1. Premessa
L’ordinanza n. 1305 resa dalla Terza Sezione della Suprema Corte il 25.01.2016 fornisce interessanti indicazioni in ordine al rapporto tra l’udienza camerale prevista dall’art. 380-bis c.p.c. e la garanzia del contraddittorio.
Il provvedimento è intervenuto all’esito di un giudizio avviato dal proprietario-conducente di un veicolo coinvolto in un incidente della strada.
Nell’adire la Suprema Corte, l’automobilista aveva, tra l’altro, censurato il mancato ristoro del c.d. pregiudizio da ‘fermo tecnico’. Questo, come è noto, consiste nel danno subito dal proprietario per non aver potuto utilizzare il veicolo durante il tempo necessario alle riparazioni.
La voce risarcitoria gli era stata negata dal giudice del gravame sul presupposto che fosse rimasta indimostrata, non potendosene desumere la sussistenza in re ipsa.
L’impugnante aveva chiesto la cassazione della sentenza siccome contraria all’orientamento maggioritario della Suprema Corte favorevole ad una liquidazione in via equitativa, rilevando a tal fine «la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall’uso a cui esso era destinato. L’autoveicolo è, difatti, anche durante la sosta forzata, fonte di spesa (tassa di circolazione, premio di assicurazione) comunque sopportata dal proprietario, ed è altresì soggetto a un naturale deprezzamento di valore» (Cass. civ., ord. 04.10.2013 n. 22687; in senso conforme: Cass. 6907/2012; 1688/2010; 23916/2006; 12908/2004; 17963/2002; 3234/1987).
Il procedimento veniva avviato alla trattazione in camera di consiglio dal momento che il relatore nominato aveva ravvisato l’ipotesi di manifesta infondatezza dei motivi prevista dall’art. 375, comma 1, n. 5) c.p.c. .
Nella relazione ex art. 380-bis c.p.c., la censura era ritenuta «manifestamente inammissibile: tanto perché sollecita da questa Corte una tipica valutazione di merito, quanto perché corretta fu la statuizione della Corte di appello secondo cui il pregiudizio in questione non può mai ritenersi in re ipsa ma deve essere debitamente allegato e provato come ritenuto da tempo da questa corte, con orientamento largamente maggioritario».
Avvalendosi della facoltà di depositare memorie e di essere sentito all’udienza camerale, il ricorrente chiariva di non aver affatto inteso contestare la misura della liquidazione operata dal giudice di merito, essendo consapevole che ciò implicasse un implicito invito al Collegio a surrogarsi in valutazioni fattuali precluse per legge. Deduceva, piuttosto, di aver allegato la violazione del principio di integralità del risarcimento. Ciò sul rilievo che il ristoro accordatogli in secondo grado non comprendesse il danno da sosta tecnica la cui entità era stata stimata in giorni sette dal c.t.u. senza che il punto fosse stato contestato.
A sostegno delle proprie ragioni soggiungeva che la giurisprudenza di legittimità, in modo quasi unanime, appariva orientata verso l’indirizzo opposto a quello che la relazione additava come maggioritario e consolidato.
Tra i precedenti di maggior rilievo, indicava la recentissima sentenza n. 13215/2015, intervenuta un mese prima del deposito della relazione e così massimata: «E’ consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio in ragione del quale il c.d. danno da “fermo tecnico”, patito dal proprietario di un autoveicolo a causa della impossibilità di utilizzarlo durante il tempo necessario alla sua riparazione, può essere liquidato anche in assenza d’una prova specifica, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall’uso effettivo a cui esso era destinato. L’autoveicolo, infatti, anche durante la sosta forzata è una fonte di spesa per il proprietario (tenuto a sostenere gli oneri per la tassa di circolazione e il premio di assicurazione), ed è altresì soggetto a un naturale deprezzamento di valore (tra le varie, cfr. Cass. n. 22687/13; 23916/06; 12908/04; 17963/02)».
L’impugnazione veniva definita con ordinanza del 25.01.2016 che, ritendo non decisive le osservazioni svolte dal ricorrente, confermava la relazione.
