L’impugnabilità del diniego, espresso o tacito, di annullamento di un atto impositivo in autotutela da parte dell’Amministrazione Finanziaria è un argomento che è stato oggetto di un quanto mai acceso dibattito dottrinale e di interventi a cadenza annuale da parte della Corte di Cassazione. Tuttavia, proprio nelle aule del Palazzaccio, tale dibattito ha causato uno snaturamento della funzione dei giudici di legittimità tramutando la nomofilachia in “schizofilachia” conclamata con rischio ineludibile di contagio delle corti di merito e di danneggiamento per la “salute giuridica” dei contribuenti.
Il segno evidente di questo lungo ed inesorabile processo di mutazione “genetica” si rinviene nell’ordinanza della Corte di Cassazione, Sez. VI, n. 13176 del 7 maggio 2015, depositata il 25 giugno 2015 e nella sentenza della V sezione, n. 14243, del 4 giugno 2015 e depositata l’8 luglio 2015, le quali hanno avuto ad oggetto, per l’appunto, la problematica dell’ammissibilità di un ricorso proposto avverso il diniego di annullamento in autotutela di un atto impositivo emesso dall’Agenzia delle Entrate.
La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 13176/2015 in commento, ha espresso il seguente principio di diritto: “In tema di contenzioso tributario, l’atto con il quale l’Amministrazione manifesti il rifiuto di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo, non rientra nella previsione di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19 e non è quindi impugnabile, sia per la discrezionalità da cui l’attività di autotutela è connotata in questo caso, sia perchè, altrimenti, si darebbe ingresso ad una inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo” (si noti che nel passato la Suprema Corte riteneva addirittura sussistere difetto di giurisdizione, per assoluta improponibilità della domanda, nel caso in cui un soggetto chieda al giudice amministrativo di annullare il provvedimento di rigetto implicito nel silenzio opposto dalla pubblica amministrazione all’istanza di rettificazione in autotutela di un provvedimento, trattandosi appunto di istanza di mero sollecito all’esercizio, di ufficio, da parte della P.A. del proprio potere di autotutela ed avendo siffatto esercizio carattere eminentemente discrezionale: in termini Cass. Sez. U, Sentenza n. 4541 del 07/12/1976).”
Questo principio, per come evidenziato dalla stessa Corte di Cassazione in seno alla propria ordinanza, deriva dal pronunciamento delle Sezioni Unite n. 3698 del 16 febbraio 2009 che sembrava aver chiuso definitivamente (ma non in maniera convincente da un punto di vista giuridico) ogni spiraglio alla possibilità del contribuente di poter impugnare dinnanzi le Commissioni Tributarie il diniego di annullamento in autotutela.
Tuttavia, a distanza di quasi due settimane, la Corte di Cassazione, sez. V, si pronuncia nuovamente sulla questione in oggetto, stravolgendo completamente quello che doveva essere l’orientamento definitivo per gli anni a seguire stabilito nel 2009 dalle Sezioni Unite.
In particolare, con la sentenza n. 14243 depositata l’8 luglio 2015, i giudici di legittimità sempre in tema di impugnabilità del diniego di annullamento in autotutela, hanno affermato che: “L’esercizio del potere di autotutela in materia tributaria attraverso l’annullamento parziale di un avviso impositivo, non preclude al contribuente, ancorchè l’originario provvedimento fosse già definitivo, la possibilità di impugnare, nei termini di legge, il provvedimento emesso in autotutela, privandosi altrimenti il contribuente della possibilità di difesa relativamente a tale atto, ancorché riduttivo della originaria pretesa. L’elencazione degli atti impugnabili davanti al giudice tributario, di cui all’art. 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992, non esclude, inoltre l’impugnabilità di atti non compresi in tale novero ma contenenti la manifestazione di una compiuta e definita pretesa Tributaria, come nel caso di provvedimento in autotutela (Cass 8.10.2007, n. 21045). L’aver consentito l’accesso al contenzioso tributario in ogni controversia avente ad oggetto tributi, comporta… la possibilità per il contribuente di rivolgersi al giudice tributario ogni qual volta la Amministrazione manifesti la convinzione che il rapporto tributario (o relativo a sanzioni tributarie) debba essere regolato in termini che il contribuente ritenga di contestare (in assenza di simile manifestazione di volontà espressa o tacita non sussisterebbe l’interesse del ricorrente ad agire in giudizio ex art. 100 c.p.c.)” (Cass. SS.UU.,10.8. 2005, n. 16676). Va, quindi, riconosciuta la possibilità di ricorrere alla tutela del giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore anche in caso di provvedimenti adottati in autotutela che, con l’esplicazione delle concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, porti comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa Tributaria, essendo legittimato ad invocare una tutela giurisdizionale – ormai, allo stato, esclusiva del giudice tributario – comunque di controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva e/o dei connessi accessori vantati dall’ente pubblico (Cass., SS.UU., 27. 3.2007 n. 7388), tutela che altrimenti, non potrebbe mai più invocare in quanto non consegue alcun ulteriore atto impositivo a seguito dal provvedimento di autotutela e, pena, quindi, la violazione del diritto di difesa, si deve riconoscere la ricorribilità di provvedimenti davanti al giudice tributario ogni qual volta vi sia un collegamento tra atti della Amministrazione e rapporto tributario, ove tali provvedimenti siano idonei ad incidere sul rapporto tributario. Pertanto, nonostante l’elencazione degli atti impugnabili, contenuta nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992, il contribuente può impugnare anche atti diversi da quelli contenuti in detto elenco, purché espressione di una compiuta pretesa Tributaria, quale il provvedimento di autotutela.“.
