(Orientamento confermato)
(Ricorso dichiarato inammissibile)
(Normativa di riferimento: Cod. proc. pen. art. 297, c. 3)
Il fatto e i motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Con ordinanza del 17 agosto 2017, il Tribunale del riesame di Reggio Calabria confermava l’ordinanza con la quale il Giudice per le indagini preliminari di quello stesso tribunale, in data 15 luglio 2017, aveva applicato ad A. G. la custodia cautelare in carcere per il delitto di cui all’art. 416-bis cod.pen., per partecipazione alla associazione mafiosa denominata “ndrangheta”, nonché per i delitti di cui all’art. 12-quinquies legge 7 agosto 1993, n. 356 e di illecita detenzione e porto in luogo pubblico di numerose armi comuni da sparo.
Tale decisione aveva ad oggetto anche il tema della eventuale retrodatazione ex art. 297, comma 3, cod. proc. pen. del termine di inizio della custodia cautelare al gennaio 2016, data di esecuzione di una diversa ordinanza di custodia in carcere per reati di detenzione di sostanze stupefacenti ed armi, con l’aggravante di cui all’art.7, legge 12 luglio 1991, n.203.
La difesa, difatti, aveva dedotto la esistenza di una chiara connessione tra le ipotesi delittuose oggetto delle due distinte ordinanze cautelari rilevando che i fatti da ultimo contestati erano già conosciuti o conoscibili all’epoca dell’adozione della prima misura cautelare.
Dal canto suo il Tribunale rigettava tale richiesta di retrodatazione facendo riferimento all’indirizzo giurisprudenziale rappresentato dalla pronuncia resa da Sez. 4, n. 18111 del 02/03/2017, omissis: rilevava che, da un lato, poiché la misura cautelare emessa per prima si inseriva in un procedimento già transitato alla fase del giudizio, la diversità della fase cautelare era ostativa alla retrodatazione. dall’altro, la misura cautelare adottata per prima era «ancora in atto e perfettamente efficace».
Avverso tale ordinanza il difensore del G. proponeva ricorso in cassazione deducendo la violazione dell’art. 606, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 125 e 297 cod. proc. pen..
Il ricorrente sosteneva come il Tribunale, pur avendo confermato la sussistenza dei presupposti di fatto legittimanti l’applicabilità della retrodatazione, avesse però erroneamente ritenuto che la retrodatazione avrebbe dovuto essere effettuata frazionando la durata globale della custodia cautelare sofferta e computando solo i periodi relativi a fasi omogenee e sul punto si richiamava la diversa giurisprudenza di legittimità secondo cui la retrodatazione andrebbe calcolata sulla base dell’intero periodo di custodia cautelare presofferto e dunque a prescindere dall’imputazione di periodi per fasi omogenee.
Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
La seconda Sezione, cui il procedimento era stato assegnato, con ordinanza depositata il 3 maggio 2018, rimetteva la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite, al fine di stabilire «se, in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure caute/ari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, di cui all’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., deve essere effettuata frazionando la durata globale della custodia cautelare ed imputandovi solo i periodi relativi a fasi omogenee», precisando che il Tribunale del riesame aveva aderito alla tesi maggiormente restrittiva, pur senza valutare specificamente la sussistenza o meno, in punto di fatto, dei presupposti legittimanti l’operatività della disciplina della retrodatazione dei termini di custodia cautelare alla misura de qua.
La Sezione rimettente dava dunque atto del contrasto emerso in materia evidenziando come secondo l’orientamento maggioritario, cui pareva aver aderito il Tribunale del riesame, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, ai sensi dell’art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., impone, per il computo dei termini di fase, di frazionare la durata globale della custodia cautelare, imputando solo i periodi relativi a fasi omogenee (Sez. F, n. 47581 del 21/08/2014, Rv. 261262; Sez. 6, n. 15736 del 6/02/2013, Rv. 257204; Sez. 6, n. 50761 del 12/11/2014, Rv.261700; Sez. 4, n. 18111 del 2/3/2017, omissis).
Si faceva però al contempo presente come, a tale orientamento, si contrapponesse consapevolmente un indirizzo interpretativo minoritario (Sez. 6, n. 3058, 28/12/2017, Rv. 269285; Sez. 4, n. 36088 de 06/06/2017, Rv. 270759) secondo cui, in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, di cui all’art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., non deve essere effettuata frazionando la globale durata della custodia cautelare, bensì computando l’intera custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee.
