Pubblica amministrazione e tutela dell’affidamento del privato

Fabiana Vaino 28/01/21
A cura della dott.ssa Filomena Farina e della dott.ssa Fabiana Vaino

  1. Il principio dell’affidamento

Elaborato dalla giurisprudenza e dalla dottrina, il ‘legittimo affidamento’ costituisce un principio fondamentale dell’azione amministrativa, che si sostanzia nell’interesse del privato alla tutela di una situazione che si è definita nella realtà giuridica per effetto di atti e comportamenti della Pubblica Amministrazione.

Preliminarmente, occorre precisare che il principio della tutela dell’affidamento costituisce una tematica fortemente implicata in quella dell’‘apparenza del diritto’, atteso che essa pone il problema di capire se si possa o meno accordare tutela a chi confida in una situazione che appare conforme al diritto ma che, tuttavia, non lo è.

La giurisprudenza1 è oggi concorde nel ritenere che, affinché l’affidamento possa dirsi meritevole di tutela risarcitoria da parte dell’ordinamento giuridico, deve innanzitutto sussistere un vantaggio per il privato a seguito della situazione giuridica apparente, vantaggio che deve risultare in maniera chiara ed univoca da un altrui atteggiamento.

In secondo luogo, l’utilità che il privato pretende di difendere deve essere stata conseguita in buona fede, dato che è escluso che l’ordinamento possa accordare tutela ad una situazione giuridica vantaggiosa conseguita mediante comportamenti ingannevoli o fraudolenti.

Infine, è necessario che l’affidamento si sia consolidato nel tempo, ossia che il privato abbia conservato l’utilità per un arco di tempo tale da convincerlo, oramai, della sua stabilità.

La tutela dell’affidamento è un principio non scritto, atteso che è opinione diffusa che nel nostro ordinamento esso trovi origine nella clausola generale della ‘buona fede’, che esprime il dovere di qualunque individuo di comportarsi lealmente nell’ambito di un rapporto giuridico, in modo tale da tutelare la posizione del soggetto con cui si entra in contatto.

Il principio della buona fede, secondo la tesi prevalente, trova copertura costituzionale nell’art. 2 della nostra Carta fondamentale, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo: ne consegue che la tutela dell’affidamento non necessita di una previsione legislativa espressa, perché essa è manifestazione di uno dei principi più importanti riconosciuti nel nostro ordinamento.

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  1. Evoluzione del principio

La tutela dell’affidamento non è sempre stata pacifica in relazione al settore amministrativo.

In particolare, la questione che è stata al centro di un acceso dibattito dogmatico e giurisprudenziale, è stata quella della configurabilità o meno in capo alla Pubblica Amministrazione di un dovere, soprattutto in sede di esercizio del potere di autotutela, di salvaguardare le situazioni soggettive vantaggiose per il privato, conseguenti ad atti e comportamenti della PA, tali da ingenerare, appunto, un ragionevole affidamento nel destinatario.

Secondo una risalente scuola di pensiero, il privato non vantava alcun legittimo affidamento nei confronti della Pubblica Amministrazione, e questo perché andava sempre preferita la tutela dell’interesse pubblico sotteso all’attività amministrativa, che giammai poteva essere sacrificato, anche se ciò andava a discapito di situazioni giuridiche oramai consolidate per il privato.

Questa tesi è stata, tuttavia, successivamente abbandonata a fronte di una importantissima pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea2 di fine anni ’50, che per la prima volta ha enunciato il dovere della Pubblica Amministrazione di tenere conto del legittimo affidamento del privato come limite all’esercizio del potere di autotutela.

I giudici europei hanno evidenziato la necessità di bilanciare due interessi contrapposti, vale a dire, da un lato, l’interesse pubblico alla rimozione di un provvedimento viziato e, dall’altro, l’interesse privato al mantenimento della posizione acquisita.

Secondo la Corte di Giustizia Europea, tale bilanciamento doveva concludersi nel senso di sacrificare l’interesse pubblico in favore della tutela dell’affidamento del privato solo in presenza di un ‘fattore temporale’ e dell’elemento soggettivo della ‘buona fede’.

