Prove – riprese video filmate – comportamenti non comunicativi – ambito domiciliare – prova atipica – esclusione

Sentenza n. 26795 del 28 marzo 2006 – depositata il 28 luglio 2006

(Sezioni Unite Penali, Presidente N. Marvulli, Relatore G. Lattanzi)

PROVE – RIPRESE VIDEO FILMATE – COMPORTAMENTI NON COMUNICATIVI – AMBITO DOMICILIARE – PROVA ATIPICA – ESCLUSIONE

A differenza delle riprese visive in luoghi pubblici, le videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi in ambito domiciliare, siccome acquisite in violazione dell’art. 14 Cost. (C. cost., sent. n. 135 del 2002), sono illegittime e processualmente inutilizzabili, né esse possono essere a tal fine qualificate come prova atipica ex art. 189 c.p.p., perché tale categoria presuppone comunque la formazione lecita della prova come necessaria condizione della sua ammissibilità.

PROVE – RIPRESE VIDEO FILMATE – COMPORTAMENTI NON COMUNICATIVI – LUOGHI RISERVATI – PROVA ATIPICA – CONFIGURABILITÀ – UTILIZZABILITA’ – CONDIZIONI
Le videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi in luoghi (nella specie, i privé di un locale pubblico) che, pur non costituendo domicilio, sono utilizzati per attività che si vogliono mantenere riservate, rientrano nella categoria delle prove atipiche e sono suscettibili di utilizzazione probatoria sempre che siano eseguite sulla base di un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria.

Tribunale di Bologna Sez. Riesame ud. 18 Settembre 2006 Kachtanova+2

 

Va invero accolta l’eccezione di inutilizzabilità delle video-riprese all’interno dei privè del locale il Capriccio, posto che, indipendentemente dal fatto che atteggiamenti a sfondo sessuale possano o meno integrare comportamenti comunicativi – ciò in funzione dell’inclusione tra le prove tipiche o tra quelle atipiche dei risultati delle captazioni in luoghi, quali i privè, che, pur destinati ad attività riservate, non sono inquadrabili nell’ambito del domicilio privato, come da sentenza delle S.U. Della Corte di Cassazione n. 26795/06 del 28.7.2006 – è dato rilevare, nel decreto autorizzativo del G.I.P. procedente datato 22.11.2005, la totale mancanza di motivazione delle ragioni giustificanti le riprese visive; ancorché il G.I.P. abbia, nella parte dispositiva del decreto, autorizzato “le operazioni di intercettazione in conformità alla richiesta” del P.M., egli ha esclusivamente fatto riferimento, nella parte motiva, alle intercettazioni delle conversazioni tra presenti, sancendone la necessità ai fini probatori per la prosecuzione delle indagini e per l’accertamento di ulteriori comportamenti illeciti; il richiamo per relationem alla richiesta del P.M., contenuto nella parte introduttiva del decreto autorizzativo, non soddisfa l’onere motivazionale, posto anche in detta richiesta, pur conclusasi con l’istanza di autorizzazione ad intercettazioni audio-visive, nulla si dice in ordine alla necessità ed indifferibilità della captazione delle immagini, con particolare riferimento ai comportamenti intersoggettivi all’interno dei privè; il P.M. ha infatti fatto riferimento solo all’indispensabilità di “intercettazione delle conversazioni/comunicazioni telefoniche che interverranno sulle utenze di cui infra e delle comunicazioni tra presenti (cd ambientali) da eseguirsi nei luoghi appresso indicati” – la corposa richiesta di ben 9 pagine non assolve alcun onere motivazionale in ordine alle necessità probatorie delle video-riprese, essendo in essa contenuto solo il resoconto delle indagini nel frattempo espletate;

– le video-registrazioni effettuate nel presente procedimento all’interno dei privè-video-registrazioni che costituiscono prova atipica ai sensi dell’art. 189 cpp e che devono essere autorizzate con congrua motivazione (cfr Cass. Pen. S.U. Sent. 26795/06 del 28.7.2006) – non possono quindi essere utilizzate per valutare gli indizi a carico degli indagati; non ugualmente si conclude per le audio registrazioni delle conversazioni tra presenti, pienamente utilizzabili, posto che di esse è stata esplicitata la necessità probatoria e la loro indifferibilità con motivazione congrua ed esauriente;

 
 
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PREMESSA
 

La pronunzia del Supremo Collegio (nonchè la allegata decisione del Tribunale di Bologna, Sezione Riesame nella parte che ne recepisce i principi prodromici), che in questa sede si esamina, affronta il problema della qualificazione giuridica delle videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi, operate in ambito domiciliare ed in luoghi privati e riservati, ma non domiciliari.

