Pubblico impiego: dichiarata l’illegittimità costituzionale del blocco della contrattazione collettiva.

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Con la sentenza n. 178 del 24 giugno 2015, molto articolata e ricca di riferimenti a precedenti pronunce, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del c.d. “blocco dei contratti dei pubblici dipendenti”

Il Tribunale di Roma, in funzione di Giudice del lavoro, con ordinanza del 27 novembre 2013, ed il Tribunale di Ravenna, in funzione di Giudice del lavoro, con ordinanza del 1° marzo 2014, variamente motivate, hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1, 2-bis, 17 primo periodo e 21 ultimo periodo del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122 e dall’art. 16, comma 1, lett. b) e c) del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111.

Le suddette norme disponevano il blocco dei rinnovi contrattuali del pubblico impiego per il triennio 2010-2012, con possibilità di proroga fino al 2014, “congelando” il trattamento economico percepito dai dipendenti.

Il D.L. n. 98 del 2011, demandava a uno o più regolamenti, da adottarsi ai sensi dell’art. 17, comma 2, legge 23 agosto 1988, n. 400, la possibilità di estensione del “blocco” fino al 2014. Estensione, puntualmente applicata con il D.P.R. 4 settembre 2013, n. 122.

La vulnerabilità della fonte regolamentare condusse il legislatore a trasfondere tale disposizione in una fonte di rango primario (legge 27 dicembre 2013, n. 147 – c.d. legge di stabilità 2014 -).

Il predetto D.P.R. 122/13 escludeva, per il periodo 2013-2014, qualsiasi incremento della “vacanza contrattuale” attribuita nel 2010. Consentiva, tuttavia, la possibilità, per il periodo 2015-2017, il riconoscimento della vacanza contrattuale “secondo le modalità ed i parametri individuati dai protocolli e dalla normativa vigente”.

Prima ancora di dare esecuzione a tale possibilità, e nelle more del giudizio pendente innanzi alla Consulta, il legislatore, con l’art. 1, comma 254, legge 23 dicembre 2014, n. 190 (c.d. legge di stabilità 2015) ha disposto la sospensione delle procedure negoziali, per la parte economica, fino al 31 dicembre 2015 e il “congelamento” (comma 255 dello stesso articolo) dell’indennità di vacanza contrattuale fino al 2018, ancorata ai valori vigenti al 31 dicembre 2013.

E’ opportuno precisare che, per effetto delle norme all’esame del Giudice delle Leggi, l’indennità di vacanza contrattuale è rimasta cristallizzata ai valori fissati al 31 dicembre 2010.

La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili o non fondate tutte le questioni di illegittimità costituzionale sollevate, tranne una: quella fondata sull’art. 39 Cost.. Peraltro, sottolinea la Corte, si tratta di illegittimità sopravvenuta, correlata all’ultima legge di stabilità.

Nelle motivazioni si da rilievo alla notevole importanza che, per il pubblico impiego, riveste il contratto: esso riguarda sia l’aspetto economico (nelle sue componenti sia fondamentali che accessorie) che i diritti e gli obblighi pertinenti al rapporto di lavoro nonché materie relative alle relazioni sindacali.

Eccetto il limitato ambito di intervento del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), la contrattazione collettiva nazionale e quella integrativa di comparto regolamentano, quasi in toto, il rapporto sinallagmatico esistente tra il datore di lavoro pubblico ed i dipendenti contrattualizzati. Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (C.C.N.L.) e, di conseguenza, il Contratto Collettivo Nazionale Integrativo (C.C.N.I.), hanno – dal 2009 – una durata triennale; in precedenza, la durata era di quattro anni, suddivisa, per la parte economica, in due bienni.

In passato, il trattamento economico del pubblico impiego, godeva di incrementi, correlati al tasso di inflazione programmata.

Anche se appare di minore importanza, l’aspetto giuridico della contrattazione collettiva, involge effetti rilevanti per i lavoratori: dall’ordinamento professionale alla determinazione dei requisiti per la progressione in carriera; dalle procedure di raffreddamento alla rappresentanza sindacale; dalla composizione delle delegazioni di parte pubblica e di parte sindacale per la contrattazione collettiva ai diritti sindacali (modalità di utilizzo dei distacchi, aspettative, permessi e determinazione delle prerogative sindacali), dagli emolumenti accessori  (legati allo svolgimento di determinate attività) alle procedure di mobilità volontaria e/o coatta.

