E’ manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 137, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196 per violazione dell’articolo 15 della Costituzione, nella parte in cui non prevede il consenso dell’interessato al trattamento dei dati relativi alla corrispondenza epistolare “quando esso venga effettuato nell’esercizio dell’attività giornalistica”.
Con ordinanza del 31 marzo 2008, il Tribunale di Roma, sezione II penale, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 137, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) per violazione dell’articolo 15 della Costituzione, nella parte in cui non prevede il consenso dell’interessato al trattamento dei dati relativi alla corrispondenza epistolare quando esso venga effettuato nell’esercizio dell’attività giornalistica.
La vicenda riguardava una giornalista e un direttore responsabile di un quotidiano nazionale, imputati per il reato di “trattamento illecito di dati”, ai sensi dell’art. 167 del Codice della privacy, per aver pubblicato la corrispondenza epistolare tra una detenuta e la sorella.
In applicazione dell’art. 137 Codice della privacy, la giornalista redattrice dell’articolo di stampa penalmente contestato non doveva essere autorizzata dalle persone interessate. Il giudice rimettente poneva, pertanto, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 137, che così formulato farebbe prevalere il diritto all’informazione sul diritto della libertà e segretezza della corrispondenza, in contrasto con il contemperamento dei valori operato dall’art. 15 della Costituzione.
Con la pronuncia in esame, la Corte Costituzionale dichiara manifestamente inammissibile la questione sollevata dal Tribunale, il quale, nel domandare l’introduzione del consenso dell’interessato, quale ulteriore requisito per la legittimità del trattamento dei dati personali a fini giornalistici, invoca, secondo la Corte, una pronuncia additiva in malam partem in materia penale, chiedendo un intervento che estenda l’ambito dei fatti penalmente rilevanti a fattispecie attualmente non previste.
Ricorda la Corte che un tale intervento è precluso dal principio della riserva di legge, sancito dall’art. 25, comma II, cost., principio che demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, impedendo alla Corte di creare nuove fattispecie criminose o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, ovvero anche di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità.
Con queste motivazioni, la Corte Costituzionale dichiara quindi manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 137, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196.
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Corte Costituzionale
Ordinanza 05.03.09, n.66
Presidente ******************
Redattore *************
Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 137, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), promosso con ordinanza del 31 marzo 2008 dal Tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di ************** ed altro iscritta al n. 290 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2008.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’11 febbraio 2009 il Giudice relatore *************.
Ritenuto che, con ordinanza del 31 marzo 2008, il Tribunale di Roma, Sezione II penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 137, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) per violazione dell’articolo 15 della Costituzione nella parte in cui non prevede il consenso dell’interessato al trattamento dei dati relativi alla corrispondenza epistolare «quando esso venga effettuato nell’esercizio dell’attività giornalistica»;
che, il rimettente riferisce che nel giudizio a quo, gli imputati (una in qualità di giornalista, l’altro come direttore responsabile di un quotidiano nazionale) sono chiamati a rispondere, rispettivamente, del reato di cui all’art. 167, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003, in riferimento agli artt. 17 e 23 del medesimo decreto, e del reato di cui agli artt. 57 c.p. e 167, comma 2, sopra citato, in riferimento all’art. 17 del decreto legislativo n. 196 del 2003;
che nell’ordinanza si precisa che la diffusione di corrispondenza epistolare costituirebbe un trattamento di dati personali ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 196 del 2003 e che, ai sensi degli artt. 136 e 137, tale trattamento, ove effettuato per finalità giornalistiche, può avvenire senza il consenso dell’interessato (art. 137, comma 2, del d.lgs. n. 196 del 2003), ma nel rispetto del diritto di cronaca «e dell’essenzialità dell’informazione»;
che, in base a tale disposizione, la giornalista redattrice dell’articolo di stampa contestato nel procedimento penale, nel quale era riportata la corrispondenza tra una detenuta e la sorella, non doveva essere autorizzata dalle persone interessate dalla pubblicazione;
che il giudice dubita della legittimità costituzionale dell’art. 137 del d.lgs. n. 196 del 2003, il quale, non richiedendo il consenso dell’interessato al trattamento dei propri dati personali, se effettuato nell’esercizio dell’attività giornalistica, farebbe prevalere il diritto all’informazione sul diritto della libertà e segretezza della corrispondenza, in contrasto con il contemperamento dei valori operato dall’art. 15 della Costituzione;