I giudici di legittimità, in primo luogo, ribadiscono quale denominatore comune ad entrambe le ipotesi prese in esame quello della indefettibile necessità di un preliminare provvedimento autorizzativo ad hoc da parte del giudice.

In assenza dello stesso (od in presenza di carenza di motivazione delle specifiche ragioni che ne giustifichino l’adozione) si verte in ambito di inutilizzabilità delle risultanze fattuali derivate dall’esecuzione del mezzo di prova.

E’, infatti, evidente che la rilevante insidiosità del mezzo di ricerca della prova in questione rispetto alla sfera di libertà e riservatezza delle comunicazioni comporta la necessità di un controllo penetrante circa l’esistenza delle esigenze investigative e la finalizzazione delle intercettazioni al relativo soddisfacimento.

La motivaizone, quindi, assolve ad una funzione che non è quella di asseverazione di una ipotesi di accusa, che potrebeb esserte ancora teorica.

Sul punto la Sezione II della corte di Cassazione, con la pronuncia 1 Marzo 2005, n. 10881, Gatto e altri, Guida al Diritto, 2005, 17, 82, ha affermato che la motivazione del decreto non deve esprimere una valutazione sulla fondatezza dell’accusa, ma solo un vaglio di effettiva serietà del progetto investigativo, conseguendone che la principale funzione di garanzia della motivazione del decreto risiede nell’individuazione della specifica vicenda criminosa cui l’autorizzazione si riferisce, in modo da prevenire il rischio di autorizzazione in bianco.

Per meglio inquadrare nei suoi tratti generali il tema, va detto che l’inutilizzabilità configura una sanzione processuale che si distingue in : 1.< > ipotesi estrema e residuale, ravvisabile solo con riguardo a quegli atti la cui assunzione sia avvenuta in modo contrastante con i principi fondamentali dell’ordinamento o tale da pregiudicare in modo grave ed insuperabile il diritto di difesa dell’imputato (Cfr. Cass. pen. Sez. III, 24 Gennaio 2006, n. 6757, Gatti, Arch. Nuova Proc. Pen., 2006, 3, 298)[1],   la utilizzazione di tali atti probatori, assunti contra legem, è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in tutte le altre fasi del procedimento.

Secondo Cass. Sez. IV (3 marzo 2006, n. 7664) “Nel descritto fenomeno rientrano tanto le prove oggettivamente vietate quanto le prove comunque formate o acquisite in violazione – o con modalità lesive – dei diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione e, perciò, assoluti e irrinunciabili, a prescindere dall’esistenza di un espresso o tacito divieto al loro impiego nel procedimento contenuto nella legge processuale…..In questi casi la disciplina normativa costruisce il divieto di utilizzazione della prova in termini di operatività assoluta.[2] ;

2.<>cioè quella coessenziale ai peculiari connotati del processo accusatorio, in virtù dei quali il giudice non può utilizzare prove, pure assunte secundum legem, ma diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento secondo l’articolo 526 c.p.p., con i correlati divieti di lettura di cui all’articolo 514 c.p.p.. In tale situazione l’eventuale il vizio dell’atto probatorio è vanificato dalal scelta del rito a prova contratta, in virtù del quale acquisiscono a dignità di prova quegli atti d’indagine compiuti senza le forme del contraddittorio dibattimentale.

3. <> concernente atti all’origine conformi allo stereotipo normativo, ma afflitti da un vizio sopravvenuto come ad esempio quella prevista dall’art. 350 c.p.p., comma 7 c.p.p. per le dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria dall’indagato(Cfr. Trib. Camerino, 13 Dicembre 2005, Arch. Nuova Proc. Pen., 2006, 2, 202) o quella di cui all’articolo 360 c.p.p., comma 5, per l’accertamento tecnico non ripetibile eseguito dal Pubblico Ministero in difetto delle condizioni indicate.

Si tratta di sanzioni processuali che attengono precipuamente alla fase dibattimentale.

Esaurita tale premessa, si deve valutare la fondatezza delle ragioni che inducono a scelte differenti, in relazione a comportamenti non comunicativi, a seconda che si verta in ambito domestico o meramente privato.

