(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 442)
Il fatto
Il Tribunale di Como, all’esito di giudizio abbreviato, condannava l’imputato alla pena di due mesi di arresto per il reato di cui all’art. 699 cod. pen. per avere portato fuori dalla propria abitazione un coltello a serramanico, arma per cui non è ammessa licenza.
In assenza di una precisazione del capo di imputazione in ordine a quale, fra le due distinte ipotesi regolate dall’art. 699 cod. pen., fosse contestata all’imputato, il giudice, pur ritenendo integrato il fatto storico descritto nel capo di imputazione, applicava la pena prevista dal primo comma dell’art. 699 cod. pen. (arresto fino a diciotto mesi) in quanto determinava la pena-base in tre mesi di arresto. Su di essa operava la riduzione di un terzo per il rito abbreviato.
Avverso la predetta sentenza proponeva appello l’imputato il quale formulava due motivi di doglianza deducendo: a) l’erronea qualificazione giuridica del fatto da ricondurre nell’ambito della previsione dell’art. 4, secondo e terzo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, e non dell’art. 699, primo comma, cod. pen.; b) l’erronea riduzione della pena per il rito operata nella misura di un terzo, anziché della metà, come stabilito dall’art. 442 cod. proc. pen. per le contravvenzioni.
La Corte di appello di Milano, dal canto suo, riqualificava il fatto ai sensi dell’art. 4 della legge n. 110 del 1975 escludendo l’ipotesi del fatto di lieve entità ma, nel ravvisare la fondatezza del motivo di impugnazione relativo all’erronea diminuzione per il rito, non operava in concreto alcuna diminuzione della pena osservando che la stessa, pur in assenza della riduzione per il giudizio abbreviato nella misura della metà, era comunque più favorevole all’imputato rispetto a quella prevista dall’art. 4 della citata legge n. 110 del 1975 che stabilisce un minimo edittale di sei mesi di arresto.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il suddetto provvedimento, veniva proposto ricorso per Cassazione deducendosi violazione di legge in relazione alla determinazione della pena sotto i seguenti profili.
La sentenza impugnata aveva ritenuto fondati i motivi di appello, riguardanti non solo la diversa qualificazione del fatto, ma anche l’entità della diminuente per il rito, pari ad un terzo invece che alla metà, prevista dall’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. per i reati contravvenzionali ma tale maggiore riduzione non era stata in concreto applicata in quanto la Corte territoriale l’aveva ritenuta assorbita nella quantificazione della pena inflitta dal Tribunale in misura erroneamente inferiore al minimo edittale.
In tal modo, però, secondo il ricorrente, era stato eluso il chiaro disposto normativo che impone al giudice di operare la riduzione per il rito in modo predeterminato a seconda che si tratti di delitto o di contravvenzione tenuto conto altresì del fatto che era stata effettuata una non consentita commistione dei motivi di appello accolti, i quali avrebbero dovuto essere esaminati distintamente disponendo, dapprima, la riqualificazione del fatto, ferma la pena-base inflitta in primo grado, per non incorrere nel divieto di reformatio in pejus e, successivamente, diminuendo detta pena per il rito nella misura corretta.
La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione
La Prima Sezione penale della Cassazione, investita della decisione sul ricorso, rilevava preliminarmente come il giudice di primo grado avesse affermato la piena fondatezza dell’imputazione senza discostarsi dall’ipotesi storico-giuridica formulata dal pubblico ministero (porto abusivo di un’arma per cui non è ammessa licenza) comportante la previsione edittale di pena compresa tra il minimo di diciotto mesi e il massimo di tre anni di arresto.
Pertanto, dal momento che la pena di tre mesi di arresto in concreto irrogata nei suoi confronti era evidentemente riferita alla cornice edittale prevista per la diversa fattispecie di porto di arma senza licenza (art. 699, primo comma, cod. pen.) stabilita fra il minimo di tre mesi e il massimo di diciotto mesi di arresto, essa, ad avviso di questa Sezione, doveva pertanto ritenersi illegale.
Oltre a ciò, veniva osservato come la decisione della Corte di appello di non ridurre la pena inflitta — così avendo ritenuto di doversi discostare dal principio di cui all’art. 597, comma 4, cod. proc. pen., destinato a regolare gli effetti dell’accoglimento dell’appello dell’imputato su circostanze o reati concorrenti – nonostante la riconosciuta erroneità della misura della diminuente per il rito in presenza di un reato contravvenzionale, fosse conforme all’orientamento giurisprudenziale per il quale l’irrogazione in primo grado di una pena illegale vantaggiosa per l’imputato consente di negare in appello effetti di ulteriore favore.