Cioè, dinnanzi ad un provvedimento amministrativo illegittimo, ove la illegittimità in nessun caso dipendeva dal dolo o dalla colpa del destinatario e dal quale era sorta una situazione di vantaggio per il privato venutasi progressivamente a consolidare nel corso del tempo, si poneva la necessità di tutelare il privato che avesse fatto affidamento nella stabilità e certezza del rapporto giuridico instauratosi per effetto del provvedimento amministrativo.

La tutela dell’affidamento è stata elevata definitivamente dalla sentenza Topfer degli anni ’70 della Corte di Lussemburgo3 a principio di rango comunitario, indissolubilmente legato al principio di certezza dei rapporti giuridici, ed inteso quindi come postulato secondo cui il privato ha un interesse pretensivo ad una produzione normativa stabile, sicché possa contare sulla certezza delle leggi e degli atti emessi dalle istituzioni pubbliche.

  1. Il principio dell’affidamento e la Legge n. 241 del 1990

La dogmatica italiana ha evidenziato come la giurisprudenza europea abbia indubbiamente influenzato il legislatore italiano, che nel disciplinare i poteri di annullamento e di revoca in autotutela della PA dimostra di avere proprio recepito la preoccupazione dei giudici europei di salvaguardare l’affidamento del privato anche nei confronti dell’azione amministrativa, e non solo dell’agere di altri privati.

Il legislatore ha in effetti posto dei ‘paletti’ alla Pubblica Amministrazione in sede di esercizio dei suoi poteri di autotutela, statuendo che essa è tenuta a dare la dovuta rilevanza alla tutela dell’affidamento del privato destinatario dell’atto che si accinge a rimuovere.

In particolare, autorevole dottrina ha individuato nell’art. 21 nonies della l. 241/1990 – introdotto dalla l. n. 15/2005 e novellato dalla l. n. 124/2015 – una prima cristallizzazione normativa del giudizio di bilanciamento, effettuato dallo stesso legislatore, tra interesse pubblico e interesse privato, laddove la norma prevede al comma 1 che la PA, in presenza di ragioni di pubblico interesse, può annullare d’ufficio il provvedimento illegittimo entro un termine ragionevole non superiore a diciotto mesi.

Ebbene, gli autori evidenziano come la previsione di ‘un termine ragionevole’ entro cui la PA può rimuovere il provvedimento costituisca proprio un parametro a cui l’Amministrazione debba ancorare l’esercizio del proprio potere di annullamento d’ufficio per non ledere il legittimo affidamento del privato.

Si tratta proprio di un parametro di chiara derivazione comunitaria, visto che rispecchia il dictum della giurisprudenza europea la quale, come si è detto, aveva asserito che decorso un certo lasso temporale la situazione giuridica derivante dall’atto si consolidava, per cui l’annullamento di tale atto avrebbe certamente leso l’affidamento del privato in una situazione giuridica stabile.

Alla stregua della giurisprudenza europea, anche il legislatore nazionale ha rimarcato che l’unico affidamento meritevole di tutela da parte dell’ordinamento è solo quello relativo alla stabilizzazione di un provvedimento illegittimo ove la illegittimità non discenda però dal dolo o dalla colpa del destinatario.

E ciò risulta chiaramente espresso nel co. 2 bis dell’art. 21 nonies, nella parte in cui afferma che nel caso in cui il provvedimento amministrativo sia stato emesso in base ad un falso dichiarativo o rappresentativo del privato – ove la falsità sia stata accertata con sentenza passata in giudicato- l’annullamento d’ufficio può avvenire sine die.

Si sottolinea, così, che il privato non matura affatto la tutela all’affidamento se ha ottenuto il provvedimento ampliativo con l’inganno, mediante cioè la presentazione di false dichiarazioni sostitutive di certificazioni o di false rappresentazioni dei fatti che la PA è chiamata a valutare in sede di istruttoria.