E’ evidente che il blocco in argomento, per un quinquennio, ha irragionevolmente limitato e persino <<annichilito>> quelle libertà sindacali che proprio nella libertà di contrattazione ha la sua espressione caratteristica (così nella memoria difensiva della parte sindacale ricorrente).

Le libertà e la rappresentanza sindacali, e tra esse la contrattazione collettiva, non godono di tutela soltanto con l’art. 39 Cost., ma trovano copertura giuridica sovranazionale che, insieme e in modo complementare, orientano le decisioni sia della Consulta che delle Corti Europee. Tra queste: la Convenzione OIL n. 87 (firmata a San Francisco il 17 giugno 1948), la n. 98 (firmata a Ginevra l’8 giugno 1949), la n. 151 (firmata a Ginevra il 27 giugno 1978), tutte ratificate e rese esecutive con leggi nazionali.

In ambito europeo, l’art. 11 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (CEDU), rubricato “Libertà di riunione e di associazione”, sancisce il diritto “… di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi per la difesa dei propri interessi”. In tale dizione, secondo una ormai consolidata interpretazione estensiva, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, individua la correlazione tra libertà sindacale e contrattazione collettiva.

Non da meno è la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, che – a seguito delle modifiche al TUE, introdotte dal Trattato di Lisbona firmato il 13 dicembre 2007, che ha conferito lo stesso valore giuridico dei Trattati (art. 6, comma 1, TUE) – all’art 12 attribuisce ad ogni individuo il diritto alla libertà di riunione pacifica in campo politico, sindacale e civico, con la possibilità di fondare sindacati e/o di aderirvi per la difesa dei propri interessi.

Ma ancor di più, l’art. 26 sancisce il diritto (dei lavoratori e dei datori di lavoro o delle rispettive organizzazioni) di negoziare e di concludere contratti collettivi.

La Corte Costituzionale, ai fini della decisione non ha ritenuto rilevante solo l’aspetto economico della contrattazione, cosa che invece ha fatto – poco tempo prima – con la dichiarazione di incostituzionalità del blocco delle pensioni, ma la contrattazione in quanto tale, sotto le sue varie sfaccettature.

In effetti la Consulta ha dichiarato inammissibili o non fondate le questioni di costituzionalità in relazione ai principi di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), di disparità di trattamento (art. 3 Cost.), di proporzionalità tra lavoro e retribuzione (art. 36 Cost.), di tutela del lavoro (art. 35 Cost.), di progressività del prelievo tributario (art. 53 Cost.).

In sostanza il blocco della contrattazione incide sull’aspetto dinamico del confronto tra datore di lavoro pubblico e rappresentanti dei lavoratori: paralizza una delle parti contrattuali “annichilendone” l’esistenza.

Certamente l’aspetto economico non è l’unico che coinvolge le parti, ma sicuramente di grande rilevanza, tanto da essere quello più diffusamente percepito dai lavoratori.

Ma la Corte si spinge oltre, evidenziando che il blocco pluriennale della dinamica salariale non è di per se illegittimo: esso richiede il bilanciamento tra la pretesa dei lavoratori pubblici all’aumento delle retribuzioni e le esigenze di bilancio e di programmazione economica in relazione alla grave crisi economica internazionale e alla previsione del pareggio di bilancio e di risanamento economico imposto dall’art. 81 Cost.

Il Giudice delle Leggi – da quel che si deduce dalla parte motiva della sentenza – avrebbe, probabilmente, dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale del blocco dei contratti anche in relazione all’art. 39 Cost., se non fosse intervenuta – nelle more del giudizio – la legge 194/2014 (legge di stabilità 2015). Ciò perché quest’ultima ha disposto, non solo la sospensione delle procedure negoziali fino al 31 dicembre 2015, ma anche il congelamento dall’aggiornamento dell’indennità di vacanza contrattuale, quale possibilità prevista dalla legge di stabilità 2014 per il triennio 2015/2017, fino al 2018.

In altre parole, il blocco della contrattazione collettiva, anche se con orizzonte temporale a medio termine (5 – 6 anni) non è in quanto tale illegittima, ma – come sottolineato dalla Consulta nella parte motiva – “è innegabile che tali periodi debbano essere comunque definiti e non possono essere protratti ad libitum”.

Badalamenti Domenico

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