Ma il pubblico concorso (e la trasparenza) sono la regola o l’eccezione?

Redazione 04/12/17
di Tiziano Tessaro

Anche i fascicoli 9 e 10 di Comuni d’Italia, come i precedenti, si occupano della riforma del pubblico impiego introdotta dal d.lgs. 75/2017. Il focus, infatti, riguarda temi specifici e puntuali di sicuro interesse pratico per il lettore, ma che coinvolgono – nella loro applicazione operativa – principi e canoni di ampio respiro e profondità, non certo limitati a quello più strettamente locale.

Uno di questi temi è certamente quello delle nuove modalità di reclutamento del personale dipendente.
È noto che nel pubblico impiego, seppur privatizzato, le procedure di selezione del personale debbono tener conto non solo della necessità di individuare il personale adeguato da inserire in una data struttura, con tutti i connessi profili di verifica della specifica professionalità richiesta, ma anche di un principio egemone e giustamente dominante: il principio del pubblico concorso. Trattasi di un “pilastro” fondante l’intera organizzazione pubblica, finalizzato a rendere la medesima “aperta” e democratica, in quanto agli uffici pubblici, fermo restando la verifica tecnica delle conoscenze richieste, devono accedere soggetti privi di legami con componenti politiche o gruppi di pressione. Ciò, al chiaro fine di rendere la medesima pubblica amministrazione ed il suo concreto “agire” imparziale e diretto al perseguimento, neutrale ma efficace, dei fini indicati dalla legge. Ora, l’imparzialità può essere sicuramente rafforzata anche attraverso un maggior livello di “severità tecnica” nelle procedure di reclutamento. Sotto tale crinale interpretativo, le novità introdotte, in materia di reclutamento nel pubblico impiego, dal citato decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, recano con sé – e di questo si è occupato il pregevole lavoro di Massimiliano Alesio – importanti modificazioni in tema di assetto organizzativo delle pubbliche amministrazioni. Le innovazioni principali sono tre: – la limitazione dello scorrimento delle graduatorie, che indubbiamente privilegia “il sapere attuale” rispetto a quello “passato”; – la valorizzazione del dottorato di ricerca, che dovrebbe consentire l’ingresso di personale tecnicamente più adeguato, soprattutto per i profili professionali più alti; – la consacrazione della lingua inglese, come necessario ed obbligatorio accertamento. Tali innovazioni rendono palese l’intento di favorire l’ingresso di personale maggiormente preparato e, quindi, plausibilmente più idoneo a garantire l’imparzialità e la neutralità dell’azione amministrativa. Certo, tutto poi dipenderà da come verranno concretamente espletate le procedure di reclutamento. Tuttavia, dalle indicate tre novità potrebbero derivare nuove luci di speranza, per addivenire, finalmente, ad “un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione dei partiti”.