Il Consiglio di Stato nel 20184 ha sul punto precisato che il passaggio in giudicato della sentenza che accerta la falsità è richiesto solo per il falso dichiarativo e non anche per il falso rappresentativo.

Il C.d.S., infatti, spiega che quando il privato effettua autodichiarazioni sostitutive di certificazione, sta svolgendo una funzione certativa che gli viene attribuita dalla legge, la quale può essere messa in discussione solo dal giudice penale. Viceversa, quando il privato effettua una mera rappresentazione dei fatti, la funzione certativa resta in capo alla PA, la quale sarà essa stessa a doverne accertare la veridicità, senza dover attendere una pronuncia penale irrevocabile.

A protezione dell’affidamento del privato, è indubbio che il legislatore abbia altresì posto un limite alla PA in sede di revoca in autotutela del provvedimento inopportuno.

Infatti, l’art. 21 quinquies della l. 241/90, anch’esso introdotto del 2005, profila l’obbligo per la Pubblica Amministrazione di corrispondere al privato un indennizzo laddove decida di revocare un provvedimento in autotutela.

A differenza dell’annullamento d’ufficio, la revoca prescinde da vizi di legittimità e può avere ad oggetto solo provvedimenti amministrativi discrezionali ad efficacia durevole.

Nello specifico, la PA può esercitare in ogni momento il suo potere di revoca quando vi siano sopravvenuti motivi di interesse pubblico, o quando vi è stato il mutamento della situazione di fatto alla base del provvedimento, o quando sia sopravvenuta una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.

Ebbene, benchè la norma non preveda che la revoca debba essere effettuata entro un certo termine, tuttavia autorevole dottrina evidenzia come anche in relazione alla revoca l’Amministrazione debba tenere conto della tutela dell’affidamento del privato che ormai confidava nella stabilità della situazione di vantaggio derivante dal provvedimento de quo.

Proprio questo sarebbe, infatti, il senso della previsione dell’obbligo di corrispondere un indennizzo al privato, la cui ratio riposerebbe proprio nella necessità di ristorare il destinatario per il danno subito a causa del fatto che aveva confidato nella stabilità di un provvedimento ampliativo, il quale era stato invece rimosso dall’orizzonte giuridico.

 

  1. Natura giuridica degli atti rilevanti ai fini dell’affidamento.

Mentre il diritto europeo si è mostrato indifferente alla forma dell’atto in relazione al quale il principio dell’affidamento può essere invocato, a livello interno invece si è acceso un dibattito sugli atti rilevanti ai fini dell’affidamento.

In effetti, alcuni autori sostengono che debba trattarsi necessariamente di atti di diritto pubblico, mentre altri che possa trattarsi anche di atti posti in essere dalla Pubblica Amministrazione nell’esercizio della riconosciuta attività di diritto privato.

Sul punto è prevalsa l’opinione di chi ritiene che l’affidamento possa essere invocato anche dai destinatari di atti di natura privatistica posti in essere dalla PA, atteso che la ratio sottesa al principio in esame è quella di assicurare la stabilità e la certezza dei rapporti giuridici, indipendentemente dalla forma dell’atto.

L’evoluzione giurisprudenziale in materia di tutela dell’affidamento del privato nei confronti della PA si è poi spinta al punto tale da prescindere addirittura dall’esistenza stessa di un atto o di un provvedimento, giungendo a riconoscere siffatta tutela anche quando venga in rilievo una serie di ‘comportamenti ondivaghi’ dell’Amministrazione.

In tal caso, però, come evidenziato da autorevole dottrina, il principio dell’affidamento viene ad assumere una fisionomia diversa da quella sin qui esaminata, discostandosi dalla impostazione comunitaria che lo aggancia ai principi della certezza e della stabilità della produzione normativa ed attizia, per ancorarsi ad un altro diritto costituzionalmente rilevante, che è il diritto alla autodeterminazione, ossia al compimento di scelte libere da condizionamenti di altrui asimmetrie informative.