Pur tuttavia, si faceva presente come a questo indirizzo esegetico se ne contrapponesse, però, un altro in base al quale il trattamento sanzionatorio che abbia comportato una pena illegale di favore per l’imputato è intangibile in mancanza dell’impugnazione del pubblico ministero.
L’ordinanza sottolineava, inoltre, che la diminuente per il rito abbreviato ha natura processuale, pur con ricadute sostanziali sulla misura della pena, e ha un’incidenza predeterminata su quest’ultima costituendo in definitiva un posterius delle altre operazioni di commisurazione della pena.
Si rimetteva, pertanto, il ricorso alle Sezioni Unite per la soluzione del contrasto.
Le argomentazioni sostenute dalla Procura generale presso la Cassazione
Nella propria requisitoria, il Pubblico Ministero aveva preliminarmente individuato il tema centrale della questione nella configurabilità del principio di intangibilità della pena illegale di favore quale immanente al sistema penale ovvero quale derivazione processuale del divieto di reformatio in pejus rammentando come le Sezioni Unite di questa Corte avessero più volte evidenziato l’esigenza di tutela della libertà personale rispetto alla pena illegale sfavorevole mentre analoghe ragioni di intervento correttivo officioso non si registravano con riferimento alla pena illegale di favore.
Sulla base di tale premessa, si argomentava che per la pena illegale sfavorevole prevale la necessità di riparazione dell’errore mentre, per la pena illegale di favore, viene ad essere privilegiata la conservazione dell’errore con la conseguente necessità, tuttavia, di non amplificarne la portata.
Ciò posto, si osservava altresì come a quest’ultima necessità non sfugga la diminuente per il rito abbreviato che, pur nelle sue caratteristiche premiali, non può che operare all’interno di un sistema di sanzioni legali.
Si chiedeva quindi il rigetto del ricorso osservando che il giudice di appello non è tenuto ad applicare la diminuente del rito abbreviato nella maggiore misura prevista dalla legge ove all’imputato sia stata inflitta una pena illegale allo stesso favorevole.
Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Prima di entrare nel merito della questione, le Sezioni Unite procedevano a delimitarla nei seguenti termini: “Se il giudice di appello, investito dell’impugnazione del solo imputato che, giudicato con il rito abbreviato per reato contravvenzionale, lamenti l’illegittima riduzione della pena ai sensi dell’art. 442 cod. proc. pen. nella misura di un terzo anziché della metà, debba applicare detta diminuente nella misura di legge, pur quando la pena irrogata dal giudice di primo grado non rispetti le previsioni edittali e sia di favore per l’imputato”.
Premesso ciò, si osservava prima di tutto che, in caso di giudizio abbreviato, la diminuzione di un terzo della pena, originariamente prevista per tutti i reati dall’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., è stata stabilita nella misura della metà per i reati contravvenzionali a seguito della modifica introdotta dall’art. 1, legge 23 giugno 2017, n. 103.
Detto questo, si evidenziava come la Corte di legittimità, a sua volta, in conformità ai principi enunciati da Sez. U, n. 25887 del 26 marzo 2003, abbia affermato che tale disposizione innovativa si applica, ai sensi dell’art. 2, quarto comma, cod. pen., anche ai fatti anteriormente commessi, purché sugli stessi non si sia formato il giudicato (Sez. 4, n. 5034 del 15/01/2019; Sez. 4, n. 832 del 15/12/2017) rilevandosi al contempo come tali condizioni ricorressero nel caso di specie atteso che la natura processuale della diminuente per il rito, in quanto non attiene alla valutazione del fatto-reato e alla personalità dell’imputato, non contribuisce a determinare in termini di disvalore la quantità e gravità criminosa consistendo in un abbattimento fisso e predeterminato connotato da automatismo senza alcuna discrezionalità valutativa da parte del giudice fermo restando però le caratteristiche della diminuente si presentano collegate con effetti di sicuro rilievo dal punto di vista sostanziale derivandone, come rilevato in più occasioni dalle Sezioni Unite, un trattamento sanzionatorio più favorevole (Sez. U, n. 45583 del 25/10/2007; Sez. U, n. 44711 del 27/10/2004; Sez. U, n. 2977 del 6/3/1992).
