Nullità della transazione stipulata dalla P.A.; accoglimento; artt. 2, 52, 65, 66 d.lgs. n. 165/01; orientamento confermato.
Nell’impiego pubblico contrattualizzato il datore di lavoro, pur non potendo esercitare poteri autoritativi, tra cui quello di autotutela, non può dare esecuzione ad atti nulli né assumere, in sede conciliativa, obbligazioni che contrastino con la disciplina del rapporto dettata dal legislatore e dalla contrattazione collettiva.
Il divieto imposto al datore di lavoro pubblico di attribuire trattamenti giuridici ed economici diversi da quelli previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva, anche se in melius, impedisce sia il riconoscimento di inquadramenti diversi da quelli previsti dal ccnl di comparto sia l’attribuzione della qualifica superiore in conseguenza dello svolgimento di fatto delle mansioni.
Il caso
Il Tribunale di Aosta aveva ritenuto l’illegittimità dell’atto di annullamento in autotutela di una transazione sottoscritta dinanzi alla competente direzione del lavoro con la quale un ente pubblico (segnatamente l’Azienda Informazione e Accoglienza Turistica Monte Cervino) si era impegnato a riconoscere, nei confronti di una dipendente, l’inquadramento nella categoria C, posizione economica C2, ed il relativo trattamento giuridico ed economico.
Appellata la sentenza, la corte adita respingeva il gravame proposto dalla suddetta azienda (nelle more divenuta Office Regional du Tourisme) assumendo a base del decisum – per quel che qui rileva – l’insussistenza di poteri autoritativi, di natura amministrativa, nel campo dell’impiego pubblico contrattualizzato stante l’attribuzione degli stessi poteri e capacità del privato; di qui la conseguente impossibilità di annullamento unilaterale dell’accordo in parola.
La decisione della Corte
Nel confermare l’insussistenza dell’autotutela in discorso, la Suprema Corte aggiunge, però, che qualora l’atto adottato risulti in contrasto con una norma imperativa, l’ente pubblico, che è tenuto a conformare la propria condotta alla legge, nel rispetto dei principi sanciti dall’art. 97 della Costituzione, ben può sottrarsi unilateralmente all’adempimento delle obbligazioni scaturenti dall’atto illegittimo.
La renitenza di cui sopra, ove attuata, sarebbe equiparabile a quella di qualsiasi contraente privato che non osservi il contratto stipulato in quanto ritenuto inefficace a motivo della nullità cui risulta affetto (così, da ultimo, Cass. n. 3826/16; nello stesso senso Cass. n. 19626/15).
Tali principi trovano applicazione anche nel caso in cui si verta in tema di obbligazioni assunte dall’amministrazione all’esito del tentativo di conciliazione di cui agli artt. 65 e 66 del d.lgs. n. 165/01.
Qualora l’atto transattivo risulti affetto da nullità o annullabilità lo stesso non potrà soggiacere alla inoppugnabilità sancita dall’art. 2113 c.c. dal momento che l’intervento dell’ufficio del lavoro (da cui la preclusione in parola) è volto a sottrarre il lavoratore dalla condizione di soggezione che potrebbe essere ingenerata dal datore, efficace viatico per eventuali rinunce e transazioni imposte da quest’ultimo.
Difatti, in tale ipotesi, il contraente manterrà intatto il proprio diritto all’azionabilità delle impugnative contrattuali poiché l’intervento del suddetto ufficio non potrebbe in nessun caso esplicare una efficacia sanante o impeditiva (così, ex multis, Cass. n. 9348/14).
Stesso discorso per gli accordi presi ai sensi dell’art. 66 d.lgs. n. 165/01, laddove potrà esserne eccepita la nullità allorquando l’amministrazione, in violazione di norme inderogabili, abbia riconosciuto al dipendente un trattamento giuridico ed economico allo stesso non dovuto (Cass. n. 3246/15).
Gli Ermellini arrivano, pertanto, a censurare la motivazione assunta dalla corte territoriale che aveva ritenuto determinante ai fini del decidere la sola carenza del potere di autotutela tralasciando di considerare la nullità della conciliazione, per violazione dell’art. 52 d.lgs. n. 165/01, assunta dall’ente appellante a giustificazione della propria inosservanza contrattuale.
La differenza di disciplina in parte qua dell’impiego pubblico rispetto a quello privato rinviene la propria radice negli interessi di carattere generale – tra cui quelli dell’efficienza, del contenimento e della necessaria predeterminazione della spesa – che impongono alla pubblica amministrazione, fatta eccezione per i casi espressamente previsti dalla legge, di assegnare al dipendente solo compiti che siano corrispondenti alla qualifica di assunzione o a quella legittimamente acquisita per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive, così come stabilito dal succitato disposto normativo.
In caso di esercizio di fatto di mansioni superiori, il dipendente pubblico potrà, quindi, solo limitarsi a rivendicare il trattamento retributivo corrispondente alla qualità e quantità del lavoro prestato, limitatamente al periodo eseguito.
Ad ulteriore conferma degli interessi di rilievo costituzionale in gioco, il legislatore ha previsto, altresì, la responsabilità personale del dirigente che abbia dato causa a maggiori esborsi, ove ciò sia avvenuto in conseguenza di dolo o colpa grave (Cass. n. 14664/17).
Le stesse Sezioni Unite, intervenute in tale ambito, hanno negato qualsivoglia potere al datore di lavoro pubblico circa l’attribuzione di inquadramenti in violazione del contratto collettivo, riconoscendogli, nel contempo, la sola possibilità di adattare i profili professionali, così come indicati in sede di contrattazione collettiva, alle proprie esigenze organizzative senza modificare la posizione giuridica ed economica stabilite dalla regolamentazione pattizia.
Di conseguenza, qualsiasi atto in deroga, anche migliorativo nei confronti del lavoratore, sarà affetto da nullità sia sul versante negoziale, per violazione di norma imperativa, e sia sotto il profilo amministrativo, perché viziato da difetto assoluto di attribuzione ai sensi dell’art. 21 septies l. n. 241/90, dovendosi escludere che la P.A. possa intervenire con atti autoritativi nelle materie demandate alla contrattazione collettiva (così Cass. SS.UU. n. 21744/09).
Dando seguito ai suddetti principi la Corte, in accoglimento del ricorso, ha, pertanto, cassato la sentenza impugnata rinviando la causa alla corte di appello in diversa composizione.
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