Si tratta di una diversa tutela dell’affidamento, che non è più collegata all’esistenza di un atto o di un provvedimento amministrativo, ma prescinde da questi ultimi, per riposare esclusivamente sulla condotta della Pubblica Amministrazione.

 

  1. La giurisprudenza delle Sezioni Unite in materia di provvedimento amministrativo favorevole.

Una prima tappa della giurisprudenza è stata compiuta in questo senso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione5 con tre ordinanze del 2011, relative al risarcimento del danno da provvedimento amministrativo favorevole.

Le ordinanze n. 6594 e n. 6595 hanno riguardato due casi analoghi in cui la Pubblica Amministrazione, dopo avere rassicurato a più riprese il privato della edificabilità di una certa area, rilasciava il permesso di costruire, facendo sorgere nel destinatario la convinzione della legittimità di quel provvedimento ampliativo; tuttavia, la PA annullava poi in autotutela il permesso, essendosi avveduta della non edificabilità dell’area.

Quanto all’ordinanza n. 6596, essa concerneva il caso in cui la PA, dopo avere emesso un provvedimento di aggiudicazione definitiva della gara ed avere in più occasioni rassicurato il privato della legittimità di quest’ultimo, annullava d’ufficio l’aggiudicazione perché illegittima.

In tutte e tre le ordinanze, le Sezioni Unite hanno rilevato che il privato subiva la lesione del suo affidamento perché la PA aveva ritirato in autotutela un provvedimento amministrativo illegittimo, nonostante avesse precedentemente assunto una condotta tale da far intendere al privato che quel provvedimento fosse assolutamente legittimo.

In punto di giurisdizione, a detta della Cassazione il privato aveva correttamente adito per il risarcimento il giudice ordinario e non quello amministrativo, atteso che egli non contestava l’illegittimità del provvedimento (poiché esso era realmente illegittimo), ma che la PA lo aveva indotto in errore portandolo a confidare nella legittimità di quel provvedimento.

Ordunque, la dottrina più recente ha evidenziato l’importanza storica di queste ordinanze e come esse hanno aperto la strada al generale riconoscimento della lesione dell’affidamento del privato a causa non di un provvedimento, ma del comportamento della PA.

Nelle tre fattispecie attenzionate dalle Sezioni Unite, il privato, infatti, giungeva a confidare in una situazione di apparenza generata non soltanto dal provvedimento ampliativo illegittimo, bensì da una serie di condotte assunte dall’Amministrazione, che con più rassicurazioni aveva fatto sì che si radicasse nel privato la convinzione di aver ottenuto un provvedimento legittimo, produttivo di una situazione giuridica favorevole in via definitiva.

La tutela dell’affidamento veniva così fatta dipendere non più soltanto dall’adozione di un atto della PA, ma anche dalla condotta fuorviante della stessa.

Tuttavia, nonostante questa prospettazione, nelle ordinanze suddette i giudici di legittimità asserivano che le domande risarcitorie avanzate dai privati meritavano accoglimento non perché la condotta della PA aveva leso l’affidamento, ma perché con l’annullamento in autotutela del provvedimento ampliativo la PA aveva leso il patrimonio degli istanti.

Spiegava la Suprema Corte, infatti, che il privato aveva subito un depauperamento del suo patrimonio, atteso che in un primo momento il suo patrimonio si era incrementato con l’ingresso di un bene della vita, e poi si era ridotto di nuovo con la fuoriuscita di quel bene per effetto della rimozione del provvedimento ampliativo.

Nonostante si riconosca che la condotta fuorviante della PA, unitamente all’adozione del provvedimento illegittimo, abbia fatto nascere un certo affidamento nel privato poi disatteso dall’annullamento d’ufficio, tuttavia le Sezioni Unite nel 2011 non si spingono ancora al punto tale da riconoscere al privato il risarcimento del danno per lesione dell’affidamento a causa della condotta della PA, optando invece per un risarcimento agganciato comunque soltanto al provvedimento, la cui rimozione avrebbe leso, a detta dei giudici, il patrimonio del privato.