che in forza di tale disposizione, infatti, la libertà e la segretezza della corrispondenza costituirebbero diritti inviolabili dell’uomo, tutelati in via preminente dal legislatore costituzionale;
che, il Tribunale di Roma ritiene la questione rilevante, dipendendo l’esito del giudizio a quo dalla «risoluzione della questione di legittimità costituzionale sollevata stante l’espresso riferimento del P.M. nel capo di imputazione al “difetto di autorizzazione” della giornalista alla pubblicazione dei dati personali di cui trattasi»;
che, con atto d’intervento depositato il 14 ottobre 2008, si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, sostenendo preliminarmente, l’inammissibilità della questione per difetto di motivazione sulla rilevanza;
che, infatti, l’ordinanza di rinvio non fornirebbe alcuna indicazione circa la natura dei dati oggetto della divulgazione contestata, non consentendo di valutare se essi fossero «realmente essenziali» per l’informazione e presentassero un pubblico interesse;
che, inoltre, il Tribunale si sarebbe limitato a richiamare le sole norme incriminatici contestate nel capo di imputazione e a fare riferimento al difetto di autorizzazione della giornalista, senza descrivere la fattispecie sottoposta al suo esame;
che, comunque, la questione sarebbe manifestamente infondata, dal momento che la tutela del segreto epistolare operata dall’art. 15 della Costituzione non sarebbe assoluta, ma suscettibile di limitazioni in riferimento ad altri interessi individuali o collettivi costituzionalmente rilevanti;
che il legislatore, nell’art. 137, commi 2 e 3, cit., avrebbe correttamente operato un bilanciamento delle esigenze sottese alla libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost. con quelle relative alla segretezza della corrispondenza, esonerando i giornalisti dall’autorizzazione dell’interessato quando i dati divulgati a mezzo stampa siano essenziali per l’informazione e sussista un rilevante interesse pubblico, consentendo, in tal modo, un efficace controllo da parte del giudice;
che, sempre secondo la difesa dello Stato, l’art. 137 non limiterebbe in alcun modo la garanzia di cui all’art. 15 della Costituzione, dal momento che disciplinerebbe, «così come l’intera disciplina del Codice, la divulgabilità dei dati in relazione al loro contenuto oggettivo e non in relazione al mezzo di conservazione e trasmissione in cui i dati sono contenuti».
Considerato che il Tribunale di Roma dubita della legittimità costituzionale dell’art. 137, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), in riferimento all’art. 15 della Costituzione;
che la questione prospettata è manifestamente inammissibile in quanto le carenze dell’ordinanza di rimessione in ordine alla descrizione dei fatti oggetto del giudizio principale precludono a questa Corte di esercitare il necessario controllo in relazione alla rilevanza della questione stessa;
che, infatti, il tribunale si limita a richiamare le norme incriminatrici la cui violazione è addebitata agli imputati, ma non descrive le condotte loro contestate nel capo di imputazione e nulla dice riguardo ai dati oggetto della divulgazione, né di come la giornalista sia venuta a conoscenza delle lettere, ovvero se queste fossero state rese pubbliche;
che tali elementi appaiono determinanti ai fini della valutazione della rilevanza della questione, anche con riguardo al rispetto dei limiti posti dall’art. 137, comma 3, cit., in relazione alla essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico;
che, inoltre, il rimettente, censurando la disposizione impugnata nella parte in cui «non ritiene necessario il consenso dell’interessato al trattamento dei dati relativi alla corrispondenza epistolare quando esso venga effettuato nell’esercizio di attività giornalistica», chiede alla Corte l’introduzione, quale ulteriore requisito per la legittimità del trattamento dei dati personali a fini giornalistici, del consenso dell’interessato;
che in tal modo, il giudice a quo invoca una pronuncia additiva in malam partem in materia penale, chiedendo un intervento che estenda l’ambito dei fatti penalmente rilevanti a fattispecie attualmente non previste;
che, per costante giurisprudenza di questa Corte, un tale intervento è precluso dal principio della riserva di legge, sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., principio che demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, impedendo alla Corte di creare nuove fattispecie criminose o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, ovvero anche di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità (ex plurimis sentenza n. 394 del 2004; ordinanze n. 5 del 2009; n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007);
che, pertanto, anche sotto tale profilo la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 137, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), sollevata, in riferimento all’art. 15 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2009.
F.to:
******************, Presidente
*************, Redattore
***********************, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2009.
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