazione dell’art. 2722 c.c.

A prescindere dalla singola disciplina prevista per i limiti oggettivi, lart. 2725 c.c. vieta il ricorso alla prova testimoniale per i contratti per i quali è richiesta la forma scritta:

  • ad substantiam: se la forma scritta è richiesta ai fini  della validità, il contratto stipulato oralmente è nullo;
  • ad probationem: se la forma scritta è richiesta ai fini della prova, c’è l’impossibilità giuridica di provare il contratto concluso oralmente.

In tali casi, la prova per testimoni è ammessa soltanto nel caso in cui il contraente, senza sua colpa, abbia smarrito il documento che gli forniva la prova.

Giova altresì ricordare che le disposizioni contenute nell’art. 2725 c.c. non operano in materia di lavoro in quanto, ai sensi dell’art. 421, comma 2, c.p.c.:Il giudice può “altresì disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni e osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti. Si osserva la disposizione del comma 6 dell’articolo 420”. Ne deriva, dunque, che il Giudice del Lavoro possa, in deroga a quanto stabilito dall’art. 2725 c.c., e in virtù degli ampi poteri istruttori di cui dispone, ammettere la prova per testimoni anche laddove la forma scritta del contratto sia richiesta ad substantiam o ad probationem.

Viceversa, l’art. 2724 c.c., ammette la prova testimoniale IN OGNI CASO quando:

  • Sussiste un principio di prova scritta: questo viene definito come “qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato”.
  • Il contraente si è trovato nellimpossibilità materiale o morale di procurarsi una prova scritta” (ad esempio l’esistenza di particolari rapporti familiari o di amicizia tra le parti che rendano inesigibile la formazione di una documentazione scritta).
  • Il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova”; in tal caso la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che chi intenda avvalersi di tale sciorinate debba dimostrare sia che il contratto è venuto in essere nella forma prescritta, sia il fatto oggettivo della sopravvenuta indisponibilità del documento (tale prova potrà essere fornita per presunzioni, trattandosi di un fatto negativo di cui di regola sarà difficile fornire prova diretta), nonché l’assenza di colpa (da valutare in maniera elastica alla luce delle circostanze di cui all’ 2721 c.c.). Per perdita incolpevole si intende anche la distruzione.

La Suprema Corte (Cass. Civ. n. 28639/2011) ha stabilito che, in caso di negozio che richieda la forma scritta ad substantiam, il rifiuto di un contrente a consegnare il documento all’altro non configuri un’ipotesi di perdita incolpevole ai sensi del terzo comma dell’art 2723 c.c., bensì quella di impossibilità materiale ai sensi del comma 2 del medesimo articolo, con conseguente impossibilità di ricorrere alla prova testimoniale in quanto, come sopra esposto, in ipotesi di forma scritta ad substantiam o ad probationem la prova per testi è ammessa solo in caso di perdita incolpevole di documento. La Corte ha, altresì, precisato che, l’esclusione di ogni deroga al divieto della prova testimoniale ai sensi dell’art. 2725 c.c. opera anche al limitato fine della preliminare dimostrazione dell’esistenza del documento, necessaria per ottenere un ordine di esibizione da parte del giudice ai sensi dell’art. 210 c.p.c.


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1.2) Limiti soggettivi

I limiti soggettivi concernono incapacità e divieti di testimoniare per determinate categorie di soggetti. Gli artt. 246 ss. c.p.c. prevedevano tre limitazioni soggettive:

  • lincapacità di testimoniare per coloro che nella causa hanno un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio (art. 246 c.p.c.) pena, in difetto, la nullità relativa, ex 157, 2° co., delle testimonianze da costoro rese. È discusso in dottrina se la norma individui una vera e propria forma di incapacità ovvero sancisca una carenza di legittimazione a deporre. Il limite soggettivo al potere di testimoniare trova la sua ragione giustificativa nella sussistenza, in capo al terzo, di un interesse idoneo a legittimare la sua partecipazione al processo. È così offerto, al giudice ed alle parti, un criterio per decidere subito se un teste è attendibile o meno, al di là della valutazione che può sempre essere fatta successivamente in ordine alla stessa attendibilità. In relazione all’incapacità a testimoniare, vengono in primo luogo in rilievo, nel sistema del processo civile, le parti in virtù del noto brocardo nullus idoneus testis in re sua intelligitur. In proposito si osserva che il disposto dell’art. 246 sottende questo principio anche se la sua formulazione espressa si riferisce ai soggetti che, in virtù di un loro interesse, «potrebbero partecipare al processo» e che, dunque, non sono parti, ma terzi; detti soggetti possono essere definiti come “parti potenziali”. A questo proposito, ad avviso di alcuni esponenti della dottrina[1], l’incapacità a testimoniare graverebbe soltanto in capo al terzo legittimato a dispiegare un intervento adesivo dipendente ex art. 105, 2° co.; mentre coloro che sarebbero legittimati a proporre un intervento principale o litisconsortile ex art. 105, 1° co., non rientrerebbero nell’ambito applicativo della norma de qua, a maggior ragione quando si consideri che le parti non avrebbero interesse ad indicarli in qualità di teste, attesa la loro situazione di terzi parziali, seppur capaci. Altra parte della dottrina[2] è di contrario avviso e ravvisa l’incapacità nei terzi legittimati ad intervenire nel processo in via principale o litisconsortile; a differenza dei terzi titolari di un rapporto giuridico atto a conferire loro la legittimazione a proporre intervento adesivo dipendente, i quali sarebbero esclusi dal testimoniare solo qualora avessero realmente attuato tale tipologia d’intervento, il che è evidente, visto e considerato che, in siffatta ipotesi, tali soggetti avrebbero acquisito il ruolo di parti. Altri Autori[3], ritengono che la disposizione in esame non ammetta differenze in relazione alle diverse tipologie d’intervento di talché, ogniqualvolta il terzo sia legittimato a fare ingresso nel processo, egli non potrebbe rientrare nella lista testimoniale delle parti. Si segnala, altresì, la tesi di E.F. Ricci, Legittimazione alla testimonianza e legittimazione all’intervento, in RDPr, 1960, 323, secondo cui, delle tre tipologie di intervento volontario codificate dall’art. 105, non darebbe luogo all’incapacità di cui all’art. 246 unicamente la legittimazione all’intervento principale, in ragione del fatto che essa, a differenza di quella relativa all’intervento litisconsortile ed all’intervento adesivo, non sarebbe facilmente determinabile a priori, con la conseguenza che non sarebbe possibile escludere ex art. 246 i possibili titolari di un diritto autonomo ed incompatibile rispetto al diritto oggetto del processo.
  • Il divieto di testimoniare per il coniuge, i parenti e gli affini in linea retta, salvo che nelle cause vertenti su questioni di stato, di separazione personale o relative a rapporti di famiglia (art. 247 c.p.c.);
  • Il divieto di testimoniare per i minori di quattordici anni, salvo che la loro audizione sia resa necessaria da particolari circostanze (art. 248 c.p.c.).

2. La questione della violazione dellart. 246 c.p.c. e l’ordinanza di remissione alle Sezioni Unite

La testimonianza resa dal teste incapace concreta, ad avviso della dottrina maggioritaria, un’ipotesi di nullità relativa, disciplinata dall’art. 157, 2° co., sanabile se non è fatta valere dal soggetto interessato nel momento immediatamente successivo all’assunzione della prova costituenda, in quanto stabilita dalla legge a tutela degli interessi delle parti e non per motivi di ordine pubblico[4].

La giurisprudenza si pone in linea con la dottrina maggioritaria, ravvisando un’ipotesi di nullità relativa (cfr. Cass. Civ. n. 23054/2009, che ha affermato che detta nullità, essendo posta a tutela dell’interesse delle parti, è configurabile come una nullità relativa e, in quanto tale, deve essere eccepita subito dopo l’espletamento della prova, rimanendo altrimenti sanata ai sensi dell’art. 157, 2° co.. In tal senso anche Cass. Civ. n. 8528/2020; Cass. Civ. n. 7095/2019; Cass. Civ. n. 23896/2016; Cass. Civ. n. 18036/2014); qualora detta eccezione venga respinta, la parte interessata ha l’onere di riproporla in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi atti di impugnazione, dovendosi la medesima, in caso contrario, ritenere rinunciata, con conseguente sanatoria della nullità stessa per acquiescenza, rilevabile d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo.

Invero, secondo le Sezioni Unite (Sez. Un. 21670/2013) la violazione dellart. 246 c.p.c. determina una nullità relativa ex art. 157 c.p.c., quindi non rilevabile dufficio in quanto il limite è stato posto a tutela di meri interessi privati e non dellordine pubblico processuale. Ne deriva che il vizio deve essere immediatamente eccepito in sede di espletamento della prova o nella prima difesa successiva, rimanendo altrimenti sanato, non essendo sufficiente l’eccezione di inammissibilità della prova  prima della sua assunzione. Leccezione in parola va, poi, reiterata in sede di precisazione delle conclusioni anche qualora il difensore, prima dell’assunzione, abbia eccepito l’incapacità del teste: qualora l’eccezione d’incapacità sia stata rigettata, essa deve essere riproposta in sede di precisazione delle conclusioni mediante istanza di revoca del provvedimento di rigetto; in caso contrario, si ritiene che sul provvedimento sia stata fatta acquiescenza e la sentenza di merito non potrà più essere impugnata per carenza di motivazione sul punto (Cass. Civ. n. 5643/2012; Cass. Civ. n. 14587/2004; Cass. Civ. n. 1840/2003). Qualora, invece, l’eccezione d’incapacità non sia stata presa in esame dal giudice avanti al quale la prova è stata espletata, la stessa deve essere formulata con apposito mezzo di gravame avanti al giudice d’appello, ovvero, se sollevata dalla parte vittoriosa in primo grado, riproposta a norma dell’art. 346 c.p.c., dovendosi in caso contrario ritenersi rinunciata, con conseguente acquiescenza (Cass. Civ. n. 10120/2019).

La giurisprudenza ritiene, altresì, che la sanatoria della nullità, di cui al combinato disposto degli artt. 246 c.p.c. e 157, 2° co., c.p.c. – che si realizza quando la parte decade dalla facoltà di eccepire l’incapacità del teste – risponda ad un principio di ordine pubblico, rappresentato da esigenze di celerità del processo nel quale gli atti non devono essere passibili di caducazione per un periodo di tempo illimitato. Ne deriva come logico corollario che la decadenza della parte dall’eccezione di nullità e la corrispondente sanatoria dell’atto nullo sono rilevabili anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo (Cass. Civ. n. 23054/2009; Cass. Civ. n. 9553/2002).

Una tesi dottrinale minoritaria, invece, qualifica le deposizioni assunte in spregio al divieto di cui all’art. 246 c.p.c. inefficaci, tali da non poter essere utilizzate dal giudice ai fini della decisione[5]. Qualora si ritenga che la testimonianza resa dall’incapace sia valida ma inefficace/inutilizzabile, la deduzione relativa alla inammissibilità della medesima testimonianza non sarebbe soggetta alla predetta decadenza, potendo la questione essere rimessa in discussione dal collegio ove sollecitato in tal senso dalla parte in sede di precisazione delle conclusioni.

Stante la difformità tra i precedenti giurisprudenziali e per l’evidente rilevanza di massima della questione, è stata di recente rimessa alle Sezioni Unite la questione circa l’effettiva portata del principio secondo cui l’incapacità a testimoniare determina la nullità della deposizione e non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata al momento dell’espletamento della prova o nella prima difesa successiva, senza che la preventiva eccezione di incapacità a testimoniare possa ritenersi comprensiva dell’eccezione di nullità della testimonianza, comunque ammessa e assunta (Cass. Civ. ord. n. 18601/2022).

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Note

[1] Satta, Diritto processuale civile, Padova, 1959, 280

[2] Andrioli, Prova testimoniale (dir. proc. civ.), in NN.D.I., XIV, Torino, 1967, 329; Carnelutti, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Roma, 1956, 294

[3] Montesano, Arieta, Trattato di diritto processuale civile, I, 2, Padova, 2001, 1308; Liebman, Manuale di diritto processuale civile. Principi, II, Milano, 2007, 382; Allorio, Contro il mediatore teste, in GI, 1953, I, 1, 1998, ora in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, 381; Mosetto, Legittimazione a testimoniare e interesse all’intervento, in GI, 1958, I, 1, 1306; Taruffo, Prova testimoniale (dir. proc. civ.), in ED, XXXVII, Milano, 1988, 729; Dondi, Prova testimoniale nel processo civile, in Digesto civ., XVI, Torino, 1997, 49

[4] Mandrioli, Diritto processuale civile, II, 20ª ed., Torino, 2009, 274

[5] Allorio, Efficacia giuridica di prove ammesse ed esperite in contrasto con un divieto di legge, in Studi in onore di B. Biondi, IV, Milano, 1965, 217

Angela Settimio

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