 

  1. La rivoluzionaria sentenza delle Sezioni Unite n. 8236/2020.

La vera e propria ‘rivoluzione’ in tema di affidamento si è avuta con la recentissima sentenza n. 8236 del 2020 delle Sezioni Unite6, le quali hanno affermato per la prima volta la possibilità per il privato di ottenere il risarcimento del danno per lesione dell’affidamento causato da una ‘fattispecie comportamentale pura’ della Pubblica Amministrazione.

Nella pronuncia de qua, la Suprema Corte, a differenza delle ordinanze del 2011, non fa riferimento ad una fattispecie caratterizzata da comportamenti fuorvianti che si accompagnano ad un provvedimento ampliativo illegittimo, ma si riferisce esclusivamente ad una serie complessa di comportamenti della Pubblica Amministrazione, nell’insieme lesivi dell’affidamento del privato.

Stavolta, la tutela dell’affidamento viene scollegata completamente dal provvedimento amministrativo e viene invece agganciata esclusivamente alla pura condotta della PA.

Nella specie, i giudici di legittimità si sono occupati di una vicenda relativa ad una società che si era rivolta al Comune al fine di poter costruire un complesso alberghiero.

Il Comune, però, assumeva una serie di comportamenti ‘ondivaghi’, in quanto dapprima rassicurava la società che la via procedimentale da percorrere era quella del Piano Attuativo Comunale, per poi asserire che la strada giusta era in realtà quella di avanzare una istanza di permesso di costruire. Sicchè, dopo che la società aveva presentato tale istanza, decorso un certo lasso di tempo nel quale la PA era rimasta inerte, su sollecitazione del privato essa ‘rompeva’ il silenzio e tornava nuovamente sui suoi passi, asserendo che il privato per conseguire il risultato auspicato avrebbe dovuto presentare un Piano Attuativo.

Il privato, allora, decideva di rivolgersi al giudice ordinario al fine di ottenere il risarcimento del danno cagionato dalla lesione dell’affidamento dovuto alle indicazioni fuorvianti dell’Amministrazione, che prima lo aveva rassicurato facendogli sorgere l’aspettativa ad ottenere un provvedimento ampliativo, e poi aveva frustrato quell’aspettativa, assumendo un comportamento contraddittorio, con dispendio di tempo e denaro per il ricorrente.

Ebbene, le Sezioni Unite hanno affermato che la domanda risarcitoria del privato merita accoglimento, asserendo che effettivamente vi era stata una lesione della tutela dell’affidamento cagionata da una fattispecie comportamentale pura, avulsa da un qualsivoglia provvedimento amministrativo.

Si tratta di una nuova fattispecie di matrice giurisprudenziale, consistente in una serie di comportamenti dell’Amministrazione che, presi singolarmente, si presentano come assolutamente neutri, incolori, ma acquistano rilevanza nel momento in cui vengono posti in essere nell’ambito dello stesso rapporto giuridico con il privato.

La PA, cioè, realizza una serie di condotte che, prese in considerazione unitariamente, portano alla creazione di una situazione di apparenza per il privato, il quale matura l’aspettativa a conseguire un provvedimento favorevole, che viene poi delusa dalla stessa PA che torna sui suoi passi in modo del tutto contraddittorio.

La dottrina evidenzia come la fattispecie de qua costituisce una vera e propria novità nell’orizzonte dei comportamenti della Pubblica Amministrazione, non suscettibile di essere ascritta in nessuna delle categorie in cui si suole distinguere i comportamenti dell’Amministrazione, vale a dire quelli autoritativi direttamente collegati all’esercizio del potere, quelli esecutivi, quelli omissivi e quelli iure privatorum.

In tutte e quattro le suddette categorie, infatti, vengono in rilievo singoli atti o singole omissioni, mentre nel caso di specie viene in rilievo un fascio di azioni o omissioni che, assieme, concorrono a generare una situazione di apparenza imputabile alla PA.

