Il sindacato di legittimità
Il sindacato di legittimità relativo alle sanzioni in materia di pratiche commerciali deve essere condotto alla luce della ratio sottesa alla disciplina degli artt. 18-27 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del Consumo), che sanziona le pratiche commerciali scorrette tra professionisti e consumatori, nonché a quelle tra professionisti e micro-impresa.
Nella specie, l’art. 20 statuisce che una pratica è scorretta se ricorrono due condizioni: i) la sua contrarietà alla «diligenza professionale»; ii) la sua idoneità «a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge» (comma 1).
In tale contesto normativo, assume carattere dirimente il rinvio alla nozione della diligenza professionale declinabile, in termini interpretativi e applicativi, nelle formule ricostruttive del principio di buona fede, che assume rilievo imprescindibile ai fini della stessa identificazione di una pratica scorretta. Nella specie, l’art. 18, lett. h) definisce la «diligenza professionale» come «il normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista».
Il Codice del consumo individua le circostanze generali che costituiscono la fonte di qualificazione di una pratica come «scorretta» e distingue quelle «ingannevoli» dalle «aggressive», enucleando una elencazione dettagliata delle condotte che sono «in ogni caso» scorrette.
Ciò premesso, l’art. 21 dispone che «è considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso». A tale qualificazione definitoria segue una elencazione, meramente esemplificativa, di natura casistica, entro il cui perimetro è inclusa l’informazione relativa alla descrizione della caratteristiche principali del prodotto.
La competenza sanzionatoria è conferita dal Codice all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, cui è demandato il compito di valutare le fattispecie suscettibili di integrare gli estremi di una pratica commerciale scorretta (art. 27).
La condotta scorretta, affinché rilevi in termini sanzionatori, deve essere però causalmente riconducibile (sull’inequivoco profilo eziologico) al professionista cui essa è addebitata.
Il potere di sanzionare gli illeciti previsti dagli articoli 21 e 22 del d. lgs. n. 205 del 2006 è finalizzato a stigmatizzare quelle condotte che, in quanto ingannevoli o omissive, sono potenzialmente idonee ad influenzare e a orientare le scelte del consumatore, compromettendone la libertà di scelta e di autodeterminazione sulla base di inesatte o di incomplete rappresentazioni.
Il carattere ingannevole od omissivo della pratica commerciale, infatti, non consente al consumatore una scelta informata, quindi libera, poiché altera o omette di fornire le informazioni necessarie a un consapevole acquisto.
Perseguendo queste condotte, il legislatore ha inteso anticipare la soglia di tutela del consumatore al momento dell’approccio pubblicitario al prodotto, disponendo che già in tale sede debba esservi un’adeguata, chiara e veritiera informazione.
La ratio complessiva della disciplina consumeristica di cui al d. lgs. n. 206 del 2005 rende le norme a tutela del consumatore fattispecie di pericolo, «essendo preordinate a prevenire le possibili distorsioni delle iniziative commerciali nella fase pubblicitaria, prodromica a quella negoziale, sicché non è richiesto all’Autorità di dare contezza del maturarsi di un pregiudizio economico per i consumatori, essendo sufficiente la potenziale lesione della loro libera determinazione» (v., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, n. 6050 del 2014 e n. 6204 del 2011).
La natura di illeciti di pericolo, e non di danno, delle condotte in questione comporta che l’Autorità, nell’accertare il carattere scorretto e ingannevole della pratica, è chiamata a valutare l’impatto della condotta posta in essere con riguardo al potenziale condizionamento dell’autodeterminazione del consumatore, anche a prescindere dagli effetti concreti, in termini di vantaggio economico, verificatisi per il professionista.
La sanzione
Una ipotesi a sé stante riguarda il profilo della quantificazione della sanzione, per il quale l’art. 27, comma 9, del d. lgs. n. 205 del 2006 prevede che «con il provvedimento che vieta la pratica commerciale scorretta, l’Autorità dispone inoltre l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 euro a 5.000.000 di euro, tenuto conto della gravità e della durata della violazione».
La determinazione concreta della sanzione entro il minimo e il massimo indicati è effettuata sulla base dei criteri indicati dall’art. 11 della l. n. 689 del 1981, secondo il quale «nella determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell’applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità della violazione, all’opera svolta dall’agente per la eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche».
Le condizioni economiche del professionista vanno tenute in debita considerazione dall’Autorità, sulla base sia del principio di proporzionalità, sia di quello sulla finalità di deterrenza che l’ordinamento assegna alla sanzione.
Indice dell’effettiva condizione economica del professionista è il fatturato complessivamente realizzato nell’ultimo anno, in quanto esso fornisce un indice della specifica dimensione economica.