A fronte di tale contrasto, la Sezione rimettente rilevava come su tale questione specifica le Sezioni Unite, nell’ambito delle decisioni adottate in materia di “contestazione a catena”, non si fossero mai pronunciate e, quindi, riteneva la sussistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità che rendeva necessaria la riannessione della questione al vaglio delle Sezioni Unite.
Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite osservavano prima di tutto come dovesse essere dedotta l’inammissibilità del ricorso che precludeva la valutazione della questione di diritto sottoposta al suo esame in considerazione del fatto che il reato associativo nel presente procedimento era stato contestato al ricorrente quale commesso «con condotta perdurante sino alla data odierna», e quindi in epoca successiva alla esecuzione della prima ordinanza di custodia per i reati in materia di armi ed intestazione fittizia.
Posto ciò, si faceva però presente come il tema della “contestazione a catena”, in riferimento a reati associativi, aventi natura permanente, con la eventualità della prosecuzione del reato anche dopo la esecuzione della prima ordinanza, ossia il momento dal quale si intende fare decorrere il termine di custodia della ordinanza “concatenata”, fosse stato già valutato dalle Sezioni Unite e segnatamente dalle Sez. U, n. 14535 del 10/04/2007 nei seguenti termini: deve «(…) condividersi l’affermazione della giurisprudenza prevalente (posta a fondamento delle precedenti decisioni negative nei confronti del ricorrente) che la retrodatazione prevista dall’art. 297, comma 3, c.p.p. “presuppone che i fatti oggetto dell’ordinanza rispetto alla quale operare la retrodatazione siano stati commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza e tale condizione non sussiste nell’ipotesi in cui l’ordinanza successiva abbia ad oggetto la contestazione del reato di associazione di stampo mafioso con descrizione del momento temporale di commissione mediante una formula cosiddetta aperta, che faccia uso di locuzioni tali da indicare la persistente commissione del reato pur dopo l’emissione della prima ordinanza” (..). È solo rispetto a condotte illecite anteriori all’inizio della custodia cautelare disposta con la prima ordinanza che può ragionevolmente operarsi la retrodatazione di misure adottate in un momento successivo, come si desume dalla lettera dell’art. 297, comma 3, c.p.p., che prende in considerazione solo i “fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza”».
Tal che, alla luce di questo arresto giurisprudenziale, gli ermellini, nella decisione in commento, postulavano come tale interpretazione dovesse essere ribadita in quella sede, e ciò anche in ragione del fatto che non vi era stata alcuna altra decisione successiva di segno contrario (in termini, cfr., Sez. 2, n. 8461 del 24/01/2017, omissis, Rv. 269121; Sez. 1, n. 46103 del 07/10/2014, omissis, Rv. 261272; Sez. 6, n. 31441 del 24/04/2012, omissis, Rv. 253237; Sez.1, n. 20882 del 21/04/2010, omissis, Rv. 247576; Sez. 1, n. 27785 del 12/06/2008, omissis, Rv. 240873).
Rileva tra l’altro la Corte che, nel caso di specie, rispetto alla contestazione formulata dal pubblico ministero, la ordinanza impugnata, nel corpo della motivazione, riportava le informazioni in ordine alle date cui vanno riferite le circostanze di fatto utili a ricostruire il quadro indiziario a carico del ricorrente ma non prendeva alcuna posizione sulla portata di tali elementi per individuare una data finale della condotta di partecipazione al reato associativo oggetto del procedimento e ciò, ad avviso dei giudici di legittimità ordinaria, rappresentava la chiara ragione per cui il Tribunale aveva superato a monte la questione della contestazione a catena sul diverso presupposto del passaggio di fase nel primo procedimento, non ritenendo necessaria alcuna ulteriore valutazione.
Del resto, osserva sempre la Corte in siffatta pronuncia, se, invero, in tema di esigenze cautelari, che i giudici de libertate avevano compiuto un breve riferimento alla “attualità” della condotta del reato permanente, è altrettanto vero che il Tribunale, al riguardo, riferiva di «assoluta mancanza di elementi indicativi della avvenuta rescissione del vincolo associativo» e dunque l’unica indicazione concreta, quanto all’epoca di commissione del reato, pur non sembrando oggetto di espressa considerazione, era, comunque, nel senso di piena conferma della contestazione che colloca la condotta anche nell’epoca successiva alla detenzione disposta per la prima misura cautelare.