 

DEFINIZIONE DI COMPORTAMENTI NON COMUNICATIVI.

 

La definizione di comportamenti non comunicativi è desumibile in parallelo, considerando in via preliminare ciò che la giurisprudenza definisce come comunicazione.

La nota sentenza Greco (Cass. pen. Sez. VI, 10 Novembre 1997, n. 4397, in Cass. Pen., 1999, 1188 nota di CAMON, Dir. Pen. e Processo, 1998, 10, 1265, Studium juris, 1998, 542) affermò, infatti, che “la nozione di comunicazione consiste nello scambio di messaggi fra più soggetti, in qualsiasi modo realizzati (ad esempio, tramite colloquio orale o anche gestuale)….” e che “l’attività di intercettazione è appunto diretta a captare tali messaggi,”

Nel corpo della medesima pronunzia il Supremo Collegio sostenne, poi, che attività del tutto differente dall’usuale azione intercettativa sopra descritta, è quella di “captare immagini relative alla mera presenza di cose o persone o ai loro movimenti, non funzionali alla captazione di messaggi”.

All’evidenza emerse, quindi che, nella prima fattispecie, lo scopo era quello di percepire sul piano uditivo ed interpretativo conversazioni, onde inferire da esse contenuti illeciti (già di per sé prove di reato oppure prodromiche a successivi ulteriori condotte criminose anche di terzi), mentre nella seconda ipotesi l’attività di indagine, prettamente visiva, era finalizzata a provare la presenza di uno o più soggetti in un luogo, in un preciso momento (circostanza che può fungere da elementi di conferma di altri e diversi elementi di prova).

La ratio dei due mezzi di prova, profondamente diversa, in quanto essi possono apparire solo all’apparenza similari fra loro, ha condizionato e non poco la collocazione degli stessi nella sistematica del codice di rito.

L’approdo giurisprudenziale sul punto, infatti, è stato quello di ritenere che “Le riprese videofilmate costituiscono prove documentali non disciplinate dalla legge, previste dall’art. 189 c.p.p. e pertanto non possono considerarsi assimilabili al "genus" delle intercettazioni di comunicazioni e conversazioni. Ne discende che ad esse non si applica la disciplina prevista dagli artt. 266 c.p.p. e segg., fermo restando il limite della tutela della libertà domiciliare di cui all’art. 14 Cost., che va valutato di volta in volta” [Cfr. Cass. pen. Sez. V, 7 Maggio 2004, n. 24715 (rv. 228732) Massa e altri Arch. Nuova Proc. Pen., 2005, 526CED Cassazione, 2004Riv. Pen., 2005, 637].

Conformemente si è espressa la Sez. VI, con la decisione 21 Gennaio 2004 (rv. 229003) Flori, CED Cassazione, 2004 Arch. Nuova Proc. Pen., 2005, 525, sostenendo che “Le riprese videofilmate costituiscono, ai sensi dell’art. 189 c.p.p. prove documentali non disciplinate dalla legge, come tali non soggette alle disposizioni che regolano l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni e, dunque, quando non sussistano limiti connessi all’inviolabilità del domicilio, possono essere liberamente disposte ed effettuate. Ne consegue che non è configurabile alcuna sanzione di inutilizzabilità quando dette riprese siano state realizzate a seguito di informazioni fornite da anonimi”.

 

LE VIDEOREGISTRAZIONI QUALI PROVE ATIPICHE EX ART. 189 C.P.P. ED I LIMITI ALL’UTILIZZABILITA’ DEI RISULTATI DI TALE ATTIVITA’ DI INDAGINE.

 

Il principio, così espresso, in sede di legittimità, e trasfuso nelle massime che precedono ha sancito, inoltre, con nettezza ed univocità il carattere di prova atipica propria della ripresa filmata.

La ulteriore conseguenza che è, così, derivata si pone nel senso che il mezzo di prova in questione, per il fine che persegue e per la sua natura tecnica, rientrando esclusivamente nella previsione dell’art. 189 c.p.p.[3], rimane assolutamente ultroneo alla disciplina concernente le intercettazioni sia telefoniche, che ambientali.

In relazione agli esiti che derivano dall’attivazione del mezzo di ricerca della prova si deve osservare che essi rientrano nel novero delle prove documentali indicate nell’art. 234 co. 1 c.p.p. .

Ma vi è di più.