La prima differenza, quindi, che emerge rispetto alle ordinanze del 2011, sta proprio nel fatto che nel 2020 l’affidamento viene collegato solo ed esclusivamente ad una fattispecie interamente comportamentale, non venendo in rilievo alcun provvedimento amministrativo.

Viene, cioè, proclamato un affidamento ‘aprovvedimentale’, che si distingue tanto dall’affidamento comunitario di cui alla sentenza Topfer della Corte di Giustizia dell’UE tanto dalle ipotesi di legittimo affidamento espressamente previste dal legislatore nazionale agli artt. 21 quinquies e 21 nonies della l. 241/90, di cui si è sopra discusso.

Tanto l’affidamento comunitario, quanto l’affidamento legittimo protetto dalle suddette norme, sono entrambi collegati all’adozione di atti e provvedimenti, mentre l’affidamento di cui si parla nel 2020 è legato soltanto a meri comportamenti della PA e non riposa affatto su specifiche previsioni normative, bensì sui principi generali dell’ordinamento e in particolare su quello di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.

Occorre precisare che la Cassazione tra le ipotesi di affidamento legittimo, ossia protetto da singole norme di diritto pubblico, accanto a quello di cui agli artt. 21 quinquies e 21 nonies ha altresì aggiunto l’art. 2 bis co. 1 della l. 241/90 sul risarcimento del danno ingiusto da ritardo.

Secondo la Corte, anche il risarcimento che il legislatore riconosce al privato per il mancato rispetto del termine di cui all’art. 2 della legge sul procedimento costituisce un ‘paletto’ per la PA, che in caso di inosservanza di detto termine è tenuta a tener conto della lesione dell’affidamento del privato, corrispondendogli una somma a titolo risarcitorio.

Tuttavia, la dottrina ha mosso una critica sul punto, obiettando che in questo caso la tutela dell’affidamento non è riconosciuta automaticamente al privato per il fatto che sia decorso un certo lasso di tempo, ma il privato deve pur sempre dimostrare di aver subito un danno ingiusto, passando per il giudizio di spettanza del bene della vita

Gli autori hanno comunque rilevato che la più grande novità introdotta dalla pronuncia del 28 aprile del 2020 sta nel fatto che per la prima volta l’affidamento viene fatto assurgere al rango di un vero e proprio ‘diritto soggettivo’ riconosciuto in capo al privato.

Infatti, dicono i giudici di legittimità che il privato ha diritto ad essere risarcito perché il danno-evento prodotto dai comportamenti ondivaghi della PA si sostanzia della lesione del diritto soggettivo alla tutela dell’affidamento, collegato a sua volta al diritto di matrice costituzionale alla autodeterminazione, vale a dire al diritto di ciascuno di compiere liberamente le proprie scelte senza essere indotto in errore da altrui comportamenti contraddittori.

Proprio in virtù di tale considerazione, la Cassazione nella sentenza in disamina giunge a correggere un ‘errore’ contenuto nelle ordinanze del 2011.

Si è detto che nel 2011 le Sezioni Unite avevano asserito che le domande risarcitorie meritavano accoglimento perché, a causa della rimozione del provvedimento ampliativo illegittimo, era stata lesa la sfera patrimoniale del privato.

Ed invece, nel 2020 le SS.UU. mutano orientamento, asserendo che in realtà, poiché il provvedimento amministrativo era illegittimo, il bene non è mai entrato nel patrimonio del destinatario, per cui non c’era stata alcuna lesione a causa dell’annullamento d’ufficio.

Tuttavia, le domande risarcitorie andavano accolte ugualmente, e questo perché vi era stata comunque la produzione di un danno evento, consistente nella lesione dell’autonomo diritto soggettivo dell’affidamento del privato, atteso che la PA aveva assunto una serie di comportamenti misti al provvedimento che avevano leso l’autodeterminazione del soggetto.

I principi enucleati nel 2020 sono quindi perfettamente applicabili, a detta della Corte, anche ai casi attenzionati nel 2011.

La Corte ha poi affermato che il privato aveva correttamente adito il giudice ordinario per ottenere il risarcimento del danno.