Chiarito ciò, si denotava inoltre come l’ordinanza di rimessione richiamasse, con riguardo alla questione proposta, due orientamenti contrastanti nella giurisprudenza di legittimità sulla doverosità o meno dell’applicazione da parte del giudice d’appello di un effetto sanzionatorio favorevole all’imputato qualora la pena inflitta in primo grado sia inferiore al minimo edittale precisandosi al contempo che i due indirizzi esegetici non si sono specificamente formati sulla questione rimessa alla cognizione del Collegio ma hanno trattato casi esplicitamente riconducibili alle fattispecie previste dall’art. 597, comma 4, cod, proc. pen., secondo il quale «in ogni caso, se è accolto l’appello dell’imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione, la pena complessiva irrogata è corrispondentemente diminuita».
In particolare, un primo orientamento (Sez. 3, n. 7306 del 25/01/2007) afferma che il comma 4 dell’art. 597 cod. proc. pen. presuppone che la pena, sulla quale si dovrebbe operare la riduzione per effetto dell’accoglimento dell’appello proposto dall’imputato, sia stata irrogata nel rispetto dei limiti di legge dato che, in assenza di questa condizione, la riduzione ulteriore della pena determinerebbe il perpetuarsi di una situazione di illegalità creatasi in primo grado a seguito di un trattamento sanzionatorio non conforme alle previsioni edittali facendosi contestualmente presente come queste considerazioni siano state riprese in altra decisione (Sez. 5, n. 51615 del 17/10/2017) che ha ritenuto non violato il divieto di reformatio in peius in un caso in cui il giudice d’appello, nel giudizio di rinvio disposto dalla Corte di Cassazione ai fini della rideterminazione della pena del reato continuato conseguente alla prescrizione di alcuni reati posti in continuazione, non aveva ridotto la pena complessivamente inflitta in quanto la stessa era stata illegalmente determinata a vantaggio dell’imputato in misura inferiore al minimo edittale.
L’affermazione del principio, per il quale l’applicazione dell’art. 597, comma 4, cod. proc. pen. presupporrebbe la determinazione della pena in misura non illegittimamente inferiore al minimo edittale, si ritrova, poi, a sua volta, nel percorso motivazionale di altre sentenze sia pure congiuntamente a considerazioni diverse sull’ulteriore principio che consentirebbe la rideterminazione complessiva della pena a seguito del mutamento della struttura del reato continuato per effetto dall’assoluzione in appello per il reato ritenuto più grave in primo grado (Sez. 3, n. 39882 del 03/10/2007) ovvero laddove all’appello dell’imputato sull’esclusione della recidiva, accolto in secondo grado, si aggiunga l’appello del pubblico ministero sull’illegittima determinazione della pena-base (Sez. 4, n. 6966 del 20/11/2012).
Un secondo orientamento (Sez. 5, n. 44088 del 09/05/2019), invece, confuta tali argomentazioni osservando che le stesse, per un verso, non rispettano il tenore letterale dell’art. 597, comma 4, cod. proc. pen. nel quale non si fa menzione del presupposto applicativo della conformità ai limiti edittali della pena irrogata in primo grado e per altro si pongono in contrasto con il principio, affermato dalla stessa giurisprudenza della Corte Suprema (Sez. 2, n. 30198 del 10/09/2020; Sez. 3, n. 34139 del 07/06/2018), di intangibilità della pena pure illegittimamente irrogata in termini favorevoli all’imputato, conseguente alla mancata impugnazione del pubblico ministero.
Con la sentenza in commento si è ritenuta pertanto illegittima, in una fattispecie di declaratoria di estinzione per prescrizione, in secondo grado, di due reati contravvenzionali già ritenuti satelliti nell’ambito di una continuazione, la conferma della pena irrogata in primo grado senza provvedere alla decurtazione degli aumenti corrispondenti ai reati prescritti, giustificata con il mancato rispetto del minimo edittale previsto per il reato più grave osservandosi a tal riguardo che la decisione del giudice di merito si risolveva nella sostanziale negazione delle riduzioni della pena dovute all’imputato in conseguenza della dichiarata estinzione dei reati.