Con specifico riferimento al motivo di censura relativo al c.d. danno da fermo tecnico, ribadiva l’infondatezza delle argomentazioni svolte dall’impugnante «alla luce del principio già affermato da Sez. 3 Sentenza n. 20620 del 14.10.2015…» alle cui motivazioni in diritto rinviava ai sensi dell’art. 118, comma 1, ultima parte, disp. att. c.p.c. .
Giova rilevare che, con l’arresto summenzionato, la questione dibattuta era stata così vagliata: «Da oltre quarant’anni (dal 1972, per l’esattezza) nella giurisprudenza di questa Corte si registra un contrasto irrisolto sulla prova del c.d. danno da fermo tecnico: vale a dire del pregiudizio patito dal proprietario di un veicolo per non averne potuto disporre durante il tempo necessario alle riparazioni.
Secondo un primo e più antico orientamento, il danno da fermo tecnico può essere liquidato “ anche in assenza di prova specifica, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall’uso a cui esso era destinato”.
Questo orientamento si fonda sull’assunto secondo cui il proprietario di un veicolo a motore, durante il tempo delle riparazioni, sopporta necessariamente una perdita economica pari:
a) Alla tassa di circolazione;
b) Al premio di assicurazione;
c) Al deprezzamento del veicolo.
La sentenza ‘capostipite’ in tal senso è rappresentato da Sez. 3, Sentenza n. 2109 del 23/06/1972, Rv. 359341; in seguito, nello stesso senso, si sono pronunciate Sez. 3, Sentenza n. 13215 del 26/06/2015, non massimata; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 22687 del 04/10/2013, Rv. 629051; Sez. 3, Sentenza n. 9626 del 19/04/2013, Rv. 626034; Sez.3, Sentenza n. 6907 del 8.5.2012, non massimata; Sez. 3, Sentenza n. 23916 del 09/11/2006, Rv. 593159; Sez. 3, Sentenza n. 17963 del 14.12.2002, Rv. 559270; Sez. 3, Sentenza n. 12908 del 13/07/2004, Rv. 574496; Sez. 3, Sentenza n. 3234 del 03/04/1987, Rv. 452307; Sez. 3, Sentenza n. 4009 del 28/08/1978, Rv. 393612; Sez. 3, Sentenza n. 1737 del 05/05/1975, Rv. 375375.
Per un diverso e più recente orientamento, invece, il danno da fermo tecnico non può considerarsi sussistente in re ipsa, quale conseguenza automatica dell’incidente. Esso può essere risarcito soltanto al cospetto “di esplicita prova” non solo del fatto che il mezzo non potesse essere utilizzato, ma anche del fatto che il proprietario avesse davvero necessità di servirsene, e sia perciò dovuto ricorrere a mezzi sostitutivi, ovvero abbia perso l’utilità economica che ritraeva dall’uso del mezzo. Questo orientamento, inaugurato da Sez. 3, Sentenza n. 970 del 07/02/1996, Rv. 495753, è stato in seguito ribadito da Sez. 3, Sentenza n. 12820 del 19/11/1999, Rv. 531285 e da Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 15089 del 17/07/2015, non massimata”.
Ritiene questa Corte che il primo di tali orientamenti non possa essere condiviso, perché tutti e sei gli assunti su cui si fonda sono erronei».
L’arresto passava poi ad esaminare, criticandoli, i singoli punti fondanti l’orientamento favorevole al danneggiato assumendo che:
a) la tassa di circolazione, a seguito delle modifiche legislative, è stata trasformata in tassa sulla proprietà, sicchè la debenza del tributo prescinde dalla circolazione del veicolo;
b) il premio assicurativo non può dirsi inutilmente pagato non venendo meno il rischio che il veicolo possa causare danni a terzi anche durante il periodo della riparazione come ad esempio in caso di incendio oppure di sinistri verificatisi durante il collaudo;
c) l’efficacia della polizza assicurativa ben poteva essere sospesa dal proprietario in adesione ad un suo obbligo di diligenza ex art. 1227 c.c.; d) il pregiudizio non può ritenersi collegato alla riparazione cui eventualmente consegue un incremento di valore, come ad esempio nel caso di riparazione di un veicolo obsoleto.
Qualche riflessione
La vicenda processuale compendiata si è snodata in maniera certamente peculiare.