Il mancato inserimento delle riprese video filmate nella metodica delle intercettazioni di conversazioni fa sì che il limite in base al quale debba essere valutata l’utilizzabilità del mezzo di prova e degli elementi che in forza dello stesso sono stati raccolti sia quello dell’art. 14[4] della Costituzione [Cfr. Sez. IV, 18 Giugno 2003, n. 44484 (rv. 226407), Kazazi, Riv. Pen., 2004, 912, Arch. Nuova Proc. Pen., 2004, 589].

Viene, così, introdotta un’ulteriore tematica concernente l’effettivo ambito di valida utilizzazione della videoripresa a fini processuali e probatori.

Essa si sostanzia di un doppio binario, puramente apparente, perché se: da un lato, infatti, va distinta l’ipotesi di comportamenti non comunicativi percepiti in ambito domiciliare e dall’altro, ci si deve soffermare sul caso in cui la videoregistrazione avvenga in un luogo che pur utilizzato per attività riservate e private, non rientra nel concetto di domicilio, si può tranquillamente constatare che le due ipotesi non presentano, in realtà, sul piano dei presupposti giustificativi e dei requisiti specifici del decreto autorizzativo, che entrambi postulano, modifiche apprezzabili.

Essi, infatti, vengono in gioco, laddove sostengono un regime processuale che si differisce, invece, radicalmente da quello concernente video riprese effettuate in luoghi pubblici.

 
LA DEFINIZIONE DI DOMICILIO ED I LUOGHI IN ESSA RICOMPRESI.
 

Ad ogni buon conto, di particolare rilievo appare il fine di giungere a formulare una corretta definizione del concetto di domicilio.

In ordine a tale nozione sono stati versati fiumi di inchiostro, sino a che la Corte Costituzionale, con l’ordinanza 24 Aprile 2002 n. 135, non ha posto alcuni limiti precisi alla materia.

Il giudice delle leggi ha avuto modo di affermare la compatibilità della videoregistrazione (nonostante per la capacità dimostrativa fortemente intrusiva, carica di effetti lesivi per il diritto alla riservatezza personale e delle comunicazioni, specie nei casi di invasione del domicilio) precisando che “le tipologie di «limitazione» del diritto alla inviolabilità del domicilio, come indicate dal comma 2 dell’art. 14 della Carta, non rappresentano una lista chiusa, cristallizzata sulla base delle forme di investigazione conosciute all’epoca della Costituente, e dunque non configurano una tolleranza per le sole forme palesi di intrusione dell’Autorità, che solo l’evoluzione tecnologica successiva ha reso oggetto di specifica attenzione da parte dell’ordinamento; si tratta semplicemente, per il legislatore, di regolare il fenomeno attraverso adeguati istituti e procedimenti di garanzia[5] (Corte cost., 24 aprile 2002, n. 135, con nota di L. Carli, Videoregistrazione di immagini e tipizzazione di prove atipiche; sulla pronuncia anche R. Bricchetti, Spetta al legislatore regolamentare le riprese di tipo non comunicativo, in Guida dir., 2002, 20, 73).

Sta, comunque, di fatto che in giurisprudenza sono stati considerati luoghi destinati a privata dimora anche quegli spazi, quali i cortili e i giardini, che costituiscono parte integrante dell’abitazione, della quale sono destinati al servizio o al migliore godimento (Cfr. Trib. Genova, 7 Novembre 2005, M.R., Massima redazionale, 2005)

Ed ancora la Sez. I Civ., [24 Marzo 2005, n. 6361 (rv. 580829), Mass. Giur. It., 2005, CED Cassazione, 2005] ha ritenuto che il parametro atto ad identificare la nozione di "privata dimora" coincida con la nozione rilevante agli effetti del reato di violazione di domicilio ( art. 614 c.p.), e dunque comprende non soltanto la casa di abitazione, ma anche qualsiasi luogo destinato permanentemente o transitoriamente all’esplicazione della vita privata o di attività lavorativa, e, quindi, qualunque luogo, anche se – appunto – diverso dalla casa di abitazione, in cui la persona si soffermi per compiere, pur se in modo contingente e provvisorio, atti della sua vita privata riconducibili al lavoro, al commercio, allo studio, allo svago.

Si tratta di una costruzione dommatica contestata in dottrina da Bertossi[6], la quale afferma che la nozione di domicilio accolta dal legislatore costituente è diversa e più ampia di quella accolta dal codice penale, posto che la tutela costituzionale si riferisce non solo alle private dimore e ai luoghi che, pur non costituendo dimora, consentono una sia pur temporanea ed esclusiva disponibilità dello spazio ma anche dei luoghi nei quali è temporaneamente garantita un’area di intimità e di riservatezza.