Ciò posto, si evidenziava inoltre come, proprio in quanto riferiti, sia pure con opposte letture, alla previsione di cui all’art. 597, comma 4, cod. proc. pen., i due indirizzi in contrasto, tuttavia, non affrontino in realtà la tematica relativa all’applicabilità della diminuente del rito abbreviato ad una pena illegittimamente determinata in primo grado in senso favorevole all’imputato posto che la norma, nella struttura testuale in precedenza riportata, fa esplicito ed esclusivo richiamo alla inderogabilità dell’applicazione degli effetti sanzionatori favorevoli derivanti per l’imputato dall’accoglimento dell’appello che abbia comportato l’esclusione di reati concorrenti o di circostanze aggravanti, ovvero il riconoscimento di circostanze attenuanti e dunque l’ipotesi del mancato riconoscimento della diminuente del rito abbreviato non è contemplata in un dato letterale specificamente descrittivo di altre fattispecie il che non consente di attribuire alla norma citata, anche intendendola applicabile ai casi di illegittimità della pena nel senso poc’anzi indicato in conformità al secondo degli orientamenti giurisprudenziali in precedenza richiamati, un’efficacia direttamente risolutiva della questione rimessa a queste Sezioni Unite.
La sentenza n. 44088/2019 non porta tuttavia, a sostegno della seconda opzione interpretativa, unicamente la descritta visione della tematica relativa all’operatività del citato art. 597, comma 4, c.p.p. in quanto se, come già esposto prima, ulteriori argomenti in tal senso sono tratti dal principio giurisprudenziale di intangibilità della pena illegittima di favore, quello che però interessava mettere in evidenza da parte delle Sezioni Unite è che a tale principio si dà concreta consistenza, nella motivazione della decisione, rilevando come nel caso di specie una diversa lettura avrebbe condotto al diniego di diminuzioni della pena costituenti la conseguenza, dovuta per legge, della eliminazione delle porzioni di pena corrispondenti a reati, facenti parte della riconosciuta continuazione, dichiarati estinti per prescrizione in accoglimento dell’appello dell’imputato tenuto conto altresì del fatto che questo riferimento applicativo, nel porre l’accento sulla doverosità di benefici derivanti dalla ritenuta fondatezza di un motivo di appello, richiama a ben guardare l’attenzione sulla rilevanza, per la questione in esame, di un altro principio generale posto dall’art. 597 cod. proc. pen.; in particolare, il principio devolutivo previsto dal comma 1 della norma.
Oltre a ciò, veniva tra l’altro rilevato come il principio appena indicato sia stato tradotto normativamente dalla disposizione citata limitando la cognizione del giudice di secondo grado ai «punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti» considerato che anche la già menzionata giurisprudenza delle Sezioni Unite sull’applicazione del comma 4 dell’art. 597 c.p.p. ha ricondotto le prescrizioni di detta norma alla più generale operatività del principio devolutivo per il quale l’individuazione della cognizione del giudice di appello nell’ambito dei motivi proposti restringe il contenuto della decisione all’accoglimento o alla reiezione di tali motivi, non consentendo di operare su punti diversi da quelli toccati dall’impugnazione (Sez. U, n. 33752 del 18/04/2013; Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005).
A questa implicazione del principio, rilevata anche in altra occasione prescindendo dal riferimento alle particolari fattispecie di cui all’art. 597, comma 4 (Sez. U, n. 10251 del 17/10/2006), si osservava come si fosse fatto più recente richiamo nell’escludere che il giudice di appello abbia il potere di applicare d’ufficio sanzioni sostitutive brevi, non richieste con l’atto di impugnazione, al di fuori delle ipotesi tassativamente indicate dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen. atteso il carattere eccezionale di detta norma rispetto al principio devolutivo (Sez. U, n. 12872 del 19/01/2017).
In particolare, è stato osservato che questo principio impone che, anche in materia di trattamento sanzionatorio, la cognizione del giudice di appello si eserciti unicamente sui punti relativi alle componenti di tale trattamento a cui si riferiscono specificamente i motivi di impugnazione proposti.
Tanto, con riguardo al caso di specie, comporta che, una volta riconosciuta la fondatezza di un motivo di appello che lamenta l’illegittima riduzione della pena in misura inferiore a quella prevista dalla legge per la diminuente del rito abbreviato, il giudice di secondo grado debba limitarsi ad adottare le conseguenti determinazioni in ordine alla rideterminazione di tale riduzione nella misura corretta omettendo di allargare la propria decisione ad altre componenti del trattamento sanzionatorio non investite dall’impugnazione.