Diversamente, il dato dei soli ricavi introitati per il settore o per la vendita del prodotto interessato dalla condotta ingannevole è indicativo della mera condizione economica strettamente connessa alla condotta illecita e dipendente dalla buona riuscita o meno della pratica commerciale scorretta.
Attribuire rilevanza al fatturato quale parametro di commisurazione del quantum sanzionatorio consente il dispiegarsi dell’effetto deterrente e dissuasivo della sanzione medesima che deve, infatti, essere adeguata ed efficace per disincentivare condotte qualificabili come pratiche commerciali scorrette.
Viceversa, ‘ancorare’ l’ammontare della sanzione ai ricavi realizzati attraverso la vendita del prodotto oggetto della pratica commerciale scorretta potrebbe non dissuadere dal reiterare la condotta anti–consumeristica, laddove gli utili derivanti dal settore o prodotto rappresentino una minima parte di un fatturato complessivo ben più ampio ed esteso.
Sul punto, è stato osservato in giurisprudenza che, «in materia di pubblicità ingannevole, la sanzione comminata dall’A.G.C.M. risulta proporzionata in reazione al fatturato globale dell’azienda, per cui non si configura come irragionevole o ingiusto ovvero vessatorio l’operato dell’Autorità che, al fine di quantificare la sanzione, ha debitamente valutato il comportamento posto in essere dall’operatore rispetto alla diligenza professionale richiesta alla stregua della normativa di riferimento e alla descritta potenzialità lesiva della predetta pubblicità sui consumatori, in conformità al più recente orientamento della Corte di Giustizia UE (16 aprile 2015 C — 388/13), secondo cui, in materia di pratiche commerciali scorrette, le sanzioni devono essere adeguate ed efficaci e dunque assolvere ad una concreta funzione dissuasiva» (Tar Lazio, sez. I, n. 3101 del 2016).
L’accertamento della violazione ai fini della quantificazione della sanzione non deve, pertanto, essere valutato in base ai ricavi conseguiti attraverso la commercializzazione del prodotto oggetto della condotta illecita, ma avendo invece quale punto di riferimento il diverso criterio del fatturato complessivo realizzato dal professionista nell’ultimo anno.
In materia di sanzioni per condotte di pubblicità ingannevole, la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che «l’entità della sanzione deve commisurarsi non ai ricavi sul singolo prodotto oggetto della pubblicità ma all’importanza e alle condizioni economiche dell’impresa, ai sensi degli artt. 27, comma 13, d.lgs. n. 206/05 e 11 l.n. 689/81, e ciò nel rispetto del principio di proporzionalità e di adeguatezza della sanzione, in modo da garantirne un’efficacia deterrente» (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 18 gennaio 2012, n. 176).
Nel caso esaminato, costituisce dato certo che il messaggio pubblicitario, indicando l’impresa come soggetto abilitato al rilascio di un titolo rispetto al quale essa in realtà non ha abilitazione al rilascio, abbia un contenuto falso idoneo ad ingannare il consumatore medio. Per converso, ciò non è sufficiente a suffragare la certa riconducibilità dell’evento al comportamento della società.
Soggetto legittimato
Laddove, però, concretamente, l’Autorità non dimostri eziologicamente la riconducibilità della pratica al soggetto destinatario (e cioè il professionista o l’impresa cui si riferisce il messaggio), non può ritenersi ricorrere la sussistenza (in termini di assenza di compartecipazione, di inesigibilità di una condotta alternativa e assenza di negligenza alcuna ad essa imputabile) degli elementi costitutivi della pratica scorretta.
Nell’ipotesi concreta in esame, l’Autorità non ha dimostrato la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della pratica scorretta.
Se, infatti, sul piano dell’elemento oggettivo, può ritenersi che il messaggio pubblicitario abbia un carattere falso idoneo ad ingannare il consumatore medio, sul piano causale, non è stata dimostrata la certa riconducibilità dell’evento al comportamento della società. La mancanza di tale prova è stata ritenuta sussistente all’esito di una valutazione non già di un singolo elemento ma di una variegata congerie di circostanze che devono essere analizzate complessivamente. Nella specie, la società che ha concorso nella diffusione del messaggio (a ciò contrattualmente tenuta) ha ammesso che alcune inserzioni sono state dovute ad un errore causato da un «un copia ed incolla fatto dall’editoriale esterno che ha manomesso gli spazi in questione» e, a ulteriore suffragio della tesi, è stato considerato che la proprietà e la gestione del mezzo di comunicazione, per mezzo del quale è stata diffusa la pubblicità ingannevole non è più nella disponibilità della stessa (che non conseguirebbbe più alcun vantaggio patrimoniale. Questo elemento non concorre nella definizione dell’illecito ma è suscettibile di rilevanza ai fini della dimostrazione della stessa riconducibilità causale dell’evento alla condotta contestata alla società destinataria della sanzione.
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