Quando i disturbi della personalità possono rientrare nel concetto di infermità

Il fatto 

La Corte di Appello di Palermo, in parziale riforma della pronuncia del G.U.P. del tribunale di Palermo datata 23 marzo 2016, riduceva la pena inflitta all’imputato in ordine ai reati di estorsione, lesioni personali e violenza a pubblico ufficiale, concessa al predetto la circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4 ritenuta equivalente alla contestata recidiva, ad anni 3, mesi 5, giorni 10 di reclusione ed Euro 800,00 di multa.

Si legga anche:” Il reato di circonvenzione di incapace. Applicabilità della norma incriminatrice anche quando l’incapacità di intendere della vittima è solo parziale”

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato che deduceva con distinti motivi: a) vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e) posto che la Corte di Appello aveva omesso di valutare la richiesta difensiva di concessione del vizio parziale di mente limitandosi a motivare il diniego del vizio totale sicché mancava qualsiasi giustificazione delle ragioni per le quali ritenere insussistente la circostanza di cui all’art. 89 c.p.; b) vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), nonché travisamento della prova costituita dalla perizia psichiatrica laddove si era negato che il disturbo della personalità, pur riconosciuto, fosse di intensità tale da incidere sulla capacità dell’imputato così negandosi applicazione ai principi dettati dalle Sezioni Unite con la pronuncia 9163 del 2005; c) erronea applicazione della legge penale ed in specie degli artt. 88 e 89 c.p. non potendosi fare riferimento al criterio ormai superato della malattia mentale; d) vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e) ed erronea applicazione della legge penale quanto al riconoscimento della recidiva.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione

Il ricorso veniva ritenuto infondato alla stregua delle seguenti considerazioni.

Quanto al primo motivo, veniva osservato come la Corte di Appello di Palermo non avesse in alcun modo omesso di valutare la questione proposta con i motivi subordinati di appello del difetto parziale di capacità poiché era stato espressamente negato, sulla base delle conclusioni della perizia, che “il disturbo della personalità riconosciuto all’imputato non risulta di una gravità ed intensità tale da avere inciso sulla capacità di intendere e volere…così come risulta dalla disamina dei fatti…che appaiono essere sintomatici di una spiccata capacità delinquenziale del S. …piuttosto che di una grave patologia incidente sulla sua imputabilità”.

Pertanto, ad avviso della Corte, con tali precise affermazioni, il giudice di appello, dopo avere proceduto a perizia in fase di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, escludeva non soltanto il vizio totale ma, altresì, qualsiasi compromissione della capacità di intendere e volere penalmente rilevante, senza incorrere pertanto nel lamentato difetto di motivazione.

In relazione al secondo motivo, con il quale veniva prospettata una errata applicazione di principi giurisprudenziali, il Supremo Consesso faceva presente come, secondo l’interpretazione delle Sezioni Unite, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità“, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità” purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale; nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato pertanto ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati nonché agli stati emotivi e passionali salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità” (Sez. U, n. 9163 del 25/01/2005).

Orbene, declinando tale criterio ermeneutico rispetto al caso di specie, si evidenziava come la Corte di Appello palermitana avesse fatto una corretta applicazione della seconda parte del suddetto principio rilevando proprio, anche alla luce delle modalità di consumazione dei delitti e quindi sulla base di un preciso giudizio di fatto non censurabile in sede di legittimità, che il disturbo della personalità dell’imputato, pur rendendo lo stesso affetto da comportamento antisociale, non fosse in alcun modo idoneo ad incidere sulla sua capacità avendo mantenuto lo stesso le condizioni di valutare il rilievo dei propri atti tenuto conto altresì del fatto che la giurisprudenza, successiva l’intervento delle citate Sezioni Unite, aveva sia chiarito che gli impulsi della azione, pur riconosciuta come riprovevole dall’agente, devono essere tali da vanificare la capacità di apprezzarne le conseguenze (Sez. 5, n. 8282 del 09/02/2006), sia, ancora, affermato come per essere rilevante il disturbo della personalità va valutato solo ove ricorra un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato da quello specifico disturbo mentale (Sez. 6, n. 18458 del 05/04/2012).

Tal che se ne faceva discendere l’applicazione dei sopra esposti principi al caso in esame paresse proprio fare concludere per l’infondatezza del ricorso posto che le modalità della estorsione compiuta in danno del codetenuto, perpetuata nel tempo al fine di ottenere la cessione di beni di poco valore, escludevano comunque l’attuazione di condotte determinate da stati non controllabili mentre la consumazione delle condotte in danno dei pubblici ufficiali appariva essere avvenuta in un contesto di chiara volontà di sopraffazione dell’attività degli agenti penitenziari ed al fine di impedire una perquisizione nei propri confronti con chiara valutazione delle conseguenze della propria azione.

Conclusioni

La decisione in questione è assai interessante nella parte in cui spiega come e in che termini il disturbo della personalità possa rientrare nel concetto di infermità.

Difatti, in tale pronuncia, richiamandosi una decisione delle Sezioni Unite del 2005 e talune sentenze emesse dalle Sezioni semplici successivamente, viene fatto presente che i disturbi della personalità possono rientrare nel concetto di “infermità” purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale mentre nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità“.

In altri termini, se è vero che gli impulsi della azione, pur riconosciuta come riprovevole dall’agente, devono essere tali da vanificare la capacità di apprezzarne le conseguenze, è altrettanto vero che, per essere rilevante il disturbo della personalità, va valutato solo ove ricorra un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato da quello specifico disturbo mentale.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché fa chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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