Come si può ben vedere, la sentenza sopra citata stravolge completamente l’orientamento delle Sezioni Unite del 2009 e fornisce una chiave di lettura ancorata all’orientamento delle Sezioni Unite del 2005 e del 2007 che avevano (correttamente) riconosciuto sia la sussistenza della giurisdizione tributaria in materia di autotutela su atti impositivi che l’impugnabilità del diniego di annullamento.
Tuttavia, dall’analisi delle due pronunce rese dalla Corte di Cassazione emergono dei profili di criticità che di seguito si enucleano.
Il primo è quello di vedere, a seguito della sentenza n. 14243/2015, quali sono i confini entro cui il giudice tributario deve muoversi nel sindacare un provvedimento di diniego di annullamento in autotutela.
Tali confini, a parere di chi scrive e visto anche il richiamo delle SS.UU. del 2005 e del 2007, consistono nella possibilità di poter sindacare il provvedimento di diniego sotto il profilo della legittimità formale (ad esempio mancanza di motivazione) qualora lo stesso si limiti a confermare l’atto impositivo oggetto dell’istanza di annullamento mentre potranno estendersi anche a sindacare il merito della pretesa qualora il provvedimento di diniego contenga una nuova istruttoria svolta dall’Ufficio al fine di addivenire alla conferma del provvedimento de quo. In tal modo si evita di poter ingiustamente consentire al contribuente, rimasto inerte di fronte al provvedimento impositivo notificato dall’Amministrazione Finanziaria, di rimettere in discussione tale provvedimento a discapito della certezza dei rapporti giuridici consolidati e della perentorietà del termine per l’impugnazione degli atti impositivi.
Il secondo profilo è quello che attiene all’impugnabilità del silenzio rifiuto che si venga a formare su un’istanza di annullamento in autotutela dell’atto.
Ed invero, in questo caso, non c’è un provvedimento impositivo da impugnare il cui contenuto può essere vagliato dal giudice e nasce quindi un vuoto di tutela che, a parere dello scrivente, dovrebbe essere colmato mediante un intervento legislativo che introduca l’obbligatorietà di risposta da parte dell’Amministrazione Finanziaria a fronte di istanze di annullamento in autotutela. Nelle more di tale intervento, l’unica valida alternativa è fornita dall’art. 13, comma 6, della l. n. 212/2000 ossia dal potere conferito al Garante del Contribuente di attivare i procedimenti in autotutela e, quindi, di ottenere in ogni caso una risposta in ordine all’istanza presentata.
Il terzo profilo di criticità è quello che attiene agli scenari che si possono profilare nelle aule delle Commissioni Tributarie a seguito di questi due recenti interventi della Corte di Cassazione.
Purtroppo non sarà raro che le diverse sezioni delle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali propenderanno sia per l’orientamento restrittivo (inammissibilità del ricorso proposto avverso il diniego di annullamento) sia per l’orientamento estensivo (impugnabilità ed ammissibilità del ricorso). Tutto questo non farà altro che evidenziare come sia assolutamente intollerabile, nel sistema giuridico tributario, anche alla luce dei principi costituzionali coinvolti quali quello della capacità contributiva (art. 53 Cost.), quello del diritto di difesa (art. 24 Cost.) e ultimo ma non meno importante quello dell’uguaglianza di trattamento (art. 3 Cost.), che si possa o meno incappare nella negazione della tutela giurisdizionale avverso provvedimenti dell’Amministrazione Finanziaria in base all’orientamento della Sezione di turno della Commissione Tributaria, in primis, e, in secundis ma ancor più grave, della Corte di Cassazione. Ed anche se a seguito di questo conflitto di orientamenti la questione dovesse essere rimessa nuovamente alle Sezioni Unite, lo spettro della “schizofilachia” è sempre aleggiante sulle sorti dei contribuenti come palesemente dimostrato dal fatto che per ben tre volte già le Sezioni Unite si sono pronunciate sul tema. Urge, pertanto, un intervento del legislatore che completi la disciplina dell’autotutela in materia tributaria onde consentire uno svolgimento sereno dell’attività dell’Agenzia delle Entrate, dell’attività dei giudici tributari nonché della vita “fiscale” dei contribuenti.
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