Ebbene, ad avviso degli Ermellini, questa non consentita estensione della cognizione del giudice di appello si verificherebbe invece ove, in ragione di una ritenuta illegittimità in senso favorevole all’imputato della pena-base determinata in primo grado rispetto al limite minimo edittale, si mantenesse la pena complessiva nella dimensione stabilita con la sentenza appellata visto che in tal modo si compenserebbe di fatto la riduzione non applicata per la diminuente del rito con un corrispondente indiretto effetto di aumento della pena-base attingendo in senso sfavorevole all’imputato il tema della misura di quest’ultima e, quindi, un punto non devoluto con l’impugnazione.
Del resto, la stessa giurisprudenza di legittimità ha peraltro evidenziato un’ulteriore implicazione del principio devolutivo che alla sua immediata lettura in termini negativi – nel senso del divieto di estendere la cognizione del giudice di appello a punti diversi da quelli oggetto dei motivi di impugnazione proposti – ne aggiunge un’altra con la positiva affermazione di un obbligo dello stesso giudice di provvedere sul contenuto del gravame trattandosi della coessenzialità al principio devolutivo del potere-dovere del giudice dell’impugnazione di esaminare e decidere le richieste dell’impugnante; di conseguenza, secondo gli Ermellini una volta che sia stato proposto uno specifico motivo di appello, il giudice è tenuto a pronunciarsi sul tema dedotto (Sez. U, n. 1 del 19/01/2000) fermo restando che questa conclusione, formulata con riguardo all’omessa pronuncia su un motivo riguardante il riconoscimento della continuazione fra i reati contestati, è stata confermata in relazione all’impugnazione concernente la misura dei singoli aumenti di pena applicati nell’ambito della continuazione (Sez. 3, n. 550 del 11/09/2019) e, quindi, con specifica attinenza alla determinazione quantitativa del trattamento sanzionatorio per effetto dell’istituto del cumulo giuridico delle pene che opera in favore dell’imputato.
Alla luce di questa (ritenuta dalla Corte) condivisibile rappresentazione del contenuto sostanziale del principio devolutivo, una volta che sia dedotta al giudice di appello una questione sulla lamentata violazione di legge nella commisurazione della diminuente del rito abbreviato a favore dell’imputato, la stessa, sempre per il Supremo Consesso, deve essere esaminata e, ove ritenuta fondata, deve comportare le conseguenti determinazioni da parte del giudice.
D’altronde, le considerazioni che precedono in ordine all’obbligo per il giudice di appello di rispondere specificamente ai motivi proposti con l’impugnazione e sulle questioni con gli stessi devolute, derivante in linea generale dal principio posto dall’art. 597, comma 1, cod. proc. pen., trovano, ad avviso della Suprema Corte, ulteriore e decisivo sostegno, con riguardo alla fattispecie in esame, nel collegamento della norma appena citata con quella di cui all’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. dato che la stessa prevede categoricamente la diminuzione della pena nella misura della metà per effetto dell’opzione difensiva per il rito abbreviato nei procedimenti nei quali sono contestati reati contravvenzionali.
Il carattere tassativo di questa previsione nell’indicazione del quantum della riduzione scolpisce, quindi, nitidamente il contenuto dell’obbligo decisorio sul punto al quale il giudice non può sottrarsi,spettando correlativamente all’imputato il diritto a vedersi decurtata la pena nella esatta dimensione prevista dalla legge fermo restando che l’inderogabilità dell’adempimento a tale obbligo è confermata dalla disposizione dell’art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen. per la quale il giudice del dibattimento, ove all’esito dello stesso ritenga erronea la declaratoria di inammissibilità della richiesta di giudizio abbreviato pronunciata dal giudice dell’udienza preliminare ai sensi del precedente comma 1-bis, è tenuto ad applicare la relativa diminuzione di pena.
A fronte di ciò, i giudici di piazza Cavour ritenevano inoltre da non doversi trascurare, sempre con riguardo al caso specificamente esaminato, il rilievo della previsione dell’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. dal momento che la citata disposizione interessava, non sotto il profilo del generale divieto di reformatio in pejus ivi normato, ma per la correlazione che stabilisce tra divieto di rideterminazione della pena in senso sfavorevole all’imputato ove quest’ultimo sia il solo appellante, e potere del giudice di dare al fatto una definizione giuridica più grave.