Infatti, nel rigettare le eccezioni che sul punto erano state sollevate dal Consiglio di Stato, ha innanzitutto escluso che la giurisdizione appartenga al GA in virtù dell’art. 133 lett. a) CPA che prevede la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di silenzio, atteso che l’istante non si doleva della inerzia del Comune, bensì dei suoi comportamenti ondivaghi e fuorvianti; ed ha altresì escluso che la giurisdizione spetti al GA in virtù dell’art. 133 lett. f) CPA che assegna alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di urbanistica ed edilizia, atteso che la norma presuppone sempre l’adozione di un provvedimento, mentre nel caso di specie veniva in rilievo solo una fattispecie puramente comportamentale.

In relazione, poi, alla natura giuridica della responsabilità della Pubblica Amministrazione per questa fattispecie comportamentale che danneggia l’affidamento del privato, le Sezioni Unite hanno affermato che si tratta di una responsabilità da inadempimento degli obblighi derivanti da ‘contatto sociale qualificato’, il quale si inserisce tra gli altri atti e fatti idonei a produrre obbligazioni ex art. 1173 cc.

Spiegano gli Ermellini, infatti, che tra la PA e il privato non c’è alcun contratto, ma tra essi si instaura un rapporto nell’ambito di un contesto sociale qualificato, più specifico del normale ambito di relazione, e dal quale sorgono in capo alla PA degli obblighi di protezione nei confronti del privato, tra cui anche quello di assumere un comportamento corretto e secondo buona fede così da non ledere l’affidamento del privato.

Autorevole dottrina ha evidenziato come tale responsabilità da fattispecie comportamentale coincida sostanzialmente con la ‘responsabilità precontrattuale’ di cui aveva parlato la Adunanza Plenaria nella sentenza n. 5/20187 in materia di contenzioso appalti, che ha affermato la configurabilità di tale forma di responsabilità della PA anche nella fase anteriore all’aggiudicazione definitiva dell’appalto, nonché nella fase anteriore alla pubblicazione del bando di gara.

Secondo la Plenaria, la Pubblica Amministrazione è tenuta ad agire secondo buona fede e correttezza non soltanto in sede di stipula del contratto d’appalto con il privato, ma per tutto lo svolgimento della procedura evidenziale, indipendentemente dall’adozione del provvedimento conclusivo della gara.

Tanto aveva affermato la Plenaria con particolare riferimento alla condotta silente della stazione appaltante che, tenendo un contegno inerziale doloso o colposo nel corso della procedura evidenziale, aveva tratto in errore il privato, ledendo il suo diritto soggettivo alla autodeterminazione negoziale.

L’operatore economico, cioè, a causa del silenzio colpevole della PA, ha compiuto scelte negoziali che non avrebbe mai compiuto senza quella condotta silente scorretta della stazione appaltante, che gli ha dato delle indicazioni fuorvianti ledendo così il suo diritto ad autodeterminarsi liberamente.

La dogmatica più recente ha rilevato che anche la responsabilità precontrattuale a cui fa riferimento la Plenaria è una responsabilità da contatto sociale qualificato, atteso che non deriva né da un contratto né tantomeno dalla emissione di un provvedimento conclusivo, ma solo dallo specifico contesto in cui si relaziona con il privato, che le fa sorgere dei particolari obblighi di protezione verso quest’ultimo.

Orbene, la sentenza del 28 aprile 2020 non è andata affatto esente da critiche.

La dottrina più attenta censura la pronuncia de qua in quanto essa attribuirebbe una ‘importanza autoreferenziale’ al procedimento amministrativo, partendo dall’idea di fondo che ogni comportamento assunto dalla PA nel corso del procedimento sarebbe suscettibile di arrecare un danno al privato.

In realtà, gli autori evidenziano che il procedimento amministrativo è soltanto un mezzo per raggiungere un determinato scopo, per cui il privato non può muovere alcuna doglianza se non quando il procedimento si sia concluso con un provvedimento amministrativo.