Tale tesi è ritenuta dall’Autore, che richiama la pronunzia n. 29169/03 della Sez. III della Corte di Cassazione, l’unica compatibile con l’art. 8 Convenzione europea dei diritti umani, la quale sancisce il diritto di ogni persona al «rispetto della sua vita privata», facendo divieto di ogni «interferenza di una autorità pubblica nell’esercizio di questo diritto a meno che l’ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura (…) necessaria (…) per la prevenzione dei reati (…)»

Dalle guarentigie che derivano dal concetto in esame sono state, invece, escluse le strutture carcerarie, essendo ritenuta ammissibile e legittima l’intercettazione delle conversazioni dei detenuti anche se non sussiste il fondato timore che all’interno della cella si stia svolgendo attività criminosa [Cfr. Cass. pen. Sez. VI, 23 Febbraio 2004, n. 36273 (rv. 229808), Agate, Arch. Nuova Proc. Pen., 2005, 717, CED Cassazione, 2004].

La Suprema Corte, infatti, pur richiamando la regola generale in base alla quale l’art. 13 D.L. n. 152 del 1991, ha previsto che qualora il procedimento abbia ad oggetto reati di criminalità organizzata, l’intercettazione nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p. sia consentita anche se non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo attività criminosa, in pari tempo ha recisamente escluso “che l’ambiente carcerario, sia esso la cella o la sala colloqui dell’istituto di detenzione, rientri nel concetto di privata dimora nel possesso e nella disponibilità dei detenuti, in quanto è pur sempre un luogo sottoposto ad un diretto controllo dell’Amministrazione penitenziaria che su di esso esercita la vigilanza ed a cui soltanto compete lo ius excludendi".

Con ciò è stata confermata una visione giurisprudenziale costante (Cfr. Cass., Sez. VI, 9 giugno 2003, Betta, in Mass. Uff., 226333; Sez. VI, 5 novembre 1999, Bembi, in Giust. Pen., 2000, III, 670; Sez. II, 20 novembre 1997, Marras, in Cass. Pen., 1999, 1518 e Sez. I, 3 marzo 1997, Telese, in Giust. Pen., 1998, III, 178), ripresa recentemente anche sotto il profilo dottrinale sia da Aprile-Spiezia, Le intercettazioni telefoniche e ambientali, Innovazioni tecnologiche e nuove questioni giuridiche, Milano, 2004, 66 e segg. che da Balducci, Le garanzie nelle intercettazioni tra Costituzione e legge ordinaria, Milano, 2002, 16 e segg. .

Una definizione, comunque, appagante del concetto di privata dimora, viene fornita da Sini[7], che afferma che si deve intendere come tale, rifacendosi alla posizione della giurisprudenza di legittimità[8]quello adibito all’esercizio di attività che ognuno ha il diritto di svolgere liberamente e legittimamente senza turbativa da parte di estranei; deve cioè trattarsi di luoghi che assolvano attualmente e concretamente la funzione di proteggere la vita privata di coloro che li posseggono, i quali sono titolari dello ius excludendi alios al fine di tutelare il diritto alla riservatezza nello svolgimento delle manifestazioni della vita privata della persona che l’art. 14 Cost. garantisce, proclamando l’inviolabilità del domicilio”.

 

I RISULTATI INVESTIGATIVI PROCESSUALMENTE UTILIZZABILI ED IL DOVERE DI MOTIVAZIONE.

 

Ciò posto, si deve osservare che conclusione consequenziale è quella cui è pervenuta la Sez. IV della Corte di Cassazione, con la sentenza 16 Marzo 2000, n. 7063, Viskovic e Viskovic e altri, (in Dir. Pen. e Processo, 2001, 1, 87 nota di FILIPPI), laddove ha sostenuto che i risultati delle riprese visive in ambienti tutelati dall’art. 14 Cost., [ergo private dimore] sono utilizzabili nel processo se rispettano il livello minimo di garanzie previste da questa disposizione, cioè se la limitazione del diritto alla riservatezza sia disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria, e, quindi, anche con provvedimento motivato del p.m. .