Il ricorso per cassazione proposto dal danneggiato veniva deferito alla trattazione camerale ex art. 380-bis c.p.c., sul presupposto di una sua manifesta infondatezza. Con riguardo alla doglianza relativa al mancato riconoscimento del danno c.d. da fermo tecnico, la relazione depositata in data 25.07.2015, ne prospettava il contrasto con un orientamento giurisprudenziale non meglio specificato ma indicato come largamente maggioritario e da tempo seguito dalla Corte.
All’assunto, il ricorrente opponeva che lo stato della giurisprudenza di legittimità fosse indicativo del contrario, menzionando tutte le principali sentenze intervenute a sancire la risarcibilità del danno da fermo tecnico anche in mancanza di una specifica prova del pregiudizio. Tra queste richiamava Cass. n. 13215/2015, depositata appena un mese prima che fosse resa disponibile la relazione.
La Corte, con ordinanza del 25.01.2016, dichiarava l’adesione alla “proposta di sentenza” e rigettava il ricorso. A testimonianza dell’orientamento di maggior rigore in tema di assolvimento dell’onere della prova si riportava a Cass. n. 20620/2015 condividendone le motivazioni in diritto.
Orbene, dal confronto dei riferimenti cronologici, non sfuggirà che il precedente giurisprudenziale succitato è venuto ad esistenza dopo la stesura della relazione ed in epoca coeva all’udienza camerale (14/10/2015).
E’ di tutta evidenza, quindi, che di esso non potessero avere conoscenza le parti e tantomeno il relatore, per cui neppure implicitamente si era realizzato il contraddittorio sul suo contenuto.
Neppure poteva darsi per noto l’iter argomentativo seguito in quella sede, fondandosi questo su motivazioni originali e non sovrapponibili ai pur scarni arresti dello stesso segno.
Quindi, allorquando il ricorrente era stato chiamato ad esercitare la facoltà di controdedurre alla relazione, aveva quale assunto da contrastare, in tema di danno da fermo tecnico, unicamente quello relativo al peso e all’autorevolezza dei precedenti che sostenevano la tesi data come consolidata ma, a suo parere, assolutamente minoritaria e definitivamente abbandonata.
Il richiamo per relationem di Cass. 20620/2015 ha, pertanto, introdotto nel processo questioni giuridiche di tale novità (la possibilità di evitare il danno rappresentato dall’inutile pagamento del premio assicurativo mediante la sospensione della polizza nel periodo delle riparazioni; il vantaggio riportato dal proprietario nel tenerla in vigore; l’incremento di valore del mezzo per effetto delle riparazioni; ecc.) da far apparire indispensabile il rinvio della causa alla pubblica udienza.
Del resto, che un siffatto provvedimento fosse opportuno, emerge dalla stessa motivazione con cui è stata rigettata la proposta di condanna del ricorrente ex art. 96 c.p.c., pure oggetto di richiesta del relatore.
Ed invero, il Collegio ha testimoniato l’esistenza di orientamenti difformi su due dei tre motivi di doglianza scrutinati, ritenendo quindi e per ciò solo che il ricorso non fosse manifestamente infondato.
La manifesta infondatezza avrebbe richiesto, infatti, che l’insussistenza di valide ragioni di accoglimento fosse percepibile ictu oculi, senza possibilità di interpretazioni alternative, presupposto questo evidentemente escluso al cospetto di orientamenti divergenti o comunque in corso di mutamento.
Si sarebbe potuto altrimenti optare per un rinnovo della relazione al fine di suscitare il dibattito processuale sulle nuove questioni.
Il fatto che ciò non sia avvenuto, da ragione del pericolo insito nel governo del meccanismo di filtro. Questo, nel rispetto delle garanzie costituzionali, dovrebbe essere flessibile rispetto alla possibilità di revisione dei presupposti per cui è stato azionato.
Del resto, le rigidità in questo campo, come sembra trasparire dal caso in commento, non incidono sulla sola vicenda portata all’attenzione del Supremo Collegio. Esse, al contrario, si riverberano sulla valenza orientativa dei precedenti di legittimità nella misura in cui possa essere ritenuto manifestamente infondato un ricorso che la parte ha confezionato proprio sulla base degli insegnamenti giurisprudenziali di cui disponeva in quel momento.
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