Ancora, la pronuncia in disamina conterrebbe un monito per la PA, ossia quello di non porre in essere dei comportamenti contraddittori al fine di non deludere le aspettative del privato.

Tuttavia, la dottrina nota che così si finirebbe per giungere all’assurdo che l’Amministrazione, dopo aver tenuto una condotta scorretta, nonostante si sia avveduta della scorrettezza, debba perseverare nell’errore pur di mantenere un atteggiamento coerente e proteggere il privato. Ciò significherebbe che la ‘stella polare’ dell’azione amministrativa non sarebbe affatto il perseguimento del pubblico interesse, ma il fatto di evitare di risarcire i danni al privato.

Infine, la dogmatica pone l’accento sulla modificazione subita dal procedimento amministrativo per effetto della l. 241/90, che ha introdotto un modello più garantista, trasformando il procedimento nella sede in cui i privati possono rappresentare i loro interessi ed ottenerne la tutela.

La legge n. 241 ha sottratto il procedimento alla totale discrezionalità della PA, sicchè adesso l’Amministrazione non assume più decisioni in via esclusivamente unilaterale, ma deve tener conto anche del punto di vista dei privati, ai quali è consentito partecipare alla formazione del provvedimento.

Tuttavia, ciò non significa che i privati sono ‘autorizzati’ a scambiare la disponibilità della PA, che interloquisce con loro e vaglia le loro richieste e osservazioni, per una anticipazione del fatto che sicuramente verrà emesso un provvedimento favorevole.

In via conclusiva e per una maggiore completezza, si rende noto che autorevole dottrina ha individuato nel panorama giurisprudenziale dell’Adunanza Plenaria alcuni casi in cui la tutela dell’affidamento non opera affatto o opera in maniera assolutamente ristretta.

Innanzitutto, la Plenaria ha escluso la tutela dell’affidamento del privato a fronte di un abuso edilizio.

Laddove il privato abbia realizzato un manufatto abusivo e la PA sia rimasta inerte per un considerevole lasso di tempo, il privato non può invocare la tutela dell’affidamento contro un sopravvenuto ordine di abbattimento dell’opera, atteso che la tutela dell’affidamento presuppone sempre la buona fede del cittadino.

L’Adunanza Plenaria ha poi affermato che il principio dell’affidamento opera in modo più circoscritto nel settore dell’edilizia, visto che in questo campo vengono in rilievo interessi pubblici particolarmente pregnanti.

La presenza di tali interessi non consente di pretermettere, bensì di comprimere la tutela dell’affidamento, tant’è che in relazione all’annullamento d’ufficio di un permesso di costruire, a detta della Plenaria il termine ragionevole entro cui la PA può agire in autotutela sarebbe più lungo dei diciotto mesi previsti dall’art. 21 nonies della l. 241/90.

Cioè, il fatto che sussistano interessi pubblici particolarmente rilevanti nel settore dell’edilizia non significa che la PA possa prescindere completamente dall’affidamento del privato, ma certamente questo affidamento può essere protetto con meno rigore: a fronte dei pubblici interessi che entrano in bilanciamento con l’affidamento, l’Adunanza ha affermato che il tempo entro cui autoannullare il permesso di costruire è da reputarsi ragionevole anche se eccede i diciotto mesi.

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Note

 

1    Corte di Cassazione, Sezione TRI Civile, Sentenza, 10 dicembre 2002, n. 17576

2    Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sentenza, 12 luglio 1957, cause riunite C-7/56 e da C-3/57 a C-7/57, Alghera

3    Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sentenza, 3 maggio 1978, causa C-12/77, Topfer

4    Consiglio di Stato, Sezione V, Sentenza, 27 giugno 2018, n. 3940

5    Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Ordinanza, 23 marzo 2011, n. 6594; Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Ordinanza, 23 marzo 2011, n. 6595; Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Ordinanza, 23 marzo 2011, n. 6596

6    Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Ordinanza, 28 aprile 2020, n. 8236

7    Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, Sentenza, 4 maggio 2018, n. 5

Fabiana Vaino

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