Tale orientamento si pone in linea armonica con quella parte della dottrina (peraltro assolutamente condivisibile) che pur mantenendo vigile ed inalterato il ricordato principio dell’atipicità, assimila, sotto il profilo sistematico, la videoripresa (o videoregistrazione), alla disciplina delle ispezioni.

Carli, in un proprio commento alla sentenza 135/02 della Consulta (in Dir. Pen. e Processo, 2003, 1, 37) sostiene la ontologica riconducibilità della videoregistrazione alla tipologia dell’ispezione e fa conseguire a tale premessa la considerazione che, “anche nei casi di assoluta urgenza, secondo quanto si ricava dall’art. 244 comma 1 c.p.p. in combinato disposto con i commi 5 e 6 dell’art. 364, la videoregistrazione, proprio in quanto assimilabile ad un’ispezione, debba essere sempre preceduta da un decreto ad hoc dell’autorità giudiziaria. La quale è tenuta peraltro, in ossequio al capoverso dell’art. 13 Cost., a fornirne in proposito specifica motivazione in fatto e diritto.”

Nel dovere di motivare la scelta di operare tramite un mezzo di ricerca della prova dotato di particolare ed indubbia invasività, quindi, riposa il carattere comune sia alla videoregistrazione operata in un luogo rientrante nell’alveo del privato domicilio, che a quella svolta in siti che, comunque, siano destinati ad attività di natura privata (come nello specifico i privè di un circolo).

E’ questo, pertanto, il denominatore comune che differenzia le fattispecie testè rammentate rispetto alla categoria generale della videoripresa in locali pubblici.

La Corte, inoltre, con la sentenza che si commenta, esclude, pertanto, tassativamente la possibilità di un utilizzo improprio del carattere di atipicità della prova, nel senso che siffatto concetto, sinonimo del potere riconosciuto al giudice dal nuovo sistema processuale, di assumere prove non disciplinate dalla legge, purchè ne verifichi l’ammissibilità e l’affidabilità (Cfr. Cass. pen. Sez. III, 22 Gennaio 1997, n. 2065, Winkler, Cass. Pen., 1998, 2384, Giust. Pen., 1998, III, 121) non può significare deroga ai limiti costituzionalmente sanciti a tutela del domicilio e dei luoghi ad essi consimilari.

È, pertanto, necessario invece, che, per dirla con il Carli, che “sia in ogni caso rispettato, con la «libertà morale» del cittadino, il principio costituzionale dell’indicata doppia riserva, di legge e di giurisdizione. Ossia, che la legge disciplini e preveda in via generale il «mezzo di ricerca della prova» e l’autorità giudiziaria possa pronunciarsi nel concreto sulla sua corretta attuazione”.

La classificazione della prova come atipica, quindi, attiene solo alla possibilità che nel novero degli elementi, che le parti possono addurre, nell’esercizio della dialettica propria del contraddittorio su cui si regge il processo penale, si possa fare riferimento a dati privi del connotato della predeterminazione legislativa in ossequio ai principi della non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento. (Cfr. Cass. pen. Sez. V, 7 Dicembre 2004, n. 5672, Scoppa, Guida al Diritto, 2005, 11, 97).

L’autonomia della categoria probatoria in oggetto, conseguenza dell’assenza di una previsione codicistica di tassatività delle prova e dei relativi mezzi di raccolta, non sfugge, né può sfuggire, quindi, soprattutto alla sottoposizione al principio generale dell’onere di motivazione, a pena di inutilizzabilità.

La ragione di tale manifesta preoccupazione appare lampante, in quanto non sarebbe per nulla tollerabile, in fatto ed in diritto, una situazione di impossibilità all’esercizio di un valido e penetrante controllo, da parte di un giudice realmente terzo, in ordine all’impulso che abbia indotto a dare corso a simile attività investigativa.

La prevenzione di qualsivoglia forma di abuso in materia è, pertanto, doverosa ed è fine rispetto al quale non è ammessa abdicazione di alcun genere.

In proposito, quindi, va sottolineato come la pronunzia del Tribunale di Bologna, che a completamento della sentenza del Supremo Collegio, si allega, ponga l’accento sulla necessità di fornire una motivazione ad hoc nel caso si verta in ambito di pluralità di mezzi di raccolta della prova, in relazione ad ognuno di essi, attesa l’individualità e l’autonomia ravvisabile in simile ipotesi.

