L’autotutela amministrativa tra revoca in autotutela e annullamento d’ufficio

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Approfondimento sui provvedimenti di secondo grado: l’autotutela amministrativa tra revoca in autotutela e annullamento d’ufficio.

Indice

1. L’autotutela amministrativa

L’autotutela amministrativa è la capacità di cui dispone l’amministrazione al fine di risolvere da sé i conflitti che la riguardando, senza dover ricorrere alla decisione del giudice amministrativo.
L’autotutela amministrativa si fonda sulla previsione dell’articolo 1 della legge del 7 agosto 1990, n. 241, c.d. legge sul procedimento amministrativo, laddove dispone che l’azione amministrativa persegue determinati fini di legge, nel rispetto dei criteri di imparzialità, efficacia, economicità, pubblicità e trasparenza e, in particolare, nel canone dell’efficacia si ritiene che possa essere ricompreso il potere di adeguare la decisione ai mutamenti della fattispecie. Nello specifico, gli articoli 21-quiquies e 21-nonies della legge del 7 agosto 1990, n. 241, adottano un’impostazione vicina a quella dell’autotutela.

2. La revoca in autotutela

L’articolo 21 quinquies fissa i presupposti per la revocabilità dell’atto amministrativo, statuendo che “Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento o, salvo che per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario”  il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. Trattasi della c.d. revoca in autotutela che determina l’inidoneità del provvedimento revocato a produrre effetti ulteriori.
Nella disposizione indicata vengono in rilievo tre ipotesi alternative che rappresentano la base al fine di disporre un provvedimento di revoca, ovvero, (i) la sopravvenienza di ragioni di pubblico interesse, ovvero (ii) una diversa valutazione di quello originariamente dedotto nell’atto, oppure (iii) laddove a mutare sia la situazione di fatto. Inoltre, si evince che l’oggetto della revoca possono essere solamente i provvedimenti amministrativi ad efficacia durevole al fine di impedire che gli stessi possano produrre ulteriori effetti.
Va detto, inoltre, che laddove dalla revoca del provvedimento derivino pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di indennizzarli.
Ciò premesso si evidenzia che la nozione di revoca è sempre stata particolarmente problematica, soprattutto perché ha faticato a liberarsi delle ambiguità di cui a lungo è stata circondata. La giurisprudenza ordinariamente distingue tra l’annullamento e la revoca in ragione del fatto che il primo deriverebbe da un vizio di legittimità e la seconda da ragioni di (sopravvenuta) inopportunità.
La questione del fondamento della potestà di revocare il provvedimento amministrativo a fronte del verificarsi di condizioni che lo rendono contrastante con l’interesse pubblico ha profondamente contribuito alle difficoltà della ricostruzione della nozione dell’atto di revoca, poiché il dibattito relativo al fondamento di quest’ultimo è per lo più coinciso con quello concernente l’autotutela in quanto tale. Anche con riferimento alla revoca, quindi, si va dall’idea per la quale si sarebbe innanzi ad un nuovo esercizio del potere sostanziale esercitato con l’atto oggetto di revoca a fronte del mutare dell’interesse pubblico, sostanziandosi in un effetto abrogativo dell’effetto dell’atto revocato, a quella per la quale si sarebbe innanzi ad esercizio di potere di autotutela a fronte di vizi di merito. La legge ha espressamente risolto il problema del fondamento del potere di revoca.
Bisogna considerare, inoltre, che la revoca in autotutela agisce senza una vera e propria categorizzazione dietro, ovvero bisogna porre in essere la valutazione dell’interesse pubblico che, in quanto mutevole, fa sì che l’atto revocato al momento della sua adozione era strettamente collegato all’interesse pubblico, che è potenzialmente mutevole. Inoltre, la revoca, diversamente dall’annullamento d’ufficio, risponde a norme non giuridiche quali eticità, equità, economicità, opportunità e convenienza. Oggi, la legge limita la revocabilità ai soli atti “ad efficacia durevole” tale da considerare che la revoca opera ex nunc e, quindi, l’atto revocato non può produrre effetti ulteriori.

3. L’annullamento d’ufficio

L’art. 21 nonies della legge del 7 agosto 1990, n. 241, al comma 1, statuisce che “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
tale disposizione definisce gli elementi dell’annullamento d’ufficio. Il primo elemento essenziale, funzionale a distinguere l’annullamento dalla revoca, è dato dalla illegittimità del provvedimento annullato.  In secondo luogo, per provvedere all’annullamento occorre che sussistano “ragioni di interesse pubblico”.  In terzo luogo, la legge prevede che l’annullamento deve intervenire “entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressato”, anche se tale previsione non trova applicazione per gli atti di cui al DPR 445/2000.Infine, la legge prevede che l’annullamento debba essere adottato “dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”. Nulla si dice invece dell’effetto dell’annullamento, ancorché si ritenga diffusamente che l’annullamento determini l’eliminazione ex tunc, retroattivo, dell’efficacia dell’atto ritirato, sicché vengono travolti gli effetti giuridici prodotti dal provvedimento annullato e si ricostruisce una situazione corrispondente a quella preesistente la sua emanazione. Nondimeno, la retroattività dell’annullamento trova un limite nell’impossibilità di eliminare gli effetti irreversibili medio tempore determinatisi. È il caso, ad esempio, della corresponsione della retribuzione per le prestazioni effettivamente fornite del dipendente illegittimamente assunto, promosso o assegnato a mansioni superiori.

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Armando Pellegrino

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