Ebbene, una volta dedotto che, nel caso in esame, il giudice di appello aveva riqualificato il fatto contestato (porto fuori della propria abitazione di un coltello a serramanico, arma per cui non è ammessa licenza) come violazione ex art. 4, secondo e terzo comma, della legge n. 110 del 1975, la cui pena edittale, indicata nel minimo di sei mesi di arresto ed euro mille di ammenda, è sicuramente superiore a quella prevista dall’art. 699, primo comma, cod. pen., su cui il giudice di primo grado aveva fondato la determinazione del trattamento sanzionatorio, le Sezioni Unite notavano come sotto questo aspetto assumesse rilievo l’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. che impone al giudice di appello, in presenza dell’impugnazione del solo imputato, di non modificare in senso sfavorevole a quest’ultimo la pena determinata per un fatto, pur se sottoposto ad una diversa e più grave qualificazione nel giudizio di secondo grado e ciò anche perchè tale approdo esegetico è stato confermato dai principi affermati dalle Sezioni Unite (da ultima Sez. U, n. 3423 del 29/10/2020) in tema di certezza e completezza della pena risultante da un giudicato non più soggetto ad impugnazione da parte di soggetti processuali diversi dall’imputato.
Da ciò se ne faceva discendere come non potesse tenersi conto nel caso di specie di tematiche non devolute al giudice di secondo grado come quelle relative alla legittimità della pena-base rispetto ai minimi edittali.
In tale prospettiva, il riferimento alla previsione dell’art. 597, comma 4, cod. proc. pen., non direttamente applicabile al caso in esame per le ragioni in precedenza illustrate, recupera quindi per la Suprema Corte un suo significato ermeneutico a sostegno della conclusione appena esposta la cui ratio riceve conforto dalle finalità che hanno giustificato l’introduzione della predetta norma.
Con riguardo a tali finalità, la giurisprudenza delle Sezioni Unite ha più volte sottolineato la portata integrativa del citato comma 4 dell’art. 597 cod. proc. pen. rispetto al generale divieto di reformatio in pejus di cui al precedente comma 3 della medesima disposizione.
Sono tre gli aspetti più significativi che venivamo messi in rilievo nella sentenza qui in commento: l’obbligo di diminuzione della pena, in termini corrispondenti all’accolto motivo di appello dell’imputato, anche quando l’impugnazione sia stata altresì proposta dal pubblico ministero (Sez. U, n. 5978 del 12/05/1995); il divieto di irrogazione, da parte del giudice di appello, di una pena più grave in mancanza di impugnazione del pubblico ministero; la doverosità della diminuzione della pena nelle ipotesi indicate (Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005).
Da ciò se ne faceva conseguire come sia, dunque, possibile ritenere che l’art. 597, comma 4, cod. proc. pen. comprenda anche una componente sostanzialmente rafforzativa e additiva rispetto al divieto di modifica della pena in senso peggiorativo per l’imputato, sancito dal comma 3 (Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014; Sez. U, n. 33752 del 18/04/2013).
Orbene, una volta precisato ciò, i giudici di legittimità ordinaria evidenziavano come il significato effettivo della norma, con particolare riguardo alla specificazione dei casi in cui ne è prevista l’operatività, sia stato sottolineato dalla sentenza della Sezioni Unite n. 40910/2005 alla luce della Relazione preliminare al codice di procedura penale del 1988 la quale osservava a questo proposito che il divieto di reformatio in pejus, sotto la vigenza del codice abrogato, veniva di fatto eluso da interpretazioni giurisprudenziali che lo consideravano riferibile unicamente alla pena complessivamente inflitta, consentendo di privare di conseguenze il proscioglimento dell’imputato da talune delle imputazioni contestate, l’esclusione di circostanze aggravanti o il riconoscimento di circostanze attenuanti, purché detta pena non fosse aumentata.
La lettura logico-sistematica della previsione normativa, accompagnata dai lavori preparatori e dalla Relazione, per il Supremo Consesso, consente di affermare che il divieto di reformatio in pejus è norma, sì, eccezionale, rispetto al principio costituzionale di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.) ma tale principio deve essere posto in bilanciamento con il diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost. la cui pienezza ed effettività trova espressione (tra l’altro) nel diritto di proporre impugnazione.