I giudici di Piazza Cavour giungevano pertanto alla conclusione secondo la quale non vi era stata una valutazione implicita nel senso di ritenere la cessazione della condotta al momento del primo arresto.
Per quel che riguarda il ricorso proposto, invece, si metteva in risalto come questa impugnazione non avesse offerto alcun argomento per poter datare diversamente la condotta del reato associativo in quanto gli argomenti ivi utilizzati erano limitati alla valorizzazione del presunto implicito riconoscimento da parte del Tribunale della sussistenza delle condizioni per la contestazione a catena pur non essendoci stata alcuna presa di posizione da parte del Tribunale, come visto prima, sul requisito della antecedenza temporale.
Invece, prosegue la Corte nel suo ragionamento giuridico, considerando che, a fronte di una contestazione aperta quale quella in esame, soprattutto in un caso in cui la pluralità di destinatari della misura può far ritenere che la determinazione dell’epoca di commissione del reato non sia strettamente collegata alla posizione di ciascun singolo destinatario della misura, ben può il giudice o comunque l’indagato offrire una diversa ricostruzione del tempo di commissione del reato (e di cessazione della permanenza) mentre ciò non era avvenuto nella fattispecie in esame e, poiché per una diversa determinazione della data di cessazione della permanenza costituisce una questione avente ad oggetto l’apprezzamento degli elementi fattuali citati nel corpo dell’ordinanza impugnata, osservava la Corte come certamente non spettasse al giudice di legittimità alcun compito di riqualificazione del tempo del commesso reato.
Per dovere di completezza espositiva, veniva inoltre presa in considerazione anche una linea giurisprudenziale rappresentata da Sez. 1, n. 48211 del 13/11/2013, omissis, Rv. 257817 che esclude che la intervenuta detenzione di un partecipe di una associazione mafiosa sia elemento neutrale dovendo quantomeno presumersi l’interruzione dell’attività criminale e, quindi, ritenendosi necessario che emergano elementi concreti per affermare la prosecuzione del reato.
Orbene, gli ermellini, pur osservando come non vi fosse alcuna necessità di prendere posizione su una tale interpretazione – prima facie in contrasto con la affermazione opposta basata sul carattere di per sé totalizzante della adesione ad una banda di stampo mafioso – consideravano che nel caso concreto il principio non avesse nessuna rilevanza e ciò anche poichè il ricorso proposto non aveva affatto contestato l’imputazione per come formulata.
Quindi, nel presente procedimento, si ribadiva come non fosse stata prospettata, neanche in astratto, la situazione da cui discende la applicazione disciplina della retrodatazione del termine di inizio della custodia.
Conclusioni
La sentenza su emarginata è sicuramente condivisibile in quanto si allinea lungo il solco di un orientamento nomofilattico consolidato.
E’ infatti costante quell’indirizzo interpretativo (e citato in questa stessa pronuncia) secondo il quale la retrodatazione prevista dall’art. 297, comma 3, c.p.p. presuppone che i fatti oggetto dell’ordinanza rispetto alla quale operare la retrodatazione siano stati commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza e tale condizione non sussiste nell’ipotesi in cui l’ordinanza successiva abbia ad oggetto la contestazione del reato di associazione di stampo mafioso con descrizione del momento temporale di commissione mediante una formula cosiddetta aperta, che faccia uso di locuzioni tali da indicare la persistente commissione del reato pur dopo l’emissione della prima ordinanza.
Pertanto, solo rispetto a condotte illecite anteriori all’inizio della custodia cautelare disposta con la prima ordinanza, può ragionevolmente operarsi la retrodatazione di misure adottate in un momento successivo, come si desume dalla lettera dell’art. 297, comma 3, c.p.p., che prende in considerazione solo i “fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza”.
Tal che ne deriva come la retrodatazione non possa operare in riferimento a condotte illecite posteriori all’inizio della custodia cautelare disposta con la prima ordinanza, e quindi non sia applicabile per detti casi quanto previsto dall’art. 297, c. 3, c.p.p..
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