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Non sfugge invero al lettore che proprio il principio in questione trova specifico rilievo nell’ordinanza di rimessione della questione alla Consulta operata dalla sezione Lavoro del Tribunale di Brescia, con l’ordinanza r.g. 3823/2014, depositata lo scorso 8 settembre. È noto infatti che la Corte costituzionale ha più volte sottolineato che le uniche ipotesi di deroga al principio del pubblico concorso sono quelle in cui la fiduciarietà nella scelta di una figura apicale sia preceduta da una valutazione soggettiva e di consonanza politica e personale con il titolare dell’organo politico: in guisa che lo spoil system rappresenta il meccanismo che si pone apertamente in contrasto (proprio perché in assenza di tali requisiti) con l’articolo 97 della Costituzione. Il giudice bresciano ha sottolineato infatti che il segretario generale dell’ente locale, non è un soggetto al quale si chiede consonanza politica con chi lo nomina bensì una figura tecnico professionale, i cui compiti sono specificatamente enucleati dalla legge (articolo 97 del d.lgs. n. 267/2000) in chiave di supporto (di natura tecnica) e collaborazione all’emanazione degli atti degli organi di governo del Comune. Ragion per cui i connotati delineati dalla norma fanno emergere la palese divergenza del meccanismo di reclutamento da quanto richiesto dai principi costituzionali. L’intervento del giudice, seppur arrivato a distanza di vent’anni dalla riforma Bassanini che per prima introdusse lo spoil system per i segretari comunali e provinciali, pone seri interrogativi sulla tenuta delle norme del Testo unico degli enti locali del 2000 in rapporto a quanto contenuto nell’art. 97 della Cost., in un periodo in cui il canone del pubblico concorso viene oggettivamente e ripetutamente messo in discussione. Ed è in fondo l’interrogativo che aleggia anche dalla lettura dell’articolo di Riccardo Nobile, volto ad analizzare il tema della stabilizzazione del lavoro flessibile nelle sue molteplici e variegate sfaccettature evidenziate dal d.lgs. 75/2017: il contributo prende in considerazione i percorsi di stabilizzazione diretta, riservati ai dipendenti titolari di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, e quelli attivabili previo concorso, ai quali possono partecipare soggetti titolari di altre tipologie di rapporti di lavoro flessibile. Una parte dell’approfondimento è riservata alle stabilizzazioni dei lavoratori socialmente utili. L’articolo esamina le varie fattispecie in modo dettagliato e articolato, punto per punto, svelando gli elementi di criticità – compresi quelli più sopra accennati- e le necessità di approfondimento e completamento delle procedure, che i comuni potranno attivare a partire dal 2018.
Un altro profilo di particolare interesse della riforma – contenuto nel decreto legislativo n. 74/2017 di riforma del decreto legislativo n. 150/2009 – è rappresentato dalla modifica del sistema di misurazione delle performance: essa attribuisce agli OIV nuovi poteri e capacità di iniziativa per il miglioramento della valutazione, con riflessi sull’organizzazione amministrativa, inserendo alcune novità all’interno del processo valutativo. Le considerazioni che sono contenute nell’articolo di Maurizio Lucca rendono palese in modo inequivocabile l’intenzione del legislatore di garantire la partecipazione diretta dei cittadini e degli utenti mettendoli in grado di segnalare le proprie osservazioni, incrementando la trasparenza nell’attività pubblica.

Ed è espressamente al principio di trasparenza che si ispira l’interessante lavoro di Christin Tomasello e Leonardo Bartoli che operano una analisi comparata del Freedom of Information Act (FOIA): sottolineando che l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo stabilisce che il diritto alla libertà d’espressione include la libertà di ricevere o di comunicare informazioni e che l’esercizio di questa libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario, mettono in risalto le ricadute di diritto positivo che la normativa sulla trasparenza ha avuto negli ordinamenti nazionali (ben ricordando l’analisi effettuata – nei numeri precedenti – circa i contenuti del “FOIA”, “Freedom of information act”, introdotto in Italia nell’ambito della riforma della pubblica amministrazione realizzata dalla legge delega 7 agosto 2015, n. 124).

Si tratta di comprendere se il principio di trasparenza abbia assunto – come abbiamo avuto modo di sottolineare in un precedente numero dedicato a ciò – assoluta e indiscussa preminenza, oppure se esso receda a fronte delle affermazioni di valori antagonisti, di pari o addirittura superiore rilievo: ed è per questo che con il fascicolo 9/2017, abbiamo inaugurato la rubrica – curata da Francesco Modafferi – dal titolo «Privacy: noi siamo i nostri dati» volta a far «comprendere le regole per rispettare il diritto alla protezione dati personali, alla riservatezza e all’identità personale nella società dell’informazione». È del resto noto il dibattito di questi giorni, a seguito dell’entrata in vigore del Regolamento generale europeo sulla protezione dei dati GDPR 679/2016, circa l’avvenuta introduzione nel sistema normativo europeo ed italiano della figura del Data Protection Officer (DPO) o Responsabile della Protezione dei Dati personali (RPD) la cui nomina è obbligatoria per la pubblica amministrazione ed il termine ultimo per la sua attuazione è fissato per il 25 maggio 2018.
Tale obbligo è stato confermato dalle Linee guida sui RPD adottate dal Gruppo di Lavoro sulla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento di dati personali istituito dalla Direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 24 ottobre 1995, in data 13 dicembre 2016 (ed emendate in data 5 aprile 2017). Come è stato opportunamente evidenziato, il GDPR ha ridefinito il quadro normativo di riferimento mettendo in luce il principio di responsabilizzazione (accountability) e riconoscendo nel RPD uno degli elementi-chiave all’interno del nuovo sistema di governance dei dati.

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