Indice
- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
- Conclusioni
1. Il fatto
La Corte di Appello di Messina aveva confermato una sentenza del Tribunale di Patti con la quale era stato condannato un imputato per il reato di cui all’art. 337 cod. pen..
In particolare, all’accusato gli era stato contestato di aver usato minaccia nei confronti di un ispettore della Polizia municipale impegnato in un servizio di traffico stradale, tentando di strappargli il bollettario delle contravvenzioni, mentre si accingeva ad elevargli una contravvenzione.
2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento emesso dai giudici di seconde cure proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato, deducendo i seguenti motivi:
1) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 337 cod. pen. e 192 e 530 cod. proc. pen. in quanto, ad avviso del ricorrente, la Corte di Appello avrebbe omesso di esaminare il motivo specifico di appello sulla idoneità della condotta ad integrare il reato contestato;
2) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 131-bis cod. pen. poiché, per la difesa, il fatto commesso non era stato grave;
3) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 56 e 337 cod. pen. atteso che, per il legale, la Corte di Appello non aveva considerato che l’imputato non aveva impedito al vigile di redigere il verbale, risultando quella della redazione degli atti negli uffici una prassi diffusa per motivi di comodità.
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3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso era dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.
Per quanto concerne il primo motivo, gli Ermellini osservavano che, se la Corte di Appello aveva esaminato il motivo di appello, il ricorso, invece, a loro avviso, proponeva soltanto una diversa e non consentita lettura del compendio probatorio.
Ciò posto, quanto al secondo motivo, per i giudici di piazza Cavour, la risposta della Corte di appello era stata puntuale, adeguata e priva di manifeste illogicità (ancorata alla concreta gravità della condotta tenuta dal ricorrente), proponendo il ricorrente per contro censure ancora una volta (reputate) non collegate alla trama argomentativa della sentenza impugnata e di puro merito.
In ordine al terzo motivo, infine, la Suprema Corte richiamava, a sostegno della sua reiezione, quell’orientamento nomofilattico secondo cui non è necessario, ai fini dell’integrazione del delitto, che sia concretamente impedita la libertà di azione del pubblico ufficiale, essendo sufficiente che si usi violenza o minaccia per opporsi al compimento di un atto dell’ufficio o del servizio, indipendentemente dall’esito, positivo o negativo, di tale azione e dall’effettivo verificarsi di un ostacolo al compimento degli atti indicati (tra tante, Sez. 6, n. 5459 del 08/01/2020).
4. Conclusioni
La decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, quando si può ritenere configurabile il tentato delitto di resistenza a un pubblico ufficiale.
Difatti, in tale pronuncia, è affermato che, ai fini dell’integrazione del delitto de quo, non è necessario che sia concretamente impedita la libertà di azione del pubblico ufficiale, essendo sufficiente che si usi violenza o minaccia per opporsi al compimento di un atto dell’ufficio o del servizio, indipendentemente dall’esito, positivo o negativo, di tale azione e dall’effettivo verificarsi di un ostacolo al compimento degli atti indicati.
Dunque, ove ricorra una situazione di questo genere, ben potrà ritenersi contestato e accertato siffatto reato.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica giuridica, quindi, non può che essere positivo.
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