In questa prospettiva, quindi, secondo le Sezioni Unite, l’accoglimento di censure validamente proposte mediante l’atto di impugnazione dell’imputato che lamenti l’inosservanza e la violazione di legge in ordine ad una delle componenti del trattamento sanzionatorio (nel caso in esame la corretta entità della riduzione per il rito prevista per il reato contravvenzionale) non può essere neutralizzato da improprie forme di “compensazione” con altro punto ad esso inerente, quale l’erronea individuazione della pena in violazione dei minimi edittali, non devoluto alla cognizione del giudice posto che, in tal modo, oltre a violare le previsioni contenute nell’art. 597, commi 1 e 3, cod. proc. pen., si vanificherebbe l’effettività del diritto di difesa che postula non solo l’accesso al mezzo di impugnazione ma anche, a fronte di un motivo fondato ritualmente prospettato, un provvedimento giudiziale che offra reale risposta e concreto rimedio al vizio dedotto.
A fronte di queste considerazioni, per la Suprema Corte, appariva priva di pregio l’argomentazione che giustifica la mancata riduzione della pena inflitta in violazione dei minimi edittali dal primo giudice in presenza dell’accoglimento di un motivo di appello sul trattamento sanzionatorio con l’esigenza di non aggravare le conseguenze di un errore commesso nel precedente grado di giudizio tenuto conto altresì del fatto che, da un lato, l’adesione a questa interpretazione aggiungerebbe in realtà un errore ulteriore, sia pure di segno opposto, rispetto a quello riscontrato, dall’altro, d’altra parte, l’ordinamento appresta, in situazioni analoghe, i suoi fisiologici rimedi laddove attribuisce al pubblico ministero la facoltà di proporre impugnazione avverso una sentenza di condanna ad una pena che violi i minimi edittali.
La mancata iniziativa dell’organo funzionalmente competente, del resto, non può essere surrogata da un intervento correttivo officioso del giudice di secondo grado che, superando la preclusione formatasi sul punto, si tradurrebbe, per un verso, nella non consentita estensione della cognizione oltre i limiti del tema devoluto, e, per altro verso, nella omissione del dovere di rispondere compiutamente al motivo di gravame proposto dall’imputato, dando piena attuazione alla richiesta con esso legittimamente dedotta.
Non veniva infine ritenuto pertinente il richiamo, operato dal primo orientamento, ai poteri officiosi del giudice dell’impugnazione in presenza di una pena illegale dal momento che la giurisprudenza ha utilizzato la categoria della illegalità della pena con riferimento esclusivo ai casi in cui la sanzione applicata dal giudice sia di specie più grave di quella prevista dalla norma incriminatrice o superiore ai limiti edittali indicati nella stessa (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015; Sez. 4, n. 19765 del 21/01/2015; Sez. 1, n. 38712 del 23/01/2013; Sez. 5, n. 3945 del 13/11/2002; Sez. 3, n. 3877 del 14/11/1995) trattandosi, all’evidenza, di situazioni in cui la pena illegale ridonda in senso sfavorevole all’imputato e sono quindi ben diverse da quelle in cui la illegittima determinazione del trattamento sanzionatorio produce un risultato allo stesso favorevole.
Le Sezioni Unite, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, affermavano il seguente principio di diritto: “Il giudice di appello, investito dell’impugnazione del solo imputato che, giudicato con il rito abbreviato per reato contravvenzionale, lamenti l’illegittima riduzione della pena ai sensi dell’art. 442 cod. proc. pen. nella misura di un terzo anziché della metà, deve applicare detta diminuente nella misura di legge, pur quando la pena irrogata dal giudice di primo grado non rispetti le previsioni edittali, e sia di favore per l’imputato“.
Conclusioni
La sentenza in questione è assai interessante in quanto con essa, dirimendosi un contrasto giurisprudenziale, viene affermato il principio di diritto secondo cui il giudice di appello, investito dell’impugnazione del solo imputato che, giudicato con il rito abbreviato per reato contravvenzionale, lamenti l’illegittima riduzione della pena ai sensi dell’art. 442 cod. proc. pen. nella misura di un terzo anziché della metà, deve applicare detta diminuente nella misura di legge, pur quando la pena irrogata dal giudice di primo grado non rispetti le previsioni edittali, e sia di favore per l’imputato.
Tale decisione, quindi, ben può essere presa nella dovuta considerazione ove i giudici di seconde cure, qualora si verifichi una situazione di questo genere, non provvedano in tal senso.
Nel qual caso, infatti, si potrà impugnare in Cassazione un provvedimento di questo tipo richiamandosi tale arresto giurisprudenziale.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché fa chiarezza su cotale tematica procedurale, di conseguenza, non può che essere positivo.
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