Vale a dire che se, al contempo, si intende dare corso ad intercettazioni telefoniche o ambientali e corroborare le stesse con riprese video, non è configurabile la possibilità di una motivazione tout- court che giustifichi l’attività nel suo complesso, facendo rientrare la videoripresa nell’ampio genus della previsione intercettativa.

Senza, infatti, reiterare la già ricordata, quanto evidente distinzione ontologica ed eziologica che si riscontra fra intercettazione e video ripresa di condotte non comunicative, non è revocabile in dubbio che proprio tale differenza esclude ogni possibile ricorso ad una motivazione globalizzante e priva di caratteri individualizzanti lo specifico atto ed ogni possibile confusione qualificativa tra i due strumenti di acquisizione probatoria.

Si impone, pertanto – e sul punto il Tribunale appare condivisibilmente categorico – un riferimento esplicito alla necessità ed indifferibilità della captazione delle immagini, con particolare riferimento ai comportamenti intersoggettivi all’interno dei luoghi privati oggetto dell’investigazione, siano essi concretanti il vero e proprio domicilio, sia essi assurgano solamente a luoghi di carattere privato.

 
Rimini, lì 17 Ottobre 2006
 
Carlo Alberto Zaina
 


[1]           Per gli effetti dell’inutilizzabilità cfr. Cass. pen. Sez. II, 12-01-2006, n. 2817 (rv. 232868), Princi, CED Cassazione, 2006 “L’inutilizzabilità delle intercettazioni eseguite fuori dai casi consentiti o nell’inosservanza delle disposizioni stabilite dagli artt. 267 e 268, commi primo e terzo, cod. proc. pen. attiene non soltanto al contenuto delle conversazioni ma anche ad ogni altro dato da esse desumibile, come le generalità dei soggetti coinvolti nella captazione, dal momento che si tratta di dato informativo non desunto da altri accertamenti ma proprio e soltanto dai risultati delle intercettazioni”.

[2]              Prosegue la sentenza richiamando “ Cass. S.U. 13 luglio 1998, Gallieri e Cass. S.U. 23 febbraio 2000, D’Amuri, in tema di tabulati telefonici; Cass. S.U. 25 marzo 1998, D’Abramo e Cass. S.U. 25 marzo 1998, Savino, sulle modalità di documentazione dell’interrogatorio di persona in stato di detenzione; Cass. S.U. 20 novembre 1996, Glicora e Cass. S.U. 27 marzo 1996, Monteleone, sulle conseguenze della mancata allegazione al giudice per le indagini preliminari o al tribunale della libertà dei decreti autorizzativi di intercettazioni telefoniche, ai fini della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza”.

[3]           ART. 189 C.P.P. PROVE NON DISCIPLINATE DALLA LEGGE

            1 . QUANDO È RICHIESTA UNA PROVA NON DISCIPLINATA DALLA LEGGE, IL GIUDICE PUÒ ASSUMERLA SE ESSA RISULTA IDONEA AD ASSICURARE L’ACCERTAMENTO DEI FATTI E NON PREGIUDICA LA LIBERTÀ MORALE DELLA PERSONA. IL GIUDICE PROVVEDE ALL’AMMISSIONE, SENTITE LE PARTI SULLE MODALITÀ DI ASSUNZIONE DELLA PROVA.

[4]           Art. 14 Costituzione.

            Il domicilio è inviolabile.

            Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale.

            Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali.

 

[5]              OSSERVATORIO DEI CONTRASTI GIURISPRUDENZIALI Leo Guglielmo art. 234 c.p.p.. art. 266,Dir. Pen. e Processo, 2003, 11, 1347

[6]              INTERCETTAZIONI AMBIENTALI E TUTELA DELLA LIBERTÀ DOMICILIARE Bertossi Cinzia Cass. pen. Sez. III, 11-06-2003, n. 29169, Dir. Pen. e Processo, 2004, 7, 869

[7]           Nota sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 266, 2° comma, c. p. p., nella parte in cui consente l’intercettazione delle comunicazioni dei detenuti in carcere, anche in assenza del fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo attività criminosa, Cass. pen. Sez. VI, 23-02-2004, n. 36273, Giur. It., 2005, 10, Diritto e Procedura Penale.

[8]           Cass., Sez. II, 20 novembre 1997, Marras, cit.; nonché Id., Sez. I, 22 gennaio 1996, Porcaro, ivi, 1997, 1082; Id., Sez. I, 20 dicembre 1991, Marsella, ivi, 1995, 989.

Zaina